Appropriazioni indebite
di Lea Melandri

Roma, 24 novembre 2007
Nella sua virulenza
liquidatoria di femminismi passati e presenti, fatti sparire dietro le
etichette ‘infamanti’ di “gruppi anarcoidi”, “centri sociali duri”,
“estremismi fascistoidi”, Miriam Mafai (Repubblica 25.11.07) ci ha
comunque chiarito che cos’è per lei -ma c’è motivo di credere per molti e
molte- “antipolitica”: tutto ciò che a livello di iniziativa pubblica,
collettiva, si muove fuori dalle forme organizzate della politica, che osa
contestarne i contenuti e le pratiche.
Chi ha memoria degli anni ’70 sa che tali furono considerati, anche dai
partiti di sinistra, quei movimenti antiautoritari che pensavano si
dovesse ridefinire la politica “andando alle radici dell’umano”,
interrogarla a partire dal suo atto fondativo, fonte prima di ogni
scissione -tra donne e uomini, famiglia e società, natura e storia,
barbarie e civiltà, norma e devianza.
Il separatismo dei gruppi femministi fu allora tutt’altro che “sterile”,
come vorrebbe far credere Mafai: nasceva, insieme a una autonomia di
pensiero sconosciuta a chi, come le donne, aveva dovuto far propria
forzatamente la visione del mondo dettata da altri, l’idea che tutto ciò
che era stato considerato fino allora “impolitico”, naturalizzato e reso
per ciò stesso immodificabile -corpo, sessualità, persona-, apparteneva
da sempre alla pòlis, incuneato al suo interno come speranza di
cambiamento e, al medesimo tempo, minaccia perenne di instabilità.
Oggi, di fronte alla
ripresa di un movimento di donne più articolato per età, collocazione
sociale, nazionalità, professione, orientamento sessuale, appartenenza
ideologica, il rapporto con le istituzioni politiche si fa più incalzante,
carico emotivamente del peso di una lunga storia di delusioni, conflitti
mai risolti, reso ancora più radicale dalla messa a tema del sessismo,
trasversale per quanto riguarda la denuncia del dominio maschile, ma non
certo indifferente rispetto alle questioni di giustizia sociale,
democrazia, modelli di sviluppo, ambiente, laicità, migrazione.
E’ vero, come alcuni
giornali hanno notato, che il femminismo che si è espresso per le strade
di Roma sabato 24 novembre è più “politicizzato”, se confrontato con
quello degli anni ’70, anche nel senso che si da tradizionalmente alla
parola “politica”.
Lo è nel dibattito tra i collettivi romani, e di alcune altre città, che
ha preceduto e dato avvio alla manifestazione, nei comunicati stampa delle
organizzatrici -là dove si sottolinea l’uso che viene fatto della
violenza contro le donne per politiche sicuritarie e repressive, la
volontà di salvaguardare l’autonomia del movimento rispetto al rischio di
‘appropriazioni indebite’ di qualsiasi colore politico.
Ma lo è anche per la composizione eterogenea dei gruppi che hanno dato la
loro adesione, condividendo un tema essenziale della manifestazione - una
violenza maschile “che comincia in famiglia e non ha confini”-, ma
chiedendo che si tenesse conto delle loro diverse pratiche politiche.
Da più parti si
chiedeva da tempo una “parola pubblica” che assumesse il rapporto di
potere tra i sessi con tutto il peso che ha avuto e ha tuttora nella sfera
privata e pubblica, nelle forme di civiltà che si sono espresse nella
storia, costruzioni di un protagonista unico.
Questa “parola” si è manifestata in un modo più diretto ed esteso di
quanto potevamo immaginare, come si può vedere scorrendo sul sito
www.controviolenzadonne.org i comunicati di adesione di consigli
comunali, provinciali, regionali, gruppi sindacali, partiti,
parlamentari, non meno numerosi e ampiamente motivati di quelli delle
associazioni femmiste.
Parole come “patriarcato”, “dominio maschile”, “violenza domestica”, sono
entrate nei luoghi che hanno parlato finora soltanto al neutro,
cancellando l’ ‘invisibilità’ del separatismo maschile nella sfera
pubblica, e mediatica in particolare.
Ma questo ‘accomunamento’, necessario se si vuole che la manifestazione
sia solo l’inizio di una forza collettiva capace di produrre cambiamenti
effettivi, dovrà sopportare l’urto di conflitti, tra donne prima di tutto,
e poi tra uomini e donne, associazioni e partiti, soggetti istituzionali e
non istituzionali della politica.
Le polemiche, queste davvero “sterili”, con cui ogni forma di dissenso e
di contestazione viene riportata dai media, sono la cancellazione del
conflitto, l’appiattimento dentro schemi oppositivi -estremismo e
moderazione, tolleranza e intolleranza, veterofemminismo e composta
modernità femminile.
Questo significa
anche che non si può far finta che l’informazione non sia a sua volta
ispirata da interessi economici e politici, preferenze ideologiche,
segnata nel suo linguaggio, nei suoi ‘valori’, nella sua idea di ‘democraticità’,
da un senso comune maschile, gerarchico, competitivo, patriarcale e
misogino, da cui non sono esenti per determinismo biologico le donne. Il
“parapiglia” di Piazza Navona”, contrabbandato come violenza e
intolleranza, estremismo fascistoide o ingenuità di alcune “oche”, ha, al
contrario, molto da insegnare.
Si è ripetuto, con una evidenza esemplare, direi quasi didattica, quello
che abbiamo sotto gli occhi da anni e che in questo caso era stato
previsto, prevenuto dalle organizzatrici: si era detto no al palco, per
evitare quella specie di ‘erezione’ conclusiva che fissa leaderismo,
rappresentanze autorevoli, gerarchie note, appropriazioni indebite.
Le piazze si sono
riempite senza palco negli anni ’70 e non sono mai state per questo meno
parlanti e prive di risonanza. Poteva accadere lo stesso a Piazza Navona,
quando a parlare erano gli striscioni, le riprese del corteo, i filmati.
Eppure a qualcuno quello spazio affollatissimo è parso ‘vuoto’: alle
ministre, alle parlamentari presenti e alla televisione, che, pur sapendo
di provocare la comprensibile rabbia di chi aveva organizzato il corteo,
non hanno esitato a ricostruire uno di quei salotti mediatici fatti per
consacrare volti già noti, egemonia di partiti e di governi, su tutto ciò
che si muove fuori dai canali istituzionali.
E’ un modo, che purtroppo non ci è nuovo, per spegnere le forze vive di un
Paese, le uniche, a questo punto, da cui si può ancora sperare che possa
venire un limite sia la populismo che al decrepito cerimoniale della
politica maschile.
servizio fotografico sulla manifestazione
29/11/2007
questo
articolo è uscito su Liberazione del 27 novembre 2007
con il titolo
Donne contro una decrepita politica maschile
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