Democrazia e crisi della virilità

di Lea Melandri


Il pericolo che molti vedono incombere sulla democrazia nel nostro Paese raramente viene associato alla crisi, più generale e più datata della politica: la modificazione lenta ma inarrestabile dei confini che per secoli hanno circoscritto e confuso lo spazio pubblico con il suo governo, le sue istituzioni, le sue leggi, i suoi linguaggi, e, prima ancora, con il dominio di un sesso solo. I sinceri democratici, difensori dei diritti, dei principi costituzionali, della civile convivenza, sembrano imputare la minaccia unicamente a forze politiche reazionarie, a leggi liberticide, a tentazioni populiste che offendono la compostezza del buon cittadino.
La personalizzazione smaccata che Silvio Berlusconi ha fatto della res publica, nel momento in cui ha ricoperto una delle più alte cariche istituzionali, ha finito inevitabilmente per catalizzare su di sé, e sulla corte ossequiente dei suoi ministri e sostenitori, una minaccia che ha ramificazioni ben più profonde e diffuse nel corpo sociale.
Se la nostra cultura  non si fosse dimostrata finora così ottusamente refrattaria ad accogliere analisi attente ai nessi tra corpo e politica, tra virilità e costruzione storica della sfera pubblica, risulterebbe evidente che tutto ciò che si è creduto di mettere al bando  -il femminile, la matrice biologica e pulsionale dell’umano- non ha mai smesso di abitare le contrade ordinate della città.
La violenza e le sue forme estreme, la guerra, la persecuzione del nemico interno ed esterno, l’odio-amore per i diverso, le appartenenze, le enfasi identitarie, i fondamentalismi, non vanno letti “come un semplice ritorno di un residuo arcaico  -scrive Stefano Ciccone nel suo libro Essere maschi (Rosenberg & Sellier, 2009)- ma come una forma moderna del conflitto politico, che trova come risorsa sempre nuova il richiamo patriarcale, il suo simbolico e il suo linguaggio”. E’ per questa ragione  che “risulta del tutto inadeguato fare appello –anche verso gli integralismi di casa nostra- a una comune nozione di modernità, di società dei diritti o delle regole, o riproporre una visione astrattamente liberale, quasi risorgimentale, della libertà e della democrazia per contrastarli.”

La norma e la trasgressione, l’ordine e la perdita di controllo, la legge e la sua sistematica violazione, il bene collettivo e l’egoismo individuale, la civiltà e la barbarie, non hanno mai smesso di affrontarsi e confondersi nello spazio pubblico, sotto la spinta di contesti economici e politici mutevoli, ma ubbidendo nel medesimo tempo a quella ‘invariante’ della storia che è l’identificazione dell’umano perfetto con la maschilità, e tutte le contrapposizioni che ha prodotto –tra l’amico e il nemico, il cittadino e lo straniero, il démos e il vulnus. Se oggi il ‘popolo’, a cui il Presidente del Consiglio promette libertà di mercato, consumi e intrattenimento, licenziosità e amore cristiano, assomiglia più al secondo che la primo, è perché sono saltati molti argini, tra la sfera delle ragioni storiche illuminate e il sottosuolo melmoso che hanno lasciato crescere a loro insaputa. L’irruzione del ‘femminile’ nella vita pubblica –inteso non solo come presenza quantitativa delle donne nel luogo da cui sono state tradizionalmente escluse, ma come protagonismo e rivalsa di tutto ciò che è stato identificato col ‘sesso debole’- non poteva non intaccare i fondamenti della politica, mettere in discussione i concetti di libertà, democrazia, uguaglianza, fraternità, diritto, ridefinire in modo meno astratto la figura del cittadino.

Se l’occasione di portare al centro della responsabilità collettiva la vita nella sua interezza si sta trasformando in ‘antipolitica’  -rovesciamento dei rapporti tra ordine e caos, realtà e immaginario, ragione e sentimenti- è perché si continuano ad ignorare i percorsi di liberazione e di allargamento dell’impegno politico aperti dalle culture alternative degli anni ’70, in particolare dal femminismo, e oggi dalle associazioni di uomini che si interrogano sulla storia dal punto di vista del sesso che ne è stato protagonista. Quello che molti di noi scoprirono allora, come insegnanti, operatori sociali, studenti, operai, nel momento in cui si abbandonavano gli strumenti tradizionali del controllo e della repressione, avrebbe dovuto allarmare molto più delle forze conservatrici che ci fecero guerra.

Le pratiche non autoritarie nella scuola, negli asili autogestiti, nelle assemblee autonome sorte all’interno delle fabbriche, che oggi  vengono additate da destra e da sinistra come la causa remota del degrado attuale, sono state, al contrario, il primo svelamento della massificazione precoce, la denuncia del caos che si cela dietro i sistemi istituzionali di controllo e sicurezza. “Eludendo la figura dell’adulto  -annotava Elvio Fachinelli in Masse a tre anni ( L’erba voglio, Einaudi, 1971)-, astrattamente considerata ‘autoritaria’, si vede sorgere una gerarchia di ferro, basata sulla forza e la prepotenza, che impronta di sé i rapporti dei bambini tra loro (…) sembra di trovarsi in una società violenta, tra il fascista e il mafioso”. Erano segnali piccoli ma inequivocabili, portati allo scoperto dalla consapevolezza delle mutilazioni che si era inflitta la politica, e dall’idea che bisognasse partire da lì, da quei corpi che arrivano all’asilo “già rattrappiti e coartati”, per trovare nuove forme d’amore e di convivenza umana. La crisi dell’autorità paterna nell’ambito famigliare, e il declino delle istituzioni della vita pubblica, avrebbero poi subìto un’accelerazione imprevista sotto l’urto della società dei consumi, della sua potenza invasiva e divorante, della sua indifferenza per norme e limiti di ogni specie. Così è accaduto che, quando ancora le donne muovevano i primi passi da cittadine sotto tutti gli effetti, a farla da vincitore fosse il ‘femminile’ costruito dall’uomo, la visceralità che la storia si è portata dietro e che insidia da sempre il suo processo di incivilimento.

Di fronte a quella melassa ibrida e indifferenziata di ripiegamenti arcaici e accelerazioni postmoderne, in cui è immersa la nostra società, tornano a far riflettere le pagine finali de La democrazia in America, di Alexis de Tocqueville: “Credo, dunque, che la forma di oppressione da cui sono minacciati i popoli democratici non rassomiglierà a quelle che l’hanno preceduta nel mondo…le antiche parole dispotismo e tirannide non le convengono affatto. La cosa è nuova, bisogna tentare di definirla, perché non è possibile indicarla con un nome.” Che Tocqueville, per definire il “potere immenso e tutelare” a cui si rivolge la “folla degli eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari”, avesse in mente una figura di ‘madre mortifera’, saziante e insieme divorante –la stessa che Fachinelli intravide dietro la società dei consumi, nei suoi scritti sul ’68-, è altrettanto chiaro: “Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente nell’infanzia, ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi.”

Servitù regolata, bisogno di essere guidati, e desiderio di restare liberi, accentramento e sovranità popolare, governo di uno solo e onnipotenza della maggioranza: non è questo il ‘berlusconismo’ da cui sembra così difficile districarsi per trovare nuove vie d’uscita?

 

Questo articolo è uscito sul settimanale Gli altri dell'8 gennaio 2010

 

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