Un principio elementare di civiltà
 di Lea Melandri
 

 

 L’ infamia originaria, la decisione sovrana con cui la “città degli uomini” ha celebrato la sua fondazione, mettendo al bando metà del genere umano e includendolo nella forma di un dominio, è durata fin troppo. E’ tempo di porvi rimedio con l’affermazione di un principio elementare di civiltà: “democrazia paritaria”, “50 e 50 ovunque si decide”.
E’ lo slogan lanciato dall’Udi nel seminario del 22.2.07 a Roma, ripreso e discusso in molte delle assemblee Usciamo dal silenzio, oltre che in gruppi e associazioni di donne in tutta Italia.
Negli incontri che ci sono stati a Milano, è piaciuta l’idea di un “manifesto dei perché”, una sorta di autoinchiesta (in passato l’avremmo chiamata autocoscienza) per dirci condivisioni, dubbi, proposte riguardanti il nostro impegno sulla “rappresentanza 50 e 50”, che preferirei definire “presenza”, tenuto conto che le donne non sono una categoria, un gruppo sociale, una minoranza da rappresentare, e neppure quel “sesso che non è un sesso” (Irigaray), di cui è giusto sia riconosciuta la “differenza” storica -contro la pretesa neutralità maschile-, ma per metterla in discussione e vedere reali diversità e somiglianze tra uomini e donne.

Comincerò col motivare la mia adesione, sperando di invogliare altre e altri a prendere parola. Potrei dire che ho avuto modo, in incontri fatti in varie città, di verificare che il problema è sentito, pur con qualche riserva, da molte donne. Il desiderio che, in consonanza col cambiamento del proprio modo di pensare e sentire, cambi anche qualcosa del contesto in cui viviamo, si sta facendo strada, e coinvolge generazioni diverse.
D’altra parte, quanto il discorso sulla necessità che le donne si facciano “soggetto politico a pieno titolo” sia stato al centro del percorso fin qui fatto dalla  assemblea milanese, è noto, e mi ha sempre trovato d’accordo. Ma voglio parlare anche delle ragioni personali che mi si sono fatte chiare dopo un’adesione immediata benché dubbiosa, venendo la mia formazione da pratiche femministe antistituzionali.
Negli ultimi anni, e soprattutto dopo l’incontro con Uds, la manifestazione del 14 gennaio 2006, il mio modo di considerare il rapporto uomo-donna si è in parte modificato. Ci sono aspetti che una volta consideravo secondari –o non consideravo affatto-, e che oggi mi sembrano prioritari.
Essenzialmente due: la violenza manifesta contro le donne e la loro assenza/esclusione dai luoghi decisionali della sfera pubblica. Oggi ne vedo più chiaramente le connessioni: la ‘violabilità’ del corpo femminile è strettamente legata alla cancellazione della donna come ‘persona’ (pensiero, volontà, responsabilità morale, ecc.).
Sono le due facce correlate di quel fondamento di ogni razzismo che è l’identificazione della donna con la sessualità, la maternità, la riproduzione della vita, la natura. La biopolitica comincia con la riduzione della donna  -e di quella parte di umanità che è stata di volta in volta ad essa assimilata: schiavi, bambini, prigionieri, migranti, culture diverse, ecc.- a corpo biologico, escluso-incluso come tale nella pòlis.
‘Casa’ e ‘città’ vanno ripensate insieme, tanto più che oggi i confini tra sfera personale e sfera pubblica, vita e politica si sono spostati fin quasi a scomparire. Fino a poco tempo fa pensavo che fosse prioritaria la “presa di coscienza”, l’analisi della “violenza invisibile”, di una visione del mondo prodotta da altri e interiorizzata come propria.
Mi feriva soprattutto la complicità femminile, sia pure inconsapevole e per molte ragioni giustificata. Dopo tanti anni di paziente scavo nella soggettività delle donne, di paziente attesa di vedere un cambiamento da parte maschile, ho dovuto riconoscere che stava crescendo in me una forte indignazione per l’arroganza, la stupidità, la pervicace finzione di neutralità degli uomini, in particolare dei politici e degli intellettuali. Insopportabile, di conseguenza, il prezzo che ne pagano le donne.
Nel momento in cui è comparsa storicamente la consapevolezza e la denuncia del dominio maschile attraverso la parola delle donne, la maschera della neutralità diventa la difesa a oltranza di un privilegio, così come la messa sotto silenzio del cambiamento avvenuto.

Ma c’è un’altra ragione. Finché le donne restano fuori dalla scena pubblica, vale l’ambivalenza che pesa da millenni sul femminile: per un verso l’‘insignificanza storica’, per l’altro l’‘esaltazione immaginativa’, che le vede come “risorse” di umanità, integrante forza creativa, ma che è, di fatto,  la più insidiosa copertura ideologica della divisione sessuale del lavoro, della canalizzazione di tutte le energie femminili  a vantaggio dell’uomo. Questa contraddizione è ben rappresentata dal significato che le donne ancora danno al loro essere “moglie di”, “madre di”, in cui convergono lavoro di cura, indispensabilità all’altro, conferma di identità, illusoria realizzazione di sé.
Nel momento in cui fossero presenti sulla scena pubblica, sarebbe più facile anche esercitare nei loro confronti un giudizio critico, confrontare idee, confliggere, riconoscere diversità, rompere il cerchio vizioso di idealizzazione e disprezzo riservate al genere femminile.
Si potranno guardare con più realismo i segni che hanno lasciato millenni di schiavitù, riconoscere che l’emancipazione, se è conquista di libertà e diritti, è anche rivelatrice impietosa di tante illibertà, adattamenti, omologazione. Il femminismo degli anni ’70 è nato anche come critica a questo tipo di subalternità, costruzione di una individualità femminile fuori dagli stereotipi di genere.
La ricerca della autonomia da modelli interiorizzati deve restare centrale nella nostra pratica politica e anzi rafforzarsi nel momento in cui le donne entrano nei luoghi e nelle istituzioni storiche del dominio  maschile, ben sapendo, come ha scritto Pier Bourdieu, che è “in questi universi sociali che l’inconscio si radica e riproduce”.

Il tema della “presenza 50 e 50” non dovrebbe essere collocato in un discorso di “crisi della democrazia”, o di “cittadinanza incompleta” (a cui è inevitabilmente collegato il tema “quote”). Il riferimento dovrebbe essere, a mio avviso, la crisi della politica, che, diventando sempre più bio-politica, politica sulla vita, svela le sue radici, l’ infamia su cui si fonda la pòlis.

Il femminismo non ha portato allo scoperto solo il sesso incluso attraverso un’esclusione dai poteri pubblici, ma anche tutto ciò che della “persona” (corpo, sessualità, malattia, invecchiamento, ecc.) è stato messo al bando insieme alla donna, considerato ‘impolitico’.
Vorrei che non diventassimo più realiste del re, andando a rafforzare istituzioni cadenti, che sono all’origine della nostra cancellazione come persone.
Vogliamo essere soggetti politici a pieno titolo, ma soggetti di una ‘politica ripensata’ in tutti i suoi aspetti, messa in discussione in ciò che ha diviso e contrapposto, quelle dualità che oggi, saltati i confini tra privato e pubblico, tra natura e cultura, tornano a confondersi in pericoloso amalgama: l’antipolitica, nell’uso che ne fa la destra, e la politica sulla vita, nella piega che sta prendendo da una parte e dall’altra, come tentazione di legiferare sulle vicende essenziali dell’umano, come la nascita e la morte.

Io vedo in questo impegno l’occasione per uscire dai dualismi che hanno separato e contrapposto: maschile e femminile, casa e città, famiglia e società, ma anche emancipazione e liberazione, politica delle relazioni e politiche istituzionali, sessualità e economia.
Le problematiche del corpo, su cui si è mosso il femminismo anni ’70, sono oggi al centro dei potere forti della vita pubblica –Stato, Chiesa, scienza, medicina, comunicazione, ecc.-, e le donne rischiano di essere ancora una volta l’oggetto per eccellenza del controllo pubblico.
Una battaglia per un elementare, incontestabile diritto di uguaglianza, garantito dalla Costituzione, resterebbe un guscio vuoto, totalmente interno al sistema esistente, se non fosse, al medesimo tempo ricerca di quei ‘nessi’, che già esistono, tra sessualità e politica, vita e politica,  che vanno riconosciuti e ripensati.

Per questo è importante che tutti i temi su cui si sono espresse finora le assemblee Uds –aborto, consultori, violenza contro le donne, Legge 40, precarietà, famiglia, unioni civili-  siano presenti, intersecati con un discorso che dovrà essere inevitabilmente anche specifico, nel momento in cui si sta discutendo di una riforma della legge elettorale.