Come stare al mondo con senso di noi stessi
di Alberto Leiss



Marianne von Werefkin

Liberazione ha aperto con coraggio - due pagine intere di interventi maschili, e una discussione a seguire – sul tema della violenza che gli uomini esercitano quotidianamente sulle donne. A partire dai dati impressionanti di una serie di ricerche recenti: violenze, stupri, uccisioni, da parte di mariti, padri, compagni, sono a quanto pare la prima causa di sofferenza per l’altra metà del cielo, e non solo nei paesi che siamo ormai abituati - in questi tempi di “scontro di civiltà” - a considerare “barbari”, ma nella civilissima Europa.

I maschi intervenuti - più o meno tutti progressisti e di sinistra, anche molto di sinistra - hanno in genere riconosciuto l’esistenza di una “colpa” storica e antropologica maschile nell’esercizio della violenza. Violenza contro le donne, e violenza in genere, fino alla violenza bellica.

Ma questo - giustamente, a mio avviso - non è bastato a Lea Melandri e Angela Azzaro: sì, siete molto bravi in sociologia e psicologia - hanno detto in estrema sintesi - ma che ci dite di voi stessi? Franco Giordano ha cercato di non sottrarsi al richiamo. Da un lato ha confermato un giudizio che è circolato in quasi tutti gli interventi: la violenza maschile, in varie sue manifestazioni, sembra interpretabile anche come reazione alla rivoluzione prodotta da mezzo secolo in qua da una nuova soggettività femminile. Lo scandalo per queste violenze maschili, più che conferma di un rapporto di forza immutabile nel tempo, sarebbe la spia di un sovvertimento.

Si è parlato di crisi e di fine del patriarcato. Una cosa che disorienta e impaurisce gli uomini - un “cambio di civiltà”, come è stato detto dal femminismo italiano della differenza - che se non è riconosciuto e elaborato rischia persino di rendere più sorda la loro, nostra,  violenza. Giordano ha anche scritto di ritenere necessaria, per lui e per noi maschi, la ricostruzione “di un contatto con la sfera del nostro mondo interiore”. Penso che sia vera, per gli uomini consapevoli del mutamento radicale intervenuto nei rapporti tra i sessi - e ne siamo consapevoli perché lo abbiamo conosciuto e lo viviamo nelle nostre vite- l’esigenza di una sorta di coraggiosa autocoscienza.

Sono del resto ormai non pochi i gruppi di maschi, sia della nostra generazione (quella del ’68 per intenderci) e anche più giovani, che sentendosi a disagio nei ruoli tradizionali maschili, hanno avviato un “lavoro su di sé” mutuando in parte l’esperienza del femminismo.

Credo però che sia maturo ormai un“parlare di sé” maschile che apra un varco, un taglio, a partire dal luogo dove da secoli - i secoli delle nostre civiltà (ex) patriarcali - si esercitano le pratiche omosessuali - in senso simbolico: tra soli uomini - della costituzione del potere. E mi limito qui alle forme del potere politico.“Parlare di sé” dal punto di vista degli uomini che “fanno politica” vuol dire rendere conto del proprio pensiero politico- giacché non esiste azione politica se non è fondata, più o meno consapevolmente, su una idea - e naturalmente rendere conto del proprio modo di fare politica.

Se si crede davvero che la “rivoluzione più grande” dei nostri tempi sia stata quella femminile - nei movimenti, nei comportamenti quotidiani, nelle elaborazioni teoriche - allora bisogna impegnarsi in una revisione radicale di un pensiero politico che si è basato, nelle sue versioni di sinistra, socialiste e comuniste, su un soggetto collettivo definito da ragioni prevalentemente economiche, la “classe operaia”, e nelle versioni liberaldemocratiche, su un individualismo astratto, dietro alle cui generalizzazioni in termini di diritti universali si intravede ancora l’origine concreta di un soggetto maschile e proprietario.

E’ in gioco qui l’idea stessa di democrazia,della quale vediamo ogni giorno precipitare una gravissima crisi, proprio nel momento storico in cui non sembra possibile definire la politica se non nei termini dell’inveramento delle promesse della democrazia. Quanto alle pratiche e ai comportamenti, un minimo di decenza vorrebbe che si cominciasse a reagire davvero allo spettacolo dei luoghi della politica -partiti e istituzioni - sempre così tristemente affollati di soli uomini.

Ma il punto vero di questa situazione ha una radice simbolica: noi maschi, oltre all’amore e la riconoscenza per le nostre madri, facciamo molta fatica a riconoscere la libertà e l’autorità - in questo discorso, politica - di una donna. Un gesto significativo, o più gesti significativi, potrebbero cominciare da qui.

Mi ha colpito in questi giorni un testo pubblicato sul Foglio, che denuncia in modo molto allarmato una “catastrofe educativa”. Siamo di fronte a una “generazione di ragazzi che si sentono orfani, senza padri e senza maestri”, “annoiati e a volte violenti”, perché la nostra cultura ha “demolito le condizioni e i luoghi stessi dell’educazione: la famiglia, la scuola, la Chiesa”. “Occorrono maestri”, è il grido di dolore, sottoscritto da 58 signori (professori, artisti, banchieri, direttori di testate nazionali, un po’ a destra, un po’ al centro, un po’ a sinistra) tra i quali solo tre donne. Lo leggo come un manifesto della “fine del patriarcato”, e dell’ansia culturale e sociale che produce. Penso che bisognerebbe rispondere: riconosciamo prima di tutto l’esistenza di una maestria femminile, essenziale per la civiltà e la politica, accettiamo di metterci all’ascolto,soprattutto su temi fondamentali come la riproduzione e l’educazione, della libertà e dell’autorità delle donne. Naturalmente, per dialogare e interloquire, litigare, ma pensando di poter imparare qualcosa.

Interroghiamoci sul come possiamo restare al mondo con un senso di noi stessi - noi maschi -abbandonando la pretesa di interpretare da soli che cosa è universale e “oggettivo”. Se ne fossimo capaci, forse diminuirebbe anche l’orrore di avere ragione con la forza e la violenza.

 

questo articolo è apparso su Liberazione del 22  novembre 2005