Referendum. La posta in gioco
di Lidia Campagnano


Da il manifesto del 13 giugno 2003

Una premessa: chi scrive voterà Sì al referendum per l'estensione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, per molti motivi, il primo dei quali è l'indignazione di fronte al paternalismo bigotto, di destra e di sinistra, che ha ostacolato il dibattito e l'informazione su questo appuntamento con l'idea che occorreva scoraggiare la partecipazione al voto: come a dire che il lavoro non è tema per minorenni politici. Scelta antidemocratica in profondità, anzi, antipolitica, ingiustificabile.

Se si pensa, con buonissime ragioni, che questo referendum sia nato male, come un gesto anziché come un pezzo di progetto sociale e culturale, l'unico modo per contrastare simili gesti è creare e favorire una più intensa partecipazione pensata attorno alla materia cruciale di cui si tratta. Il lavoro e, come si dice oggi, la sua precarizzazione. Votare sì, vorrà dire un no etico e di principio alla precarizzazione.

Se i Sì vinceranno sarà possibile, forse, restituire la parola a chiunque sull'esperienza lavorativa e ridelineare un'immagine della società in cui viviamo. Se no, sarà un'altra dose di depressione da superare. Ovvero, la posta in gioco è più alta di quanto non si creda, le piccole imprese non rischiano infatti proprio niente, lavoratrici e lavoratori non saranno affatto in salvo dal sopruso, ma ridiscutere del lavoro e del profilo della nostra società è invece un diritto politico elementare a rischio. Un diritto del quale riappropriarsi a cominciare da subito, dal 15 giugno.


Qualche settimana fa, a Firenze, alcune centinaia di donne si sono riunite per prepararsi al Social Forum di Parigi. Il gruppo più folto, e più popolato di giovanissime, trattava proprio della precarietà e, come succede tra donne, ne trattava sotto il profilo del segno che la precarietà imprime sulle vite nel loro complesso, dal piano economico a quello affettivo e sessuale. E' così che diventa possibile accorgersi della fine di un'illusione che è stata specificatamente femminile: il lavoro precario non è il lavoro a misura del desiderio femminile. Al contrario, è stato a cominciare dalle donne che il lavoro è stato organizzato secondo un nuovo modello a due piani: ritorno a un lavoro di tipo schiavistico, soprattutto per le donne immigrate, e imposizione di una posizione seduttiva alle altre. Lo schiavismo esplicito si esprime nel primo caso nel dover intrattenere un rapporto personale col datore/datrice di lavoro, e nel dover cedere il diritto a spostarsi, a rompere il contratto di lavoro, a contrattarne l'inizio, a preservare libertà di convivenza (con o senza mariti o figli o genitori e quant'altri), pur di «avere» lavoro da fare e pur di sopravvivere (alla lettera, a volte: essere rimpatriate per alcune donne è minaccia di morte). Condizione che, tra l'altro, obbliga spesso a star chiuse nel proprio bantustan e a subirne le angherie patriarcali, in cambio di una difesa tribale.


Quanto al modello seduttivo, sul piano delle immagini è sotto gli occhi di tutti (i telespettatori, per esempio) ma è soprattutto nel cuore di tutte. Per avere e mantenere il lavoro, si parte dal sentirsi di fatto dire qualcosa di arcaico per una donna: tu non ci servi, possiamo sostituirti o no, come meglio crediamo: datti da fare a dimostrare il contrario. E' come essere chiamate a una parata su passerella. Parata di che? Di qualsiasi genere di abilità, dall'abbigliamento al sorriso alla dedizione di tempo, spazio, stile di vita, linguaggio, cultura, relazioni affettive e amorose. Non c'è niente, letteralmente, nella vita di una donna, che non sia stato portato su questo mercato del lavoro. E si provi a pensare quanto suoni ridicola l'idea di rimediare a tutto ciò, a un processo profondo di riassestamento dei ruoli sessuali e del vissuto di sé con la «formazione permanente». Formazione di che? Delle più raffinate capacità di asservimento e seduzione? La formazione è già in atto ed è precisamente permanente.


C'era una volta un tempo in cui le donne lamentavano il fatto che gli uomini non avessero nemmeno le energie, a causa del lavoro, per dedicarsi ai rapporti interpersonali: adesso siamo pari, di energie, a causa sia del lavoro che del non-lavoro e del rapporto ricattatorio dispiegato sui 360 gradi, anche le donne non possono preservarne. Questa è la società dello svuotamento di senso dei rapporti uomo-donna. Che questo quadro favorisca il rigenerarsi di bigottismi, fondamentalismi e istanze repressive di ogni tipo non stupisce davvero. Che qualcuno pensi a elargire assegni per favorire la nascita di bambini nemmeno.


Ma è anche, questa società del lavoro precario, quella in cui è ovvio che venga ulteriormente ridotta la presenza delle donne nelle istituzioni politiche. Non è questione (più) di ritardi o di acidità maschili particolari e pervicaci. Non c'è bisogno di essere marxiste per vedere come il modello schiavistico e il modello seduttivo del lavoro femminile concorrano a eliminare le donne da quella scena politica. Salvo rare e scioccanti eccezioni, un rapporto asservito e/o piegato all'arma della seduzione non possono decentemente rappresentarsi altrove che nel rapporto stesso. Non possono trascendersi. Non possono fare politica.

Un referendum è solo un referendum, questo è un referendum piccolo piccolo, a ben pensarci, neanche un lattaio andrà in malora se vincono i Sì. In malora va la dignità delle donne e degli uomini (di conseguenza, verrebbe da dire se gli uomini accettassero di dirlo) se si accetta di astenersi dal valutare le conseguenze del rapporto di lavoro sulla persona. A cominciare dalle donne, questa volta?

L'immagine è tratta da www.yourlifesource.com/ membership-canada.htm