Il tempio e il bosco

di Luciana Percovich

 

 

“Perenne è il fascino emanato da divine creature femminee, meravigliosamente esperte di arti magiche e salutari, le quali sole sanno le virtù di certe erbe, di certi fiori, e ne compongono filtri e bevande, con cui danno morte e vita, infermità e salute nel vasto regno della natura… Per quanto risaliamo con la nostra indagine indietro nel tempo, ci incontriamo con insistenza in una dea, si chiami Circe o Pasifae o Medea o Hecate o Agamede o Mestra o comunque si voglia, che conosce a fondo le segrete proprietà delle piante.

Ed è ben naturale questo, quando si pensi che, parlando di pharmaka, noi entriamo proprio nel dominio della grande dea mediterranea, della potnia, la quale ‘nutre tutti quanti gli esseri presenti sulla terra, quanti abitano la terra divina, quanti il mare, quanti l’aria’. E domina pure il mondo vegetale, che si dispiega in un’infinita gamma di colori e di profumi, di steli e di corolle, di bocci e di inflorescenze, mille e mille vite infinitesime, costituenti il segreto tesoro della grande iddia, ‘lei che conosce tanti farmachi quanti ne produce l’ampia terra’.

Di queste divine cultrici d’arti magiche e salutari i poeti classici lasciarono immagini di squisita bellezza, come i Mediterranei le avevano intraviste e adorate nel culto svolto inizialmente all’aperto, sulla cima verde di un’altura, nelle radure luminose di un bosco, presso le rive opache di un lago, nell’ansa tranquilla di un fiume dove l’acqua corre più silenziosa….. Fra tutte la più nota forse è Circe, la maga dalle belle trecce che vive solitaria in un palazzo lucente, che sorge, miracolo architettonico, nel verde rigoglioso di Aiaia”.

Così scrive Momolina Marconi 1 , per lunghi anni docente di Storia delle Religioni presso l’Università degli Studi di Milano, in uno dei suoi saggi più belli (Da Circe a Morgana, 1942) sulle divinità femminili del Mediterraneo nella lunga era che precedette l’arrivo dei popoli guerrieri, patriarcali e cittadini. In un altro suo saggio, Gli asfodeli alle soglie dell’Ade (1985), riprende questo tema:

“Alberi dunque come fondale. Ma altrove alberi forti di sacertà: tale il bosco di pioppi, un prato con una fonte lo recinge, dedicato ad Atena presso la tenuta di Alcinoo, dove Ulisse sosta in preghiera; esempio bellissimo di culto all’aperto … alla dea in quanto phytia ‘generatrice’, conservato anche quando l’ulivo era considerato un suo dono agli uomini…Non diversamente, Demetra del grano aveva caro un bosco a lei sacro, bosco e frutteto secondo Callimaco, dove a difesa di un suo pioppo la dea non esitò a punire l’ostinata violenza di Erisittone….E che perfino alle soglie dell’Ade, un bosco sia sacro a Persefone e lo sia un prato di asfodeli non deve meravigliare, ché proprio sul prato in fiore la dea visse il suo grande momento di trasformazione: ‘e presto furono nel prato asfodelo, dove abitan l’ombre, parvenze dei morti’”.


Al tempo della ri-scoperta del tempio di Hera alla foce del Sele, M. Marconi aveva già scritto (Il santuario di Hera alla foce del Sele, 1939): “Fermiamoci un momento a osservare la località di tale culto: è alla foce del Sele, che scorre tra due siepi nere d’alberi vecchi quanto il tempo, ultimo ricordo che sta anch’esso scomparendo delle grandi foreste che un giorno coprivano le sue rive, e dove ancora vengono a sostare di primavera e di autunno gli stormi di uccelli migranti verso il settentrione o verso le calde regioni dell’Africa. La selva e le acque rappresentano qui e altrove due elementi tipici di un antichissimo culto mediterraneo” che avvicina Hera a infinite altre analoghe figure divine, prima tra tutte Leto/Latona, di origine egeo-anatolica. “Essa pure si compiace, in terra licia ed efesina, di stare nei boschi e presso le acque, elementi essenziali e inscindibili per la sua vita di potnia phyton (signora delle piante) e, insieme, di potnia orniton (signora degli uccelli).
Come nel culto di Leto, anche in quello di Hera, la selva “sale, nel dominio dell’aria come una cattedrale, immensa; e noi la immaginiamo facilmente popolata della vasta e varia famiglia zoomorfa, ma ricca pure di una vasta e varia accolta di erbe e di fiori, costituenti il segreto giardino della dea, da cui essa sola sa trarre essenze magiche e salutari. Anche nel culto di Hera vi è un placido specchio d’acqua, alle cui rive essa si affaccia… Ci troviamo pertanto di fronte ad una identità originaria che non va trascurata; identità che mi permette fin d’ora di rilevare nel Mediterraneo occidentale quelle primitive forme cultuali che dominano nel mondo egeo-anatolico…Sta di fatto che tutta questa zona, a cui approdavano esigui nuclei di Mediterranei succedentisi a breve distanza di tempo, portando seco la loro divinità tutelare la quale altro non era che una forma dell’unica grande dea mediterranea, tutta questa zona, dicevo, era costellata di culti silvestri e salutari, ciascuno facente capo ad una personalità divina, signora di un hortus conclusus, inesauribile fonte di ogni specie di malia”.

Non deve perciò stupire che molti secoli più tardi, Morgana, erede di una ininterrotta tradizione di sapienza e venerazione, “in Avalon, isola dell’occidente, vive solitaria, perché così comanda la sua essenza superumana”. Morgana che tuttavia “disdegna la solitudine, per cui attira nella sua isola i più prodi cavalieri o di qui muove in cerca di avventure. Avalon assomiglia ad Aiaia (terra d’origine di Circe, situata nella Colchide che si affaccia sul Mar Nero orientale, n.d.a.). La maga ha bisogno di una terra lontana, separata dagli umani, che vi possono accedere solo se favoriti dal divino volere, dove la dea può compiere i più diversi mutamenti, circondarsi di animali fedeli, coltivare erbe e piante specialmente utili alla sua attività, allestire filtri e unguenti strani, svolgere insomma in piena libertà la sua arte segreta. Perché anche quando la dea non sta in una vera e propria isola, abita però… località solitarie e inaccessibili, in cui l’uomo non può impunemente metter piede se non vi è chiamato dal desiderio o dalla viva voce di lei”.


Che il culto nelle più antiche religioni comparse nella storia dell’umanità fosse possibile solo all’aria aperta, o più precisamente “in nessuno spazio costruito da mano umana” (come si credeva appunto nel mondo celtico) è un elemento che accomuna le civiltà pre-patriarcali, in tutti i continenti. Citerò qui un solo esempio, perdurato fino al presente, nell’arcipelago giapponese di Okinawa 2.

In quella che è considerata la più antica forma della religione giapponese, il Ryu-Kyu Shinto, e caratterizzata dal fatto che le funzioni sacerdotali sono svolte esclusivamente da donne, addirittura non esiste nessuna distinzione tra la divinità adorata e il luogo di questa adorazione (utakis). Ed essendo tale la sacralità che emana da questi luoghi imbevuti dell’essenza divina, le divinità stesse sono chiamate semplicemente col nome del luogo.
In questa forma di shintoismo antico, in cui non esiste un’autorità centrale che regoli le credenze, ogni sacerdotessa (noros e tsukasas) gode di un’autonomia totale per quanto riguarda la mitologia e la forma del culto di cui lei è tramite e garante. Kinamon, il personaggio divino principale che come divinità del cielo è chiamato anche Nirai-Kanai, è in realtà duplice, essendo insieme maschio e femmina, caratteristica ricorrente nei più antichi miti di creazione di tutte le latitudini. Nirai-Kamai dunque non è venerata in nessun tempio ma negli alberi e nelle rocce nei quali è discesa, agli inizi della creazione.

Ne deriva che la sacralità di tali luoghi, come nella mitologia australiana che affonda le sue radici nel Tempo di Sogno, è tale che non è possibile accedervi, se non per le officianti e solo in alcune circostanze. Nei sei luoghi sacri fondamentali dell’arcipelago, l’accesso è regolato rigidamente quando non del tutto interdetto: in un’isola intera, Kudaka, dove fu creata la prima creatura umana da Ama-mi-Kiu, figlia di Nirai-Kanai, non è permesso a nessuno d’abitarvi, così come su una spiaggia occidentale di Okinawa dove, fino a prima dell’ultima Guerra mondiale, erano ammesse solo le kami-tsukasas.

E là dove c’è stato un intervento umano a sottolinearne la presa in cura, il luogo di culto, che può essere montagna sacra (come lo è il Fusjiama per tutto il Giappone), buco, radura d’erba o di sabbia, lastra di pietra, sorgente nascosta nella foresta, grotta, caverna, rupe, ammasso di rocce o parete di roccia, boschetto, singolo albero o semplici pietre fitte “da cui si leva il sole”, rimane rigorosamente all’aperto.

La forma base di questi che vengono ora sbrigativamente chiamati “templi” è un muretto di pietre a secco alzato direttamente da terra, non più alto di 70 cm., a volte sormontato da una lastra di pietra, che è il luogo dove si depongono le offerte; spesso è circondato da un altro muretto o da un insieme di alberi di forma circolare, come a contenerlo e proteggerlo. Tali utakis sono posti generalmente in aperta campagna, in un bosco o su una spiaggia, ma talvolta si trovano anche nei pressi di un villaggio, nel qual caso svolgono la funzione di “guardiani”, come in Nigeria Ala, grande madre degli Ibo, che sedeva in maniera da essere vista da tutti gli abitanti del villaggio nel portico di un tempietto di legno a indicare che il suo spirito aleggiava sulla comunità intera.

Altro termine interessante al fine di comprendere la forza e l’ampiezza di questo sentimento per la sacralità della natura come luogo di manifestazione del divino (sorgente/anima della creazione e dell’energia creativa perenne che occorre mantenere integra e pura per garantirne la continuità) è ibi, che secondo alcune fonti indica la divinità stessa, in questo caso distinta dal luogo di culto, secondo altre semplicemente la parte più sacra dell’utaki. L’ibi può essere anche molto esteso fino a comprendere un bosco intero o lo stesso mare.
Nei pressi dei principali utakis può trovarsi una modesta costruzione, destinata alla purificazione delle noros prima delle cerimonie rituali, a confermare ulteriormente che il luogo più sacro è all’aperto, e che il chiuso serve solo a funzioni umane secolari e connesse con la preparazione al contatto col sacro.

 

Ed è per imitazione dell’ambiente naturale, della radura circondata dagli alberi, che nacquero le colonne dei primi templi del mondo occidentale e poi l’architettura sacra: selve di pietra, con l’aria che ancora circola tra i tronchi di marmo, che più tardi il cristianesimo chiuderà con muri che in alcuni casi sembrano quasi provvisori e tirati su in fretta (per nascondere il luogo sacro, per isolarlo, per renderlo staccato dalla natura che comincia a desacralizzarsi per diventare un’entità inanimata da sfruttare), come ancora si può vedere in tante chiese, da quella dei Gesuiti nel centro di Lisbona al tempio dorico ad Atena incorporato nell’attuale cattedrale di Ortigia (Siracusa), dove le colonne rimangono ben visibili nella loro potenza, non completamente inglobate nei muri perimetrali.

In questo passaggio, in questa chiusura si consuma un dramma catastrofico, la Morte della Natura, che Carolyn Merchant ha ricostruito nel libro omonimo 3, ripercorrendo quel passaggio cruciale che furono i secoli culminati nel “Rinascimento”, ossia nel trapasso dalla visione magico-olistica a quella scientifica.

Quanto sia permanente nell’immaginario comune la sacralità dell’albero ce lo ricorda Fatima, uno dei luoghi sacri della cristianità, dove le apparizioni della Madonna all’inizio del Novecento avvennero su un leccio, che stava in un campo con olivi, querce e alberi da frutta e degradava verso una polla sorgiva perenne.

Il contrasto con la realtà contemporanea è stridente: raramente la sacralità dei luoghi e del mondo vegetale ha subito una profanazione maggiore e senza argini che nel degradato paesaggio italiano. Da tempo le ninfe, abitatrici di terre acquatiche, di terre irrigue e fertili, lo hanno abbandonato, così come Hecate e Artemide,  Hygieia e Bona Dea, Feronia, Diana, Flora e tante ancora, hanno lasciato vuoto il loro giardino segreto, “ricco di semplici, possente d’annosi tronchi”.

 

NOTE

1. Di Momolina Marconi (1912-2006), è da poco nuovamente disponibile una raccolta di saggi intitolata Da Circe a Morgana, a cura di Anna De Nardis, Venexia ed., Roma, 2009.

2. Jean Herbert, La Religion d’Okinawa, Collection Mystiques et Religions, Dervy-Livres, Paris, 1980.

3. Carolyn Merchant, La Morte della Natura. Dalla natura come organismo alla natura come macchina, Garzanti, Milano, 1988.

 

 

Questo saggio è apparso su Nemeton. High Green Tech Magazine, maggio 2009

29-06-2009 

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