Oggi, 8 marzo 2018, vorrei raccontare alle giovani donne

Luciana Percovich

Oggi, 8 marzo 2018, vorrei raccontare alle giovani donne confuse, stanche, arrabbiate e alle adolescenti che entrano esitanti nella loro misteriosa donnità qualcosa che non sanno, una storia diversa dalle solite. Qualcosa che nemmeno io sapevo quando all’inizio degli anni Settanta ho iniziato a lavorare con e per le donne.

Materialiste e marxiste, la Dea ci guardava sorridendo mentre riemergeva dopo millenni di oscurità, non cercata non immaginata, nemmeno desiderata. Poi, per rientrare in contatto con un universo simbolico di cui l’umanità era stata traumaticamente deprivata qualche millennio fa, ci è voluto qualche decennio di corpo a corpo con le immagini di statuette mai viste (che sulle prime avevano un assai effetto spiazzante visto che scompaginavano gli stereotipi della bellezza femminile), con le pitture delle grotte e gli affreschi di case e vasellame. Perché, scoprivamo, c’era stato un tempo molto molto lungo in cui le donne erano il bene più prezioso dell’umanità; ma 5000 anni di potere maschile misogino avevano nascosto la storia di come tutte le donne, una per una e tutte insieme, fossero state al centro dell’immaginazione sul senso dell’esistente, e avevano rispecchiato nei ritmi del proprio corpo la ciclicità della vita, della morte e della rinascita.

E, verosimilmente sono state proprio le cure, la sapienza e lo sguardo lungo delle Antenate del lontano passato - che i manuali scolastici ancora chiamano “preistoria” e collocano nella sub-cultura del “primitivo” - che una specie così vulnerabile come quella umana se l’è cavata, fino ad arrivare all’oggi in cui tratti di dis-umanità si fanno sempre più evidenti, e tutti i loro sforzi e invenzioni sembrano essere stati invano.

Nell’Ottocento, uno dei peggiori secoli per le vite delle donne, uno studioso tedesco, Bachofen riaprì una questione che sembrava chiusa con la sconfitta delle Amazzoni, propagandata su centinaia di vasi e frontoni greci, quella dei matriarcati, riproponendo una domanda molto scomoda per i patriarcati: davvero sono esistite antiche società e culture matrilineari precedenti l’avvento del patriarcato?

 

 

 

 

 

 

 

Ebbene, non solo sono esistite ma esistono tuttora, nei vari continenti: i Minangkabau di Sumatra, i Kuna in America centrale, le culture indigene dell’Oceania, del Ghana e del Sud Africa, i Khasi in India, i Nayar e i Mosuo, i Berberi, eccetera, tanto per nominarne alcuni. Ben documentate e tuttavia argomento tabu, specie la parola “matriarcato”, a tutt’oggi impronunciabile nelle facoltà di antropologia.

E dopo Bachofen e oltre Bachofen, oggi esistono i Moderni Studi Matriarcali, fondati dalla filosofa tedesca Heide Goettner-Abendroth che, dopo decenni sul campo, ha pubblicato in Germania tra il 1988 e il 2000 Le Società Matriarcali, una ricerca imponente, disponibile anche in Italia, 700 pagine, 70 di glossario e bibliografia. A lei dobbiamo anche la ri-definizione della parola, che non significa a specchio di quella maschile “società in cui comandano le donne” ma “all’inizio le madri” (dato che il termine greco arché significa sia comando che inizio). E tra breve sarà anche disponibile un altro più agile volumetto, Società di Pace, proprio sui matriarcati contemporanei. Che tutti e tutte quindi, volendolo, possono incontrare e osservare dal vero.

 

Per il passato, e restando solo in Europa, la raffinata cultura dell’Europa del Neolitico (tra il VII e il III millennio ac) ha lasciato tracce numerose e ben conservate di società pacifiche e egalitarie per genere e censo, con al centro le donne, raffigurate in infinite sfaccettature e attività. Alcuni nomi di queste culture, sempre omesse dai libri su cui studiate o avete studiato, perché la Storia inizia solo con le Guerre e gli Eroi, sono: Catal Huyuk, Vinca, Karanovo, Cucuteni, Ripoli.

 

Se poi aggiungiamo i reperti del Paleolitico, di cui la civiltà del Neolitico è l’evoluzione con il passaggio alla sedentarietà, troviamo una profusione ricchissima di statuette femminili, ri-emerse in un’area geografica enorme che si estende da Gibilterra alla Siberia del lago Baikal, ed erroneamente chiamate Veneri, datate almeno dal 30. 000 in avanti.

Solo gli ultimi 5000 anni sono marcati dal patriarcato.

Così come è erroneo e riduttivo chiamare le statuette femminili del Paleolitico e del Neolitico “Veneri” e collocarle nella categoria “Idoletti di Fertilità”, troverete altre espressioni, frutto di ignoranza e paura maschili della libertà femminile di amare, come “prostituzione sacra”, che è un ossimoro privo di senso, prodotto dalla reale mancanza di parole dei primi archeologhi di età vittoriana davanti a prove ineliminabili di presenze di sessualità nei Templi!! Ignoranza e pregiudizio sono atteggiamenti ben noti e nefasti e tuttavia vivi e vegeti anche oggi; producono impossibilità addirittura di immaginare visioni altre da quella propria dei monoteismi.

Ma grazie al ritrovamento di centinaia di tavolette incise in scrittura cuneiforme, oggi riusciamo a ricostruire per esempio cosa accadeva in un’epoca di passaggio, quale fu l’età del Bronzo, in cui veniva praticato il rito dello ieros gamos omatrimonio sacro”, necessario al guerriero-aspirante-re per la legittimazione del suo potere mai visto prima sugli altri e sulle cose.

Ecco, penso anche che non sappiate che tutte le culture non patriarcali pongono le donne al centro, ma non solo come madri, ma come valore, guida, maestre di vita e di sapienza, le onorano e ne seguono i talenti: come lo sguardo lungo (ossia la capacità di vedere oltre l’immediato quotidiano in una visione che è connessa con il tutto), e la preziosa capacità di prendersi cura.

Forse non sapete nemmeno che tutte le società non patriarcali sono basate sulla libertà delle donne, che oggi chiameremmo sessuale, economica e decisionale. Lo vediamo anche nei matriarcati attuali. Così come vediamo nella nostra cultura che da una madre non libera non possono nascere figlie o figli liberi. Parlare di prostituzione - sacra o meno che sia, per le strade nei bordelli o nei letti matrimoniali – dà la misura di quanto ancora siamo dentro a una visione patriarcale e maschilista della sessualità e della società.

Ci dà la misura di come ogni cultura patriarcale abbia capovolto una visione orientata alla vita, alla connessione tra ogni manifestazione della vita, al desiderio e allo sforzo di continuare la creazione, giorno dopo giorno, in una visione necrofila sotto ogni punto di vista. Forse avete visto pochi giorni fa, amplificato dai mass-media, il gesto di un presidente di un paese in guerra che augura alla bambina in lacrime di morire combattendo e diventare “eroina”.

Le tracce del “divino femminile” abbondano nell’arte, nel mito, nelle molte cosmogonie della madre divina o creatrice. Tuttavia, a un dato momento questo immaginario si oscura fino a scomparire. È un fenomeno complesso, con ragioni interiori e esterne.

Quelle interiori hanno a che fare con la ferita maschile legata all’asimmetria del nascere, femmine e maschi, da un corpo di donna. Il sogno della scienza di sostituirsi all’imperfetta opera della natura, costi quel che costi, ne è un sintomo.

Ragioni esterne sono state i cambiamenti di clima, gli spostamenti di popoli, nuove invenzioni come l’agricoltura irrigua, rivoluzioni, conflitto tra nomadismo e sedentarietà, un lungo processo insomma, durato qualche millennio, grossomodo tra il III e I millennio ac. Un periodo feroce di ibridazioni e massacri, raccontato molto bene da un altro libro, Il Mito della Dea. L’evoluzione di una immagine, scritto da Baring/Cashford, due analiste junghiane.

Del resto, è piuttosto noto da tempo il mito mesopotamico di quel periodo che racconta pari pari lo scontro, l’uccisione e lo smembramento della madre: il mito di Tiamat e Marduk. Da cui le tribù semite in schiavitù presero più di quanto si immaginasse un tempo. Iniziò allora un feroce processo di capovolgimento dei valori rappresentati dalla dea, anche da quella degli Ebrei, Asherah, che dette il via all’esaltazione della violenza delle armi e alla perdita non solo della libertà fisica delle donne ma dei valori e della visione del femminile, costruendo con caparbietà necrofila, passo dopo passo, la nuova visione, dove il valore diventa quello di chi è più bravo a togliere la vita, non di chi la dà o la conserva. L’etica della rapina prende il posto dell’etica della connessione.

Viene scritta la storia di Adamo ed Eva quale nuovo mito di fondazione divina, maschile, monoteista. Si prendono dei simboli millenari della ancor viva visone femminile ciclica e connessa con il fluire della vita, quali sono il serpente e l’albero della vita, e voilà, vengono capovolti di significato, mostrificati: un protocollo che possiamo vedere all’opera da allora in poi, anche solo un secolo fa, con gli indiani d’America o con gli aborigeni australiani (non pienamente umani, senza anima, eccetera). C’è da meravigliarsi e ammirare la resilienza dei popoli indigeni del mondo arrivati fino a noi, quando la Dea ha cominciato a risvegliarsi ed è riemersa, come nel Tempo di Sogno, e ha iniziato un nuovo ciclo di creazione.

Sicché, e questo mi sembra il cuore del messaggio per voi, il lavoro di un’archeologa come Marija Gimbutas ci ha portato a riflettere proprio sui “diversi modelli di civiltà”, perché non esiste un unico modello universale ed eterno. E noi siamo le prime generazioni che sanno qualcosa in più di essenziale rispetto alle generazioni che ci hanno preceduto: ossia, che nel passato e nel presente sono esistite ed esistono civiltà radicalmente diverse, che condividono un orizzonte di senso e di valori che riguardava e riguarda tutti gli aspetti della vita e di ciò che è pensabile dalla mente umana: famiglia, organizzazione sociale, economia, politica, immaginario, credenze sul sacro e sul divino, il corpo, gli affetti, la salute e la malattia, il cibo, l’uso del tempo … perché tutti questi aspetti della vita umana sono strettamente intrecciati. In più, questa non è solo conoscenza, ossia un sapere freddo, mentale, accademico, è una conoscenza che cura, le ferite, i vuoti di memoria, di identità ….

Oggi non si può più dire “non si sa, il passato rimane sconosciuto”, ma piuttosto “non voglio sapere, non voglio vedere”. Si tratta di assumere consapevolmente che si sta facendo una scelta, in un senso piuttosto che nell’altro, da cui derivano delle responsabilità e uno dei tanti futuri possibili.

Abbiamo tutte e tutti bisogno di ritrovare il senso di connessione, della relazione che ci tiene insieme, tra umani, animali, piante e rocce. Un bisogno proprio della materia vivente e insieme profondamente umano, che il pensiero della trascendenza, sia filosofica che religiosa, ha spezzato dentro ciascuna/o di noi.

È l’auto-consapevolezza, la coscienza sviluppata dalla specie umana (il mito di creazione giapponese di Fusji, per esempio, narra come fu “la prima donna del mondo che portò la coscienza della loro esistenza a quanti vivevano sulla terra, governando dall’alto della sua montagna di fuoco”), che ha posto fin dagli inizi di ogni cultura una domanda di senso e di scopo al nostro esistere, sia come individui che come specie che vive su un pianeta che ci sostenta. Questo bisogno, quando non ascoltato, esplode in alienazione e violenza. Gli ultimi 5000 anni di storia del pianeta lo mostrano ampiamente.

Abbiamo tutte e tutti bisogno di elaborare insieme, ancora una volta, un sentire culturalmente condiviso e adeguato all’attuale fase della storia dell’umanità, che ci riporti la bellezza, la gioia e l’integrità dei nostri corpi e dei nostri sentimenti nella relazione con i nostri simili e con l’ambiente che ci sostiene. Per fare ciò dobbiamo riscoprire il senso del “sacro” nelle nostre azioni quotidiane e nei nostri corpi-mente, sessuati al femminile e al maschile. Per sacro intendo la consapevolezza e l’intenzione di partecipare al processo della creazione in ogni momento e con ogni scelta della nostra vita.

Abbiamo bisogno, di fronte alla mancanza di spessore delle nostre esistenze ridotte sempre di più al ruolo di consumatori/clienti di un presente divorante, di conoscere le nostre radici, quelle che ci tengono ancorate/i alla terra e all’anima, radici che affondano nella continuità temporale con l’umanità vissuta prima di noi e con quella che verrà dopo di noi, e nella contiguità geografica con i popoli che abitano altri luoghi del pianeta.

Essere senza radici equivale a essere come fiori recisi posti in un contenitore artificiale – qual è la nostra civiltà contemporanea, che rende breve l’esistenza, degli individui come della specie.

Questa è “la speranza al di là della fine di ogni speranza” (Mary Daly): una pianta con le radici, ancora giovane, da accudire con cura perché cresca e si radichi con gratitudine nella Terra, care giovani nuove donne, Antenate del futuro!

 

Intervento comparso su
UNRIC Centro Regionale di Informazione delle Nazioni Unite www.unric.org
- @UNRIC_Italia - www.facebook.com/unricitalia in data 7 marzo

14-03-2018



 

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