L'embrione, questo sconosciuto
di Maddalena Gasparini

Sul Manifesto del 26 febbraio 1999 uscì un appello firmato da centinaia di donne e associazioni contro il progetto di legge sulla procreazione medicalmente assistita (PMA) all'epoca in discussione al parlamento.

A tre anni di distanza progetto di legge e appelli contro di essa non sono sostanzialmente cambiati: nella legge la pretesa di confermare d'autorità un modello di sessualità, di convivenza e di filiazione che le donne e gli uomini, più e prima delle biotecnologie, hanno messo a soqquadro, negli appelli una difesa obbligata della libertà d'accesso alle procedure di PMA, che non riesce a creare un'opposizione forte al progetto ora in discussione.

La riflessione di molte donne sulle potenzialità, i rischi, le ambiguità insite in questi cambiamenti non ha trovato e forse non ha offerto, sponde per una pubblica e franca discussione.

Prima firmataria dell'appello di 3 anni fa riprendo il filo del discorso a partire dal punto più controverso del progetto di legge: la dichiarazione dell'inedito "diritto a nascere del concepito" .
Esso giustifica le regole più aberranti cui si dovranno attenere i centri che praticano in Italia le tecniche di PMA ma soprattutto permette di ridefinire il momento in cui nasce "la persona" o "soggetto giuridico" nel linguaggio delle leggi: non si sarebbe più tali alla nascita, che ancora avviene da un corpo di donna, ma all'atto della fecondazione, che da qualche decennio può essere agevolmente effettuata in laboratorio.

Malgrado la Chiesa Cattolica consideri da molti anni "vita umana" quella dell'ovocita fecondato, il quesito se "l'embrione umano é o non é un individuo dotato di natura umana" è stato affrontato per la prima volta in un contesto politico dal Comitato Nazionale per la Bioetica nel 1996 . Non si può tuttavia dimenticare che l'ipotesi di tradurre in legge il credo cattolico prende corpo con la diffusione della fecondazione in vitro (FIV): è infatti grazie ad essa che l'embrione ha potuto essere approntato fuori dal corpo femminile ed entrare nel nostro orizzonte conoscitivo e fantastico con un'autonomia prima impensata.

L'embrione così concepito può essere trasferito in utero entro 48-72 ore (è questa la FIVET: fecondazione in vitro e trasferimento dell'embrione), può essere mantenuto in vita e svilupparsi almeno per un certo tempo in laboratorio (ufficialmente è stato tenuto in vita non più di 14 giorni) oppure essere congelato e conservato in una situazione di sospensione dello sviluppo per un tempo che al momento viene fissato a 5 anni. La stima degli embrioni attualmente crioconservati in Italia è compresa fra alcune decine di migliaia e 200.000; essi sono in parte in attesa di essere trasferiti in utero, ma per la maggior parte "residuali" delle procedure di PMA.

Questa procedura totalmente nuova, estranea alla biologia umana quanto alla cultura del concepimento, della gravidanza e del parto, ha meno di 50 anni, muoveva i primi passi quando molte di noi lottavano per la legalizzazione dell'aborto; è un processo di cui ancora la biologia e la medicina sanno molto poco e i cui esiti incerti cominciano a essere pubblicati ora sulle riviste scientifiche ma soprattutto è un atto per il quale si fatica a trovare le parole (come lo spiegheremmo a un bambino?); è un evento cui finora non si è potuto o voluto dare senso.

Abbiamo mai conosciuto un embrione?
Sappiamo cos'è un feto per averlo perso in un aborto spontaneo o rimosso con un'interruzione volontaria di gravidanza, lo sappiamo da prima che l'ecografia ce lo mostrasse in vivo. Lo conosciamo per averlo fatto crescere dentro di noi fino ad assumere carattere umano e prendere coscienza della sua presenza, per averlo investito di un sentimento di perdita o di rifiuto o per esserci con-vissute fino al compimento del suo sviluppo, alla nascita di un figlio o una figlia.

L'embrione ai primi stadi del suo sviluppo è un grappolino di cellule, appena visibile a occhio nudo, approntato per dar via libera alla "domanda" di un figlio, con un gesto attivo e consapevole nella maggior parte dei casi. E' carico del desiderio di chi ne ha permesso l'esistenza, ma viene dimenticato se non serve più. E del resto, al pensiero di migliaia di embrioni congelati e conservati in azoto liquido non proviamo tutte e tutti un disagio che induce a dimenticare? Anche noi siamo state e stati embrioni infine.

Dotare l'embrione di un diritto, come fosse una persona, è il tentativo grottesco di rispondere a questo disagio, di riempire il vuoto di senso che questa entità sospesa produce in noi, è una risposta autoritaria e aberrante all'esigenza legittima di tutelarlo, è un'idea che va contro ogni senso comune dell'individuo, inteso come organismo naturale e come cittadino, e sancisce d'autorità proprio ciò che ci mette a disagio, l'esistenza autonoma dell'embrione, indipendente dall'uomo e dalla donna che hanno messo a disposizione i gameti e dalla donna che può portarne a termine lo sviluppo; mettendolo di fatto a disposizione dello stato. Come farebbe altrimenti a dichiararli adottabili?

Nel tentativo di rimettere in ordine lo scompaginamento della procreazione favorito dalle biotecnologie, lo stato svela la pretesa di "padre surrogato" che si garantisce il controllo sui figli a venire, non senza contraddizioni.

Se oggi infatti il governo di centro-destra usa gli argomenti che la tradizione più conservatrice della chiesa cattolica del nostro paese chiede di tradurre in legge, un altro potente soggetto è interessato agli embrioni residui: il mercato della scienza alla ricerca di sempre nuovi pezzi del vivente, originali o modificati, da brevettare e mettere in vendita. In Gran Bretagna fra il 1991 e il 1998, 48.000 embrioni non più utilizzabili per le procedure di PMA sono stati usati per la ricerca . Essi sono infatti la fonte delle cellule staminali di maggior pregio, le cellule staminali embrionali: il loro studio è utile per capire i processi di differenziazione cellulare mentre il loro uso terapeutico, rilanciato continuamente dai media, appare meno probabile, almeno su larga scala.

L'estrazione chirurgica degli ovociti dal corpo femminile evoca la fuoriuscita del seme dal corpo maschile producendo una mimesi fra i due sessi che irrompe sulla scena pubblica -e nella coscienza privata- ancora una volta quando arriva in tribunale: è il caso di una donna che contende al marito, da cui si sta separando, gli embrioni in attesa di essere trasferiti in utero.

Ma se la separazione e la conservazione di ovociti e spermatozoi permette l'esistenza separata dei "mezzi di riproduzione" e la loro conduzione sotto l'autorità dello stato, seppure con il consenso degli interessati, a noi donne e uomini spetta l'assunzione di una nuova, perché sconosciuta, responsabilità. Abbiamo collettivamente riconosciuto, e resa possibile laddove faticava a emergere, la responsabilità e la libertà femminile sul nostro corpo anche quando racchiude la possibilità di un'altra vita, la responsabilità verso altri e altre (e non solo figli); come essere responsabili di un ovocita sia pure estratto a fini riproduttivi, di un embrione concepito altrove?

Forse prendendo la parola, così che argomenti che sembrano interessare solo esperti da un lato e coppie infertili dall'altro entrino nella coscienza collettiva e assumano quel senso che ora fatichiamo a trovare: se le donne e gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni residui dichiarassero quale destino pare loro preferibile, se un'improbabile adozione, la distruzione o la donazione alla ricerca scientifica, con la clausola che in nessun modo siano scambiati per denaro o ne derivi un profitto, la vita tornerebbe rivendicata alle relazioni umane piuttosto che al controllo delle leggi, ne avrebbe slancio la presa di coscienza dei vincoli che le tecnologie riproduttive impongono e più consenso la difesa della "libertà" di generare.

9 giugno 2002