Da Repubblica del 3 febbraio 2005


CARA BRAVO C'ERAVAMO ANCHE NOI

MIRIAM MAFAI


Berthe Morisot


Può darsi che Anna Bravo abbia ragione quando in un saggio recensito ieri su queste pagine denuncia il «rapporto irrisolto» che il movimento femminista ebbe con la violenza, non solo per quello che si riferisce agli scontri di piazza o al picchettaggio, ma anche per ciò che si riferisce alla «immaturità» con cui allora le donne si misurarono con la questione dell´aborto, facendone una bandiera di autonomia e libertà, sottovalutandone la sofferenza e le implicazioni per la madre stessa e per il feto. Può darsi, ripeto, che la storica abbia ragione a condizione però di rendere esplicito che oggetto della sua critica non può essere «tutto» il movimento delle donne ma la parte, pure non irrilevante ma minoritaria, collegata, dal punto di vista culturale ed organizzativo, all´estremismo di quegli anni, e in particolare a Lotta Continua. In mancanza di questa chiara distinzione, tra tutto il movimento di quegli anni ed una sua parte, l´opera di scavo nel passato della Bravo rischia di apparire come l´ennesimo episodio di quel «revisionismo» della nostra storia passata, dalla Resistenza in poi, che si va conquistando sempre più spazio nella pubblicistica prima che nella opinione pubblica del nostro paese.

Pur non essendo una storica, e confermando tutta la mia stima per l´intelligenza e la sensibilità della Bravo, vorrei dunque precisare il mio pensiero a proposito del punto essenziale affrontato dalla sua ricerca e che si carica oggi di una stringente attualità. Ma davvero nella battaglia condotta negli anni Settanta per sconfiggere la piaga dell´aborto clandestino (una piaga che provocava sofferenze fisiche e morali), in quella battaglia condotta, e finalmente vinta, per ottenere una legge rispettosa dell´autodeterminazione della donna, venne esaltata una spregiudicata, assoluta libertà della donna, quasi un «diritto all´aborto» in dispregio della entità e a danno del feto? A quanto ricordo, fu questa la posizione di una parte soltanto del movimento femminista e di alcuni gruppi più vivaci e rumorosi, ma non della sua maggioranza. Il problema della liquidazione delle norme del codice che prevedevano il reato di aborto, e quindi della sua legalizzazione e della possibilità che l´interruzione di gravidanza avvenisse nelle strutture pubbliche su richiesta delle interessate quel problema, quanto mai delicato, venne affrontato con assai maggiore cautela e prudenza dalla maggioranza del movimento femminista, dalle donne comuniste e all´interno dell´Udi (una organizzazione femminile importante ed oggi ingiustamente dimenticata).

Adriana Seroni, la parlamentare comunista che diresse a Montecitorio la battaglia per la legge 194, e convinse il suo partito della necessità di una legge, era instancabile nell´ammonire che il ricorso all´aborto non poteva essere letto come una affermazione di libertà per la donna, ma al contrario come il prezzo pesante che le donne erano chiamate a pagare a causa della deresponsabilizzazione del partner e della insufficiente tutela offerta alla maternità dalle nostre istituzioni. Una posizione che, lo ricorderà certamente anche Anna Bravo, meritò alla Seroni, critiche, irrisioni e inevitabili accuse di collusione con i cattolici. Da una parte, ma da una parte soltanto del movimento femminista, quello al quale la Bravo apparteneva.

Anche il movimento allora fu attraversato da divisioni e contraddizioni. Sono passati molti anni e un´altra generazione di donne, che fortunatamente fanno sempre meno ricorso alla legge 194, è ormai sulla scena. Ma se dovremo, come possibile, riaprire un dibattito su quella legge, ormai apertamente messa in discussione da alcune forze politiche, sarà meglio evitare di farci carico di autocritiche ingiuste o eccessive (quelle giuste, in questo come in altri campi, sono già più che sufficienti). E vengo rapidamente al secondo punto affrontato dalla Bravo: il rapporto del movimento femminista con la violenza, tema affrontato a suo tempo dal fondamentale testo di Robin Morgan, Il demone amante. Ben venga naturalmente un approfondimento del tema in chiave nostra, italiana, e dunque un riesame delle vecchie posizioni, di antichi eccessi e solidarietà, sempre che venga precisato che non tutto il movimento femminista subì quel fascino. La scritta «uccidere un fascista non è un reato» non venne mai fatta propria dal movimento delle donne. E quando Lama a Roma venne aggredito all´Università la maggior parte del movimento stava dalla parte di Lama, non dalla parte dei cosiddetti «indiani metropolitani».

Non c´è dubbio - e fa bene la Bravo a ricordarlo - che una parte del movimento dei giovani fu inquinato in quegli anni dal cosiddetto «fascino della violenza». Ricordo che quando i fratelli Mattei vennero bruciati vivi nella casa di Primavalle, una parte del movimento studentesco si schierò non a difesa di Lollo, subito inquisito, ma a sostegno pregiudiziale della sua innocenza. Paese Sera, il giornale dove allora lavoravo, abbracciò questa tesi. Un giorno all´improvviso arrivò in redazione un furibondo Luigi Petroselli, segretario della Federazione romana del Pci e futuro sindaco di Roma, per costringerci a correggere la nostra impostazione. Cosa che facemmo. A dimostrazione che il nostro margine di autonomia era ridotto. Ma aveva ragione Petroselli.