Si può insegnare l’autocoscienza?

Lea Melandri


 

Nel presentare la ristampa del Lessico politico delle donne. Teorie del femminismo (1978) per la collana “Letture d’archivio” (Fondazione Badaracco-Franco Angeli 2002), Manuela Fraire scrive: “Non stupisce la difficoltà di trasmissione tra le ‘vecchie’ femministe e le ‘giovani’, che sperano di apprendere sui banchi di scuola la trasformazione che l’autocoscienza ha permesso alla ‘maestra’. Va detto chiaramente, da chi ne ha fatto diretta esperienza come la sottoscritta, che il sapere sull’autocoscienza non può sostituire la formazione che avviene praticandola. Abbiamo verificato su noi stesse che la soggettività femminile nasce nella relazione con le donne, si differenzia a partire da lì.”

Col movimento delle donne degli anni Settanta, la coscienza del rapporto tra i sessi si sposta dal terreno che era stato dell’emancipazionismo, a partire dalla fine dell’Ottocento -uscita dall’emarginazione, battaglie per i diritti e la parità-, e si addentra in una zona di esperienza che la cultura, la storia e la politica tradizionalmente intese hanno sempre considerato “altro”: la memoria del corpo, le vicende originarie della specie umana e di ogni singolo essere, la costruzione inconscia delle figure e dei ruoli del maschile e del femminile, collocati sulle sponde opposte e complementari della natura e della storia, la violenza invisibile che passa confusa con l’amore, la sessualità, la maternità, vissuti come attenzione esclusiva al piacere dell’uomo, smarrimento di sé, sacrificio della propria vita per la crescita dell’individualità dell’altro. Per avvicinarsi a questa “preistoria” della civiltà con uno sguardo proprio, svincolato dalla rappresentazione che ne ha dato l’unico sesso che ha avuto parola pubblica -cancellandola o esaltandola immaginativamente, coltivando nostalgia di ritorni o movimenti di fuga-, era necessario far percorrere al pensiero strade inedite, cominciando innanzi tutto a riconoscergli il radicamento nel corpo e nelle “identità” sessuali che ancora oggi si tende a vedere come “connaturate” alle diversità biologiche del maschio e della femmina.

Il piccolo gruppo di autocoscienza è stato la straordinaria invenzione di un movimento che ha inteso per la prima volta la “politica” come inseparabile dalla storia personale, dal dominio maschile che passa inconsciamente attraverso la confusione con un modello unico di sessualità, dal cambiamento di quell’impianto dualistico che nella rappresentazione di sé e del mondo ha contrapposto e complementarizzato non solo le differenze sessuali, ma anche natura e cultura, infanzia e storia, individuo e società, corpo e mente, ecc., impedendo di vedere i legami che da sempre li tengono insieme. L’intuizione che la “presa di coscienza”, lo scostamento da modelli interiorizzati, non muovono dall’interno dei saperi costituiti, né per continuità da un solitario pensiero di sé, poteva emergere solo dalla relazione tra singole donne disposte a “raccontarsi” in presenza le une delle altre, a lasciare che il percorso di ognuna trovasse risonanze e smentite in quello dell’altra, che da sguardi prima complici, ostili o indifferenti, si passasse a un giudizio solidale e al tempo stesso critico.

Si poteva insegnare una “teoria pratica” che aveva bisogno dei corpi come delle parole, dell’esposizione “spudorata” di sé come singolarità e della riflessione collettiva, pensiero che si costruisce nel dialogo paziente di voci, vicende personali, molteplici, diverse, contrastanti?

Ciò che hanno in comune la pratica analitica e la pratica dell’autocoscienza, scrive sempre Manuela Fraire, è che “nessuna delle due può essere sostituita da un sapere che non attraversi la ‘carne’ e l’esperienza del soggetto”. Il desiderio di spostare equilibri anche dolorosi, su cui si è costruita la propria vita, modelli di comportamento e immagini di sé sedimentate nelle esperienze remote dell’infanzia, presuppone interrogativi, dubbi, ferite ancora aperte, discrepanze in qualche modo “incarnate”, che non sempre lo studio, la ricerca disciplinare, i linguaggi specialistici orientati verso la questione dei “generi”, riescono a raggiungere. Dall’inizio degli anni Ottanta in avanti, il femminismo si è “acculturato”, le problematiche del corpo, da luogo fisico, psichico e intellettuale del cambiamento quale erano state nell’autocoscienza, sono divenute materia o disciplina per nuovi corsi accademici; nella fretta di farsi presente “autorevolmente” nella vita pubblica con un segno inconfondibile di “differenza”, il movimento delle donne ha smesso in molti casi di gravitare su piedi, sentimenti, vite reali, di dar parola e generalizzazione al “vissuto”, si è “emancipato”, verrebbe da dire, da se stesso, dall’originalità e radicalità del proprio assunto iniziale.

Se le protagoniste di quel cambiamento non l’hanno “trasmesso” per l’unica via sicura che era la continuazione e lo sviluppo di quella pratica -tra l’altro non così difficile da portare nelle aule scolastiche, dove vivono insieme singolarità e collettività- , è perché loro stesse ne hanno sentito il peso, la fatica e la conflittualità potenziale, nel momento in cui fosse stato portato dentro le istituzioni della vita pubblica o nei luoghi tradizionali della politica. L’ “autonomia”, la presa di distanza da tutto ciò in cui si è creduto e che si è amato ha, come notava lucidamente Sibilla Aleramo quasi un secolo fa, un aspetto “tragico”, così come è doloroso uscire dal “lungo sonno” delle illusioni che hanno impedito all’individualità femminile, confusa con l’immagine che l’uomo le ha attribuito, di parlare con voce propria.

Con tutto ciò, non si può dire che trent’anni di femminismo, e il lungo tragitto precedente dell’emancipazione femminile, non abbiano lasciato segni nelle vite singole, nella cultura e nella politica in generale. Caso mai il problema è come sottrarsi alla tentazione “materna” di lasciare che un patrimonio di intuizioni, conoscenze, cambiamenti, vada ad alimentare in silenzio un pensiero maschile “scorporato” che è sempre a rischio di isterilimento, astrattezza o distruttività, e che, una volta rinvigorito torna a presentarsi nella “neutralità” consueta. Può capitare, in sostanza, che anche nella vita pubblica si riproduca qualcosa di simile alla “fusione” amorosa, ricongiungimento degli opposti, sogno di poter fare “di due uno”, anche se quell’uno conserva il volto del sesso dominante, neutro o androgino che sia.

Recentemente, la ripresa di interesse, da parte di molte femministe storiche, per la rilettura di un passato condiviso –archiviazione, riordino e pubblicazione di materiali editi e inediti degli anni Settanta- si è incontrata, senza intenzionalità diretta, con gli interrogativi di una generazione giovane, 25-30 anni, appena uscita dalle università, sottoposta alla duplice pressione di legami famigliari, amorosi, comunitari, lavorativi sempre più incerti, e di prospettive mondiali “apocalittiche”: guerra, povertà, disuguaglianze crescenti, dilapidazione delle risorse del pianeta. Intorno alle carte ingiallite degli archivi del femminismo si affacciano oggi sguardi, storie personali e saperi diversi. La valenza politica e formativa di questa esperienza, da cui la scuola avrebbe molto da imparare, sta nell’interrogativo che torna ad accomunare donne di età, interessi e formazione differenti, studentesse, storiche, archiviste, o semplici protagoniste di un movimento: come può la conoscenza mettersi all’ascolto della vita, in ciò che ha di più indicibile, e produrre cambiamenti significativi, senza far dialogare le soggettività, i vissuti particolari e generali di ogni singolo, maschio o femmina che sia?

 

 

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