Milk

di Giulia D'Agnolo Vallan

 


Arrivato nelle sale americane a novembre, alla vigilia del Ringraziamento, e nel mezzo delle quasi-rivolte che in California hanno accolto il passaggio della "Proposizione 8", che ha reso illegali i matrimoni gay, Milk è la cronaca di una morte annunciata - come Elephant, Last Days, Paranoid Park e Gerry. Però, rispetto alla narrativa sparsa, alla spazialità destabilizzante e al lirismo contemplativo degli ultimi quattro film di Gus Van Sant, questo biopic sul consigliere comunale Harvey Milk (Sean Penn) e la lotta per i diritti omosessuali anni settanta, è un lavoro strutturato, articolato in un impianto classico, meticolosamente ricostruito, in una sovrapposizione di fiction e documentario, quasi cauto. Un film «adulto», che Van Sant sognava di fare da anni. E un film involontariamente, quanto inequivocabilmente, del momento - anche al di là dell'attualità californiana.

La «serietà» del compito è chiara fin dall'inizio. Non solo Van Sant si è affidato alla consulenza di uno dei protagonisti della vicenda, Cleve Jones (collaboratore stretto di Milk): il film apre con le immagini di repertorio dell'attuale senatore Diane Feinstein (allora presidente del consiglio comunale della città) che annuncia la morte di Harvey Milk e del sindaco George Moscone, uccisi da un altro membro del municipio, e paladino dei «valori di famiglia», il consigliere Dan White (Josh Brolin) . È il 27 novembre 1978. A quel punto, lo stesso Milk (Sean Penn, in una delle sue interpretazioni più ricche per abbandono e sfumature) inizia con voce fuori campo il racconto della sua vita. Le parole sono quelle del testamento spirituale che aveva registrato con l'istruzione di renderlo pubblico «solo nel caso fossi assassinato».

Cut e siamo nella metropolitana di New York all'inizio delle decade. Non c'è ancora la promessa di un martirio, nell'incontro tra l'analista di Wall Street segretamente gay, Harvey Milk e Scott Smith (James Franco), il cherubino biondo che accetta di seguirlo a casa e sotto le lenzuola per festeggiarne il quarantesimo compleanno. All'insegna del «cambiamento», i due amanti partono per San Francisco dove il negozio di fotografia che aprono nel Castro district diventa centro di una fiorente comunità omosessuale. Nonostante l'uso di immagini di repertorio che documentano gli scontri e i pestaggi della polizia, Van Sant immagina Castro come una sorta di allegra Frontiera, verso cui convergono centinaia di giovani pieni di energia. Un luogo in cui il sesso ha una dimensione ludica, adolescenziale (come sempre nei suoi film), prevalentemente monogama e il fantasma dell'Aids non aleggia ancora. Su questo sfondo, Milk scopre la sua vocazione di attivista e inizia un'instancabile (perse almeno quattro elezioni prima di diventare consigliere) scalata al potere locale, in nome dei diritti civili gay.

Entusiasmante sollevatore di masse, ma anche astuto e spericolato stratega politico, l'ebreo di Long Island sicuro che sarebbe morto prima dei cinquant'anni ignora la prudenza (e la pruderie) dell'establishment omosessuale della città in favore della lotta dichiarata, movimentista. I suoi primi alleati sono i sindacati, che conquista promettendo appoggio al boicottaggio della birra Coors, che sarà bandita dai bar gay della città. Neri, ebrei, anziani, hippie, poveri... le campagne di Milk hanno messaggi ad hoc per tutte le minoranze. Tra le sue battaglie più feroci quella contro la " Proposizione 6". Concepita sull'onda del successo nazionale della crociata repressivo/perbenista della pop singer Anita Bryan, la Prop 6 avrebbe radiato gli insegnanti gay dalle scuola della California. Diversamente dalla Proposizione 8, fu clamorosamente sconfitta. «Se passasse dovete lottare come dei dannati», mettere le strade a ferro e fuoco, aveva detto Milk ai suoi ragazzi - lui, primo gay dichiarato a ricoprire una carica pubblica, non poteva più permetterselo. È un invito destinato ad echeggiare nelle vie di Los Angeles e San Francisco dove in questi giorni si protesta il bando alle nozze gay - anche se quando Gus Van Sant ha iniziato il suo film, la proposizione 8 non esisteva ancora.

Colpisce che Gus Van Sant abbia deciso di chiudere il suo film con le immagini dell'immensa veglia funebre al lume di candela che si riunì per l'addio ad Harvey Milk, e non invece con le rivolte scoppiate alla notizia che il suo assassino se la sarebbe cavata con pochi anni di prigione (la difesa passò alla storia sostenendo che le facoltà mentali di White erano alterate dalla temibile junk-merendina Twinkie). Ma quando Van Sant ha cominciato a girare la sua pellicola, la vittoria di Barack Obama non era una certezza, anzi era un candidato improbabile, di minoranza e un movimentista. Come Harvey Milk. E, in effetti, Milk è un film «responsabile», come il nuovo presidente degli States. «Bisogna dare alla gente speranza», sono le ultime parole del testamento spirituale che Sean Penn pronuncia davanti al microfono di un vecchio registratore. Il pensiero di Obama, trent'anni prima.

Da "Il manifesto" del 23-01-09

29-01-09