Parità tra i sessi e “rivoluzione possibile”

Lea Miniutti intervista Lea Melandri


 

 

Incontriamo Lea Melandri al convegno “La rivoluzione possibile. Cura/Lavoro: piacere e responsabilità del vivere” che si è svolto a Milano il 18 febbraio.
L’iniziativa è stata organizzata dalla Libera Università delle donne, Unione Femminile Nazionale, Libreria delle donne, rivista Leggendaria.

Lea, qual è il significato di questo convegno, in tempi in cui il lavoro scarseggia per tutti, e le donne sono le prime a tornare a casa?

«Il tema che ci siamo date per questo convegno sottolinea due aspetti: il primo -“cura/lavoro” - dice che oggi non si può parlare di occupazione femminile senza tener conto che sono ancora le donne a portare il maggior carico di responsabilità, lavoro domestico e cura della famiglia.
La disuguaglianza di salari, la mancanza di asili e servizi per la famiglia, quando non inducono a rinunciare al lavoro fuori casa, sono comunque la principale causa della sottoccupazione delle donne.
D’altro canto, volevamo anche mettere in discussione che la cura non può più essere considerata un destino “naturale” della donna – moglie, madre – quando invece si tratta di una responsabilità collettiva di uomini e donne, un impegno che non significa solo la crescita di un figlio, l’accudimento di un malato, di un anziano, ma il tempo di vita, il benessere, la piena realizzazione delle proprie capacità, a cui tutti hanno diritto.
Abbiamo chiamato “rivoluzione possibile” l’occasione che si dà oggi, nella crisi di un modello di sviluppo basato sul profitto e su logiche di mercato, di ribaltare le priorità mettendo al centro della politica e delle relazioni sociali la cura intesa come “piacere e responsabilità del vivere”».

Quali, allora, le politiche da mettere in atto per la parità di genere e una giustizia sociale?

«Le manifestazioni e le prese di posizione del movimento delle donne negli ultimi anni, accanto ad altri temi - come la violenza domestica e gli attacchi alla Legge 194 - hanno messo al centro il riequilibrio della rappresentanza tra uomini e donne nei luoghi decisionali della vita pubblica.
La battaglia per il “50 e 50 ovunque si decide” non è stata posta in termini di “quote” e “parità di genere”, ma come principio elementare di civiltà, scelta necessaria per portare allo scoperto il fatto che le donne non sono una minoranza, ma la metà della specie umana.
Però, se vogliamo, è stata anche una scelta obbligata dalla resistenza maschile a rinunciare al governo della “cosa pubblica”, ritenuto per secoli un destino del loro sesso. Bisogna però aggiungere che il 50 e 50 non basta.
Sappiamo bene che le donne si sono adattate per lungo tempo a una visione del mondo dettata dall’uomo, per cui è necessario sostenere candidature di donne consapevoli di quello che è stato il rapporto di potere tra i sessi, donne capaci di modificare istituzioni, ordinamenti, linguaggi che si sono formati senza che loro vi avessero parte, e senza tenere conto delle funzioni necessarie alla conservazione della vita. La ragione per cui la maternità può essere ancora considerata un “ostacolo” al buon rendimento sul lavoro».

Il 13 febbraio di un anno fa, i movimenti femminili invitarono donne e uomini a scendere nelle piazze per manifestare il dissenso contro il degrado politico e sociale del Paese. Che cosa è cambiato nel frattempo?

«Non molto, purtroppo. Forse c’è maggiore prudenza nel fare del corpo femminile l’uso mercificato a cui ci aveva abituato la televisione berlusconiana. Il nuovo governo ha sicuramente introdotto un modo di far politica meno personalizzato e meno incline alla spettacolarizzazione. Resta il fatto, non nuovo per il nostro paese, che anche una grande manifestazione come quella del 13 febbraio sembra non lasciare traccia.
Non basta certo aver calato il sipario su veline, escort e licenziosità di uomini di potere, per portare al centro della politica la questione uomo-donna, il rapporto sessualità e potere, che rimangono nonostante tutto confinati nel privato.
Dai comitati “Se non ora quando”, comparsi in molte città, e di cui fanno parte gruppi, associazioni femministe, donne di partiti e sindacati, ci si aspetterebbe che facessero sentire la propria voce, forti di un patrimonio di cultura prodotta da decenni di riflessione e pratica politica».

Parliamo di violenza. Nei tuoi scritti affermi che le donne, ancora oggi, sono considerate come corpo erotico e materno. Gli uomini non riescono ad accettare il rapporto di coppia alla pari. Nel tuo ultimo saggio “Amore e violenza” dai spiegazione della violenza maschile.

«La questione della violenza contro le donne non si risolve con la richiesta di pene più severe. Ci fanno indignare giustamente sentenze discriminatorie, frutto di pregiudizi sessisti, ma sappiamo che omicidi, stupri, maltrattamenti, sono solo la manifestazione più arcaica e selvaggia di un dominio storico particolarissimo – quale è quello maschile – che si è confuso con l’amore, con le esperienze più intime degli esseri umani. Prima del padre-padrone, l’uomo è figlio, nato da un corpo di donna.
Per quanto ci possa inquietare, dobbiamo chiederci perché l’uomo si accanisca contro il corpo che l’ha generato, che gli ha dato le prime cure, e le prime sollecitazioni sessuali. Si può pensare che sia proprio il vissuto di inermità, dipendenza, amore e paura che ogni figlio conserva dell’originaria potenza materna, a riemergere quando nella vita adulta l’uomo viene abbandonato da una donna che riteneva “naturalmente sua”».

Lo dicono tutti: le giovani generazioni vanno educate al rispetto per l’altra, per l’altro e bisogna cominciare fin da piccoli, ma nella pratica non è così. Che si può fare?

«Il rancore che emerge oggi da parte di uomini che si sentono sempre più minacciati dalla libertà femminile, sembra portare allo scoperto una fragilità infantile mai cancellata. Non c’è dubbio che per liberarsi da ruoli, pregiudizi, fantasie sedimentate nell’inconscio collettivo nel corso dei secoli, bisogna andare alla radice, cominciare fin dalla prima infanzia l’educazione ai sentimenti, alla conoscenza e al rispetto reciproco. E se vogliamo davvero un cambiamento c’è bisogno dell’impegno di tutti: famiglia, scuola, chiesa, istituzioni, tutti, nessuno escluso».

 

da Milanosud, marzo 2012

 

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