Movimento a più voci
Discussione intorno al libro di Maria Schiavo

di Donatella Bassanesi

 


Elin Danielson

 

 

Maria Schiavo è autrice di Macellum, storia violenta di donne e di mercato, 1979 – Margarethe von Trotta, ovvero l’onore ritrovato, 1981 – Discorso eretico alla Fatalità, 1990 – curatrice delle lettere di Madame de Sévigné, Alla figlia lontana. Lettere 1671-1690, 1993 – Amata dalla luce, ritratto di Marilyn, 1999.

La discussione intorno al libro di Maria Schiavo, Movimento a più voci, è avvenuta presso la Libera Università delle Donne, in collaborazione con Fondazione Badaracco e Unione Femminile Nazionale. Promossa da Lea Meandri (direttrice della collana letture d’archivio), ha visto la partecipazione di studiose della storia, del pensiero e della lingua delle donne: Paola Di Cori, Roberta Fossati, Chiara Martucci, Adriana Perotta Rabissi, Emma Scaramazza.

Maria Schiavo, io narrante, testimone dei fatti, nel ripercorrere questa storia incontra donne. La prima ad apparire, assolutamente e indissolubilmente legata a lei è l’amica Adriana, “figura integra incapace di addivenire a compromessi, al prezzo della vita stessa”.

“La visione di Adriana, della sua sofferenza fino alla morte, non mi abbandonava. E quel desiderio di vita, di un mondo migliori”.

Figura d’anima e ombra interrogante che segue-sopravanza in un tempo-movimento – “con il suo gesto disperato mi aveva predetto, andavamo verso un mondo senza amore”, nello “smarrimento del senso delle cose, che le era stato fatale” aveva avuto “intuizione di un mondo altro, ancora invisibile”.

Parte del soggetto diviso e sognante, “rivelazione di un al di là, di esseri cari scomparsi che ci parlano talvolta”, segno del mescolarsi di corporeo e incorporeo, dell’assenza nella presenza, dell’andare verso l’altra come altra parte di sé.

“Quella non era null’altro che la mia voce”, “le infinite altre domande di infinite altre donne, che premevano, eccedevano” ogni risposta.

Bisognava lottare perché “non vedevo, ancora, infatti, un mondo dove anche la mia incontentabile amica avrebbe potuto vivere”.

“Senza interrompere un dialogo iniziato con lei”, che rimanesse un legame anche quando, col tempo, diventava “sempre più sotterraneo, inesprimibile”, anche quando crollava quel “senso di onnipotenza, che mi aveva fatto sentire viva anche Adriana, perché io stavo insieme ad altre tentando di cambiare (anche in me, a partire da me) quel mondo che l’aveva uccisa”.

La domanda che Maria Schiavo pone alla fine del suo libro è, realmente, domanda iniziale.

“Dove è andata a finire la forza politica dirompente della ‘donna muta’? di colei che era stata capace di porre la sua obiezione, di modificare la realtà a partire dal suo personale disagio, dalla sua stessa difficoltà a prendere la parola, dove era andata a finire? Era destinata a tacere per sempre, iperprotetta dalla teoria delle sue simili, dalle madri simboliche alle quali si affidava totalmente, a tal punto da non aver più bisogno di parlare, di difendersi, perché oramai lo era, e per sempre?”

Per rispondere, Maria Schiavo ripercorre gli anni.

C’era l’impressione di essere in mezzo “a grandi mutamenti politici”. Sovrastante “qualcosa di più importante, di sovrapersonale”.

“Un forte senso dell’avventura umana, intellettuale”, era un “cercare attraverso le persone: interrogarle, scavarle, sviscerarle per sapere”.

La sospensione dei rapporti tradizionali e la ricerca frenetica di esperienze liberatorie. Ma “non vidi molta gente innamorata in quegli anni”, “come una corda emotiva si fosse inceppata, per cui i sentimenti risultavano legati, difesi”. Si sottovalutava la virtù della costanza.

Tra le donne nasce una nuova intesa, un’alleanza che a volte prende la forma del sostegno originario (materno), è sorellanza: attrazione tra le donne e “importanza di una donna per un’altra donna nella costruzione di una nuova immagine di sé".

“Si è più tardi visto, negli anni Ottanta, che in realtà è stata soprattutto l’immagine della donna prima e al di là di ogni scelta sessuale, che ne è uscita rafforzata”: “l’amore di sé, attraverso la relazione con l’altra”.

La “parola creativa, capace di nominare come per la prima volta”, la “possibilità della creazione di una nuova città”, “il potere di far apparire un nuovo senso, un nuovo mondo”.

“Periodi di convivenza, di discussione, ci rimettevano in un rapporto elementare con il nostro corpo, con il respiro stesso. Con la nascita. Con la rinascita che progettavamo”. “Un sogno di corporeità innocente, utopicamente ritrovata in opposizione alla parola”. “Aleggiava fra noi come una lingua sconosciuta, che non avevamo ancora imparato a decifrare”. “Percezione del vuoto, di quella donna che non ‘era’ ancora”.

Una ricerca che non portava mai a “ un punto definitivo d’arrivo”, “tutto ciò che si modificava, che era in via di trasformazione, rifuggiva dal fissarsi a lungo in forme definite”, “il nuovo, ciò che doveva nascere, non sopportava le ripetizioni”. “Esigeva dignità e interezza per sé e per le proprie simili”, “in un certo senso come un’ascesi”, percorre la divisione originaria, la dolorosa lacerazione, ascolto “che non contempla né domande né risposte ma ha la sua ragione d’essere unicamente in sé”, “offerta della propria vita per la verità” – per testimoniare della propria verità.

“Qualcosa di drammatico, di autentico” – ognuna “metteva alla prova le altre” – “lasciava sempre una parte sconosciuta “che in certe situazioni poteva totalmente dominarci”.

Una “sospensione insidiosa, quasi atemporale, senza scadenze, destrutturata”.

Si “bruciava nel presente la (…) capacità di trasformare”, non si garantivano “legami, progetti nel futuro”.

Come la psicoanalisi entrò nel movimento?

"Arrivò in Italia per influenza del gruppo francese Psychanalyse et Polytique, dove si usava un doppio livello di analisi, individuale e collettiva. È la Rivoluzione dell’’89 a rendere una “libertà di speculazione, un’immagine di sé più ardita e progettuale”, “una rara attenzione, un eccezionale ascolto dell’altra”, la “forza del desiderio, ma anche la sua sofferenza”, “una situazione strutturata e nel contempo destrutturata”, “la madre prima del padre (…) liberata da una legge che l’annientava”.

Le esperienze trasmigravano facilmente da un luogo all’altro: “tutto, o molto, ci sembrava possibile”.

Non doveva essere “la psicoanalisi a dettar legge, ma una ricerca collettiva di donne che la interrogavano attivamente”. Si intendeva affermare una diversità dall’analisi tradizionale, riflettere collettivamente contro ogni mito, ideologia, potere.

In quel tra che è il legame personale-politico – nella mescolanza tra psicoanalisi e politica – soggetti cominciavano a esistere insieme. Fu una forma di amore-conoscenza, “l’amore e il processo di conoscenza e di modificazione della realtà facevano tutt’uno, erano immersi nella stessa realtà intersoggettiva di scambio”.

Ma, il rapporto duale (analista-analizzata) all’interno del movimento fu un’esperienza difficile, pericolosa: la lucidità delle analisi non bastava a proteggere da una forte trama passionale; “rafforzava solo una dualità, una coppia”; non poteva “circolare liberamente, insieme, all’esterno”, una specie di censura impediva “di discutere in modo critico” quello che si faceva nell’analisi individuale, “come lo stavamo facendo”.

“Penso che quelle fra noi che erano, o credevano di essere, più addentro nel processo politico, si siano rese molto presto conto di quanto fosse impossibile praticare l’analisi di gruppo o individuali in senso stretto, optando quindi per un uso teorico-politico della psicoanalisi, interrogandola, criticando la visione della donna che ci aveva tramandato, ma senza rifiutare a priori i suoi strumenti di indagine”.

Due mondi spaccati?

Maria Schiavo, usando per definire una parte del femminismo l’espressione ‘femminismo di servizio’, apre una questione.

Se l’irripetibilità dell’esperienza soggettiva “irrompeva in quella collettiva” e si opponeva al falso universalismo maschile, “faceva saltare il linguaggio della politica dei gruppi”, l’essere-l’agire non doveva essere un mezzo ma fine, cosa avvenne a quelle donne che, appunto, da gruppi extraparlamentari provenivano?

È Adriana Perrotta Rabissi, ripercorrendo la sua storia di origine operaista, a tentare una lettura con un intervento.

Ritrova “importanti contatti, confronti, riflessioni sia tra compagne dei gruppi della sinistra extra-parlamentare sia con le donne di fabbrica e le casalinghe”. Confronto che “avveniva sulle nostre vite, le loro e le nostre, alla ricerca, nel clima di allora, dei tratti comuni, malgrado le differenze di educazione, collocazione sociale e politica e spesso di età”. “Si parlava non di liberare o sensibilizzare altre donne, ma liberarci tutte insieme, dandoci forza reciproca”. “Era un primo momento di costruzione di una socialità tra donne diverso dalle tradizionali amicalità e/o complicità familiari socialmente accettate e incrementate”.

E, “all’inizio le diverse posizioni non impedivano il confronto”.

Forse, il tentativo di cui scrive Maria Schiavo “di far confluire forze intellettuali, emotive, per convertire la vita, modellata sull’impronta delle verità che via via scoprivamo” fu, all’inizio, generale.

E la critica al potere (che emerge già chiaramente e ripetutamente in Carla Lonzi) fu aggregante, entusiasmante (e piuttosto semplicistica per essere il potere considerato esterno-estraneo). Diventò poi, all’approfondirsi dei rapporti tra donne, rifiuto di sottostare a gerarchie (guidante-guidata, analista-analizzata…), di affidarsi alle garanzie costituite dai partiti e dai gruppi cattolici o marxisti.

Più tardi intervenne qualcosa di ancora diverso. Sono ancora parole di Maria Schiavo:“sembrava infatti che dopo il primo momento di riconoscimento – insieme, simultaneamente, corrispondenti –, come succede nei grandi periodi storici di cambiamento, si fosse creata una situazione più spinosa, di rapporti di forza (…) come se tra noi stesse si ricreasse il problema uomo-donna, superiore-inferiore, quasi allo stesso modo in cui storicamente si era verificato nel rapporto fra i due sessi”. E si videro espressioni di aggressività e violenze verbali.

“Attingere all’inconscio di noi tutte, che aveva portato l’analisi a passare dalla questione della separazione dagli uomini alla “separazione del soggetto da sé”, evidenziava una “forma incerta e barcollante”. A “sostegno dell’immagine di sé” (“essere materialmente nate di donna”), l’altra (la madre prima del padre, distinta da noi, da chiamare per nome, “una promessa di scambio, di reciprocità”): l’omosessualità politica.

Fu principalmente “l’esercizio della parola”, “prendere la parola, a caro prezzo, e talvolta a qualsiasi prezzo” a permettere di conoscere le differenze, l’altra.

Ma in molte si produsse l’impressione di un ‘dover essere’, in qualche modo di un’ideologia. E, per altro verso, l’impazienza che si avvertiva in qualcuna quando comparivano aspetti troppo personali fu sentita come un allontanamento dal ‘partire da sé’

Un discorso sul nulla – “attraversamento (necessario, epocale)” – diventò critica alle parole, che sembravano irriconoscibili appena scritte, diventavano “discorso astratto, onnivoro, onnipresente”, svuotavano le singolarità (Luisa Passerini): sono momenti, il ballo, i gruppi di espressione corporea, “irruzione del destrutturato-destrutturante”, turbamenti, seduzioni, disorientamenti.

Aver provato a pensare come se nessuno avesse pensato prima (Hanna Arendt), aveva reso forza e anche violenza. Aveva mostrato la difficoltà a reggere il conflitto come luogo permanente da attraversare, come luogo quintessenzialmente della conoscenza.

Così le donne si colpivano reciprocamente segnando distanze, cercando rifugi.

 

Maria Schiavo.
Movimento a più voci
Il femminismo degli anni Settanta attraverso il racconto di una protagonista
Fondazione Badaracco – Franco Angeli ed. - 2002