Anch’io non sono una signora
di Liliana Moro



Shirin Neshat


Quando ho visto l’articolo di Lea Melandri titolato Non sono una signora ho esultato. Ma certo!

Da qualche tempo mi frullava in testa questo antico grido di Loredana Bertè ma ne ho capito il motivo solo quando, ascoltando il famoso faccia-a-faccia tra i candidati con un orecchio mentre smanettavo al computer, ho sentito il nostro beneamato premier parlare delle “signore” che non vogliono lasciare “la famiglia” per occuparsi di politica.

Già avevo notato che “i signori” che parlano dentro gli studi televisivi usano questo appellativo per le donne - a qualunque titolo vengano invitate -, mentre a sé riservano quelli che li designano come portatori di cariche, rappresentanti di istituzioni e di professioni: presidente (tutti sono presidenti di qualche cosa), direttore, avvocato, onorevole.

E meno male che onore (la radice da cui deriva ‘onorevole’) è diventato quasi una parolaccia, meno male perché l’onore è un attributo maschile che, curiosamente, si basa sui comportamenti femminili, come si evince dal concetto di delitto d’onore. Ma la lingua italiana registra anche “uomo d’onore” e allora si apre uno spiraglio sul retroterra che lega onore a famiglia collocando entrambi nell’ambito del sistema mafioso, del patriarcato più arcaico e violento.


Così preferisco essere una cattiva ragazza (di quelle che vanno dappertutto e non solo in paradiso), piuttosto che una signora. Del resto le ‘vere’ signore in circolazione mi sembrano sempre meno: lo era certo Camilla Cederna che non rimase a casa quella notte di dicembre quando le giunse la notizia dell’improvvisa morte di un anarchico nel cortile della questura di Milano: andò subito a verificare e poi continuò a frequentare luoghi poco “signorili” per scoprire la verità.


Non essendo una signora mi posso permettere di fare domande un po’ impertinenti come:perché non entrate voi nel silenzio?
Perché tanti uomini non se ne stanno un po’ zitti?
E soprattutto: Perché vengono registrate e propagate le parole di gente che mente, diffonde violenza, suscita aggressività?

E non sto pensando solo al signor B. ma a gente come Calderoli, che non è nemmeno più ministro ma viene ancora intervistato, il cui turpiloquio viene religiosamente commentato. Come Pera, Buttiglione e come tanti uomini che ricoprono incarichi istituzionali e di potere politico o culturale. Quelli, appunto, che non sono semplici signori.

Come mai gli altri uomini danno loro tanto spazio e tanta voce? Anche quelli che non sono così beceri e arcaici: “neocons” oppure “teocons” si dice ora per non definirli con termini troppo violenti e comunque ideologici, come maschilisti o reazionari.
Sono tutti complici? Sono tutti uguali?

La questione della violenza sulle donne, che ha posto Lea Melnadri e poi Angela Azzaro, chiedendo ai maschi perché uccidono le donne, mi sembra possa essere declinata anche nel senso di chiedere ai maschi perché non ascoltano le donne.

Perché il discorso più colto, articolato, intelligente, documentato e pieno di vita che possa fare una donna risulta poco significativo per gli uomini?
Perché danno invece maggior peso alle parole più insulse, infondate, spesso false e in mala fede, purché dette da un uomo? Parole che vengono ricordate e tramandate, che entrano nei verbali, nei manuali, nelle trasmissioni tv e nei remake delle trasmissioni tv, negli articoli e nelle rassegne stampa, nei discorsi celebrativi e nei libri commemorativi. E fanno storia e fanno tradizione, scienza, cultura.

Questo è il problema degli uomini, dei maschi (faccio fatica ad usare questo termine che sa di corridoi di scuola, di “bagni dei maschi”, di giochi di cortile, “i giochi dei maschi”, insomma di anni Cinquanta).
Ma il problema nostro è che anche noi usiamo la stessa scala di valore degli uomini, usiamo gli stessi due-pesi-e-due-misure. Anche se prestiamo maggior attenzione a ciò che dicono le donne, anche se ne sentiamo risuonare dentro la verità, siamo involontariamente, inconsapevolmente portate a dare maggior peso, maggior valore a quanto dicono gli uomini. Loro sono comunque i depositari del sapere, del diritto. Del resto sono personaggi autorevoli: hanno tutti cariche importanti, sono direttori di giornali, fanno parte di commissioni, come minimo sono esperti. Non sono mai semplici signori.

Il che mi fa sospettare che esista una relazione tra autorevolezza e potere istituzionale e noi donne che rifuggiamo dalle istituzioni, dalle cariche, dalle strutture che uccidono le relazioni e il calore della vita, poi però ne riconosciamo in qualche modo il valore.

Oppure è solo una questione di forza e le donne sono costrette a sentire per ore parole di nulla solo perché non posseggono né dirigono tv e a leggere discorsi insulsi o dannosi perché non posseggono né dirigono giornali? Mi sembra semplicistico sia perché la mappa del potere mi sembra più diversificata, sia perché penso a Matilde Serao che dirigeva Il mattino di Napoli già più di un secolo fa. Che cosa è successo nel frattempo?
 

Certo che io, che non sono una signora, sono veramente stufa, do segni di grave insofferenza e all’ennesimo commento sulle esternazioni dei candidati premier e al decimo servizio del tg con le dichiarazioni dei vari leader afferro il telecomando e li riduco al silenzio.


 

28 marzo 2006