Piera Ventre, Come il primo bene

Nicoletta Buonapace


 

Una prova convincente quella di Piera Ventre, alla sua seconda pubblicazione dopo i racconti di Alisei.
Come il primo bene”, pubblicato da Erasmo Edizioni, è un romanzo dalla struttura complessa, che si articola intorno all’”altrove”, come cifra esistenziale di tutte le voci che lo attraversano.
Candida, la protagonista, ripercorre la sua infanzia, il rapporto con la madre, quello con il padre e di entrambi leggiamo i pensieri da un luogo altro, inaccessibile, a marcare la distanza e l’impossibilità di un contatto, ma che contribuiscono, nella narrazione, a creare un intreccio che ci rivelerà una storia drammatica parallelamente al progredire della coscienza di Candida verso un processo di autoconsapevolezza sempre più profondo.

E’ un romanzo sull’amore questo e sul dolore, ma anche sulla bellezza. Una bellezza che sta a significare la capacità di uno sguardo etico sul mondo e che è lo sguardo che Lucia, la madre di Candida, insegna ad esercitare alla figlia ancora bambina: “La bellezza non è una cosa elementare”, “La bellezza difficile, le sussurrò sua madre, è quella che dev’essere decifrata”.
Si tratta di un momento in cui madre e figlia osservano dalla finestra, scene di vita quotidiana, e Lucia indica alla bambina la bellezza con un indice “che lambiva le cose, le ridisegnava, ne scopriva linee e costellazioni, quelle stesse cose non erano più ruggine, gru, spine dorsali scoliotiche, pelo rognoso, ferro.” La madre fa dono alla bambina di un occhio supplementare che rimane indelebile nella memoria di Candida e che diviene “un sigillo duraturo”, quello che le permette anche da adulta di “battere altre strade”, di aprirsi “un sentiero nel bosco e percorrerlo”, là dove chiunque altro non oserebbe avventurarsi, perché la bellezza “è l’inizio del tremendo” come scrive Rilke. E’ necessario dunque un coraggio per percepire la bellezza. In questo romanzo è la disarmonia, l’imperfezione, a comporre, attraverso uno sguardo segnato dalla diversità, una bellezza inedita e questo ci colpisce in un tempo in cui una parola come “bellezza” sembra perdere di senso, nel suo esser divenuta significante di un’estetica basata sulla salute, la gioventù, l’armonia delle forme, l’ordine razionale dei pensieri.

Lucia racconta i suoi pensieri e i suoi ricordi da un luogo di luce accecante, luogo di assenza. Leggiamo i suoi pensieri e, come in uno specchio, quelli che ricostruiscono l’immagine di lei raccontata da Candida. La bambina conversa con la madre, la guarda con gli occhi dell’infanzia, i soli capaci di seguire lo sguardo della madre su quella bellezza speciale che le indica, i soli capaci di non giudicare quella che scopriremo essere la follia della madre, come invece fanno gli sguardi del padre, della gente, dei medici.

Candida è contaminata dagli spettri della madre. Vedrà nascerne uno, proprio quando assisterà al trasporto coatto della madre in ospedale, una serpe, che le impedisce di poter stare al buio, che diviene nel tempo, a partire dalla ferita di un amore imperfetto, quello della madre per lei, simbolo di un’impossibilità a darsi, quella che chiama “un’incapacità a governare l’accoglienza” per il troppo dolore vissuto e che l’allontana dagli altri. “Non poteva saperlo che è appunto questo, l’amore: qualcosa che avviene malgrado le mancanze e proprio nei difetti dell’essere amato ritrova la sua ragione d’esistenza.”
Da quel momento “parlava un’altra lingua la bambina, un’altra lingua, fatta di sguardi più che di parole, di gesti non compiuti, di margini, e non la capivano. Allo stesso modo, lei non capiva loro. Fu quello, forse, il passaggio stretto in cui il percorso, il suo, prese una divergenza.

A partire da questa “divergenza”, dalle contraddizioni dell’amore, Candida si rispecchia nelle storie dei ragazzi disabili con i quali lavora e che, nel romanzo, sono raccontati da uno sguardo che vede tutta la propria impotenza e il proprio limite e che, in quella disabilità, riconosce “un dolore che non può esser detto da alcun alfabeto”, qualcosa che, ancora una volta, si riverbera nella storia di Candida come “una geografia segreta che non ha trovato sentieri per uscire allo scoperto.”

Quello di Candida è un percorso di crescita.
Il presente, il suo trovarsi dietro un vetro della rianimazione dell’ospedale dove il padre è ricoverato, il suo rapporto con Angelo, compagno e figura di un amore complicato, così come quello con i ragazzi di cui si prende cura, sono occasione per soffermarsi ancora una volta, sulle tante imperfezioni e mancanze dell’amore, da accettare, come “il primo bene, il marchio che affonda nella pelle e traccia la linea da obbedire, bellezza e orrore a mescolarsi insieme, e il tempo a inseguire il tempo”.
Riconoscere e accettare il male vissuto, consente un avvicinamento all’altro; l’apertura di una resa “può rendere possibile l’amore, giacché l’amore è un’imperfezione del divino, non esiste appieno se non c’è difetto.”
Allora anche lo spettro della serpe potrà ritirarsi e Candida potrà dire della bestia: “Si è rimescolata, demone, alla scheggia angelicata, carnefice e vittima in comunione di spirito, e io, ora, sono intera.” E sapere che vivere è “un alternarsi di zone d’ombra, di luce accecante e oscurità.”

 

Piera Ventre, Come il primo bene
Erasmo Edizioni, 2012
pag.229, € 15

 

20-04-2012

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