L'ora d'amore di Alina e Liseli

di Lea Melandri


 

Un film-documentario e un testo che lo ripercorre, come una sceneggiatura a posteriori lucida e commossa al medesimo tempo, preoccupata che a chi legge o guarda non sfugga nessun passaggio di un percorso che si presenta insieme "analitico e creativo": è appena uscito in un cofanetto (Rizzoli 2006), composto da un libro e un Dvd, Un'ora sola ti vorrei, di Alina Marazzi.

La prima volta che ho visto il lavoro di Alina, ho pensato che non assomigliava né a un film né a un documentario, ma che aveva invece chiare analogie con quella che ho chiamato spesso scrittura di esperienza, sia pure in versione filmica. Gli elementi essenziali c'erano tutti: non un prodotto preconfezionato, ma una ricerca che si radica nella storia personale, che nel segreto di ogni singola vita, negli interni di famiglia, dietro il pudore della sofferenza più privata, sa di poter trovare le tracce di vicende umane largamente condivise; soprattutto, un modo di procedere che non teme di affidarsi "all'istinto", di suscitare emozioni, di assecondare gli andirivieni e i sussulti improvvisi della memoria, perché a dirigerlo è il solco profondo di pensieri e sentimenti coltivati a lungo e disposti finalmente a darsi un volto, un nome, una lingua che tutti capiscono.

Tuttavia mancava ancora qualcosa: le immagini ci attraversano e spariscono con la rapidità dei sogni, soprattutto se si susseguono veloci e imprevedibili come libere associazioni, se riproducono, per forza evocativa, le atmosfere impalpabili di una "stanza di analisi". Serviva, anche se meno poetica e suggestiva, una narrazione che non disdegnasse il ragionamento, il pensiero interpretativo, che ricostruisse il lento e doloroso avvicinamento di una bambina di sette anni, ora donna, alla vicenda che ha segnato drammaticamente la sua vita, il suicidio della madre, Luisella (Liseli) Hoepli, figlia del noto editore milanese, nel 1972. Solo la scrittura, nella sua rugosità e lentezza, nel carico di sapienza antica che si porta dietro, poteva far rivivere il flusso delle immagini e delle voci -che passa veloce nel giro di un'ora sullo schermo- dentro la cornice dell'esperienza che l'ha rincorso, atteso costruito per anni nel silenzio.

E' questo che Alina ha fatto, accompagnando il film con un libro che non lo completa, come verrebbe da pensare, ma lo pervade in ogni piega, in ogni oscurità, fino a saturarlo di un significato, e di una valenza simbolica, quanto basta per privatizzare il dolore e scoprire in una morte incomprensibile i segni di una storia collettiva. La distanza impietosa, che chiude in "trenta righe di cronaca" - e per quasi tutti in un anonimo silenzio- la notizia più importante della vita di una persona, va lentamente a perdersi man mano che il sogno di far rivivere e rincontrare la madre-ragazza, perduta troppo presto, si apre all'orizzonte più ampio di tante storie simili di donne, a cui una consapevolezza nuova, vicina a noi, ha dato finalmente la forza di mostrarsi. Non è un caso che a forzare la porta del dolore privato sia lo sguardo esterno di un'amica, Ilaria, e, sullo sfondo, l'eco del movimento che ha visto per la prima volta nella "follia" e nella distruttività femminile l' "energia di una ribellione" a lungo non riconosciuta.

"La storia di Un'ora sola ti vorrei è stata per lungo tempo, dentro la mia testa, solo la storia di mia madre. Solo in seguito sono riuscita a vedere il film in un'altra ottica, a pensarlo come una storia emblematica, in cui molte altre donne si potessero identificare. Ilaria invece ha colto subito questa dimensione, ha sentito che la vicenda particolare di Liseli assumeva altri connotati e diventava il ritratto di una donna in crisi prima dell'esplosione dei movimenti femministi".


La narrazione "in chiave femminista" di una figura che emerge da un ambito famigliare, segnato inconfondibilmente dall'appartenenza a un'epoca, una cultura, una classe, trova il suo coronamento, ma anche il suo limite, che è il rischio dell'ideologia, nelle pagine finali del libro, là dove si profila un'ideale continuità tra esperienza personale e politica, tra casualità e destino.
"Ora sto lavorando a un terzo documentario…mi è venuta voglia di riprendere il discorso dal punto in cui l'avevo lasciato, cioè a partire dal 1972, per mostrare la trasformazione avvenuta in quegli anni nella vita delle donne. Il progetto è iniziato come un documentario sulla rivoluzione sessuale, ma più vado avanti più il discorso si sposta sulla condizione della donna e la relazione con l'altro, l'uomo. E' come se avessi deciso di continuare la storia di Liseli attraverso il racconto della vita di altre donne, in una dimensione collettiva e condivisa che sarebbe diventata naturale anche per mia madre, se avesse vissuto quel momento."

Non è difficile riconoscere dietro la creatività artistica la sofferenza, il senso di colpa, l'elaborazione di un lutto, soprattutto se, come in questo caso, è l'autrice a percorrerli, esplicitarli insistentemente, come se il "valore terapeutico" fosse proprio in questa riappropriazione del buco di memoria prodotto da una perdita intollerabile. Il richiamo, per un verso al femminismo, per l'altro alla psicanalisi, sono sottolineati da Alina stessa nella rilettura che ha voluto fare della sua "traversata" di un "mare immenso", quale è la vita di una donna "intima e sconosciuta" al medesimo tempo, chiusa nel segreto di carte, lettere, diari, fotografie, filmini amatoriali, cartelle cliniche, sepolti da anni nel ventre di un armadio o di un baule. Ma a sollevare il "velo dell'oblio" non è la forza ragionata di un progetto, di un'idea che si fa strada man mano e che, a lavoro compiuto, pretende di farsi cornice e processo generativo. A dare corpo all'illusione dell' "ora" che fa rincontrare due desideri, due narrazioni brutalmente interrotte, l'amore di una madre e di una figlia, ma anche il riconoscimento di una donna con la propria simile, concorrono elementi diversi, contrastanti, assemblati "per istinto" o per nessi inconsapevoli, e solo a posteriori caricati di un più generale ordine di senso. Sono gli "indizi" che, a più riprese, tornano all'interno del film, a sostegno dell'esile "finzione narrativa" che modella la storia di Liseli, della sua malattia e della sua morte, come un "giallo": il male segreto, celato dietro la maschera di una famiglia benestante, armoniosa; il sentimento di inadeguatezza legato a una maternità all'apparenza felice, la distruttività cresciuta all'ombra di un volto di ragazza "gioiosa, intelligente e simpatica". Un altalena, un prestigiatore, un sole nero, dicono, simbolicamente, i tratti essenziali di una ricerca che deve il suo incanto al fatto di aver saputo tenere insieme il sogno e una lucida consapevolezza, l'illusorietà del cinema e il controllo sapiente della tecnica che lo sorregge, gli andirivieni del desiderio e l'attenzione all'archivio della memoria che lo dirige a sua insaputa.

Sullo stesso registro, fatto di coincidenze e dissonanze, sovrapposizioni e allontanamenti, si vengono a trovare le due tematiche centrali del film: il rapporto complesso di Alina con la madre e l'originale combinazione degli sguardi che si posano, innamorati, sullo stesso oggetto -i filmini amatoriali del nonno, quelli di un amico di famiglia, e il ricalco che ne fa Alina, ritagliando frammenti, montandoli insieme alle riprese fatte da lei stessa. Per colmare il vuoto di affetti, gesti, pensieri, parole, che si è aperto tra una figlia bambina e una madre troppo a lungo assente, per i ricoveri in clinica, e poi del tutto perduta, non restava che dare corpo al materiale che si allunga come un'ombra accanto alle vite -lettere, fotografie, carte-, e che, in morte, diventa protagonista e testimone pressoché unico della persona scomparsa, di ciò che di lei conosciamo e dei suoi segreti.
La ricerca, che svuota bauli e armadi, che apre buste ingiallite, quando è fatta da mani di una figlia, mosse dall'amore e dal rimpianto, non può che essere "profanazione" e insieme ritrovamento di un racconto che le appartiene e che la madre ha portato con sé, lasciandone solo qualche traccia.

Come in un diario alla rovescia, la figlia e la madre, nell' "ora" magica che l'illusione filmica riesce a strappare alla morte, perché possano dirsi quello che ancora non sanno dell'una e dell'altra, si scambiano le parti: Alina presta a Liseli la sua voce, per dare corpo alle parole scritte nei suoi diari, nelle sue lettere, ma anche per inverare il desiderio che sia lei a raccontare la sua storia, come ci si aspetta che faccia un madre con la figlia. Ma se l'identificazione si muove con "naturalezza" nell'andirivieni tra ruolo materno e filiale, lo sguardo, la cinepresa, il montaggio, incontrano maggiori ostacoli, là dove sono costretti a ricalcare le immagini che altri sguardi hanno colto, amato e accarezzato. La storia di Liseli, in ciò che ha rivelato e tenuto invece nascosto, aveva bisogno innanzitutto che uno scavo sapiente la scostasse dal contesto e dal ritratto che occhi, convenzioni, affetti famigliari hanno dato di lei; era necessario che Alina, nel ricreare un incontro rivelatore di somiglianze profonde e non dette tra una donna e la sua simile, riattraversasse le immagini che avevano commosso un padre, incantato un uomo, rischiando di restarvi impigliata, presa dentro il fascino di una bellezza non comune, e la gradevolezza di buone, raffinate abitudini borghesi.

Il volto di Liseli, nelle riprese di lei giovane, sulla nave che la porta a Capo Nord, mentre tenta di annodarsi in contro vento un foulard, e poi con un largo romantico cappello tra i fiori di un giardino, sembrano volerla fissare per sempre in un alone di fiaba, che percorre tutto il film. E'il felice scarto della cinepresa che, distogliendosi da un ideale femminile senza tempo, riesce a riportare lo sguardo e la voce narrante sulle note scritte da Liseli stessa, sui pensieri che soltanto una scrittura privata poteva far scivolare dentro le maglie di una storia di famiglia, di convenzioni, di cerimoniali inattaccabili.
Raramente la scrittura e l'immagine si sono incontrate e scontrate in un corpo a corpo così amoroso e conflittuale, così carico di emozioni, lucido e imprevedibile.

Pubblicato su Liberazione il 30 Novembre 2006