Cittadinanza e rappresentanza femminile

di Ornella Bolzani


Regina Silveira

Democrazia è partecipazione. Lo dice il titolo della bellissima canzone di Giorgio Gaber che mi sembra condensi  l’interessantissima discussione del seminario del 16 ottobre scorso che si è svolto alla LUD attorno al tema della cittadinanza e della rappresentanza delle donne. Dove alla fine ha fatto capolino la necessità di ripensare allo strumento delle quote per allargare lo spazio della presenza delle donne nel dibattito pubblico.

Dopo tante produzioni filosofiche sofisticate e comunque importanti, (politica prima, autodeterminazione delle donne che non va normata, irrappresentabilità del collettivo donne, ecc.) mi auguro che prevalga finalmente un atteggiamento più pragmatico, dove le donne possano entrare numerose nei luoghi delle decisioni ma non per portare una ‘essenza’ diversa, o dei valori diversi che salveranno il mondo (col rischio di ricadere nel gioco delle supremazie) ma per portare programmi, idee nuove, rivolti all’intera cittadinanza, più che puntare su interessi particolari.
L’enfasi sulla politica prima delle buone relazioni nei contesti in cui si vive, che partendo dal basso potesse contagiare la società tutta, ha perso credito  come migliore strumento di cambiamento, anche perché penso che senza una organizzazione sarebbe stato difficile per la gente prendere parte attiva in modo critico e dissenziente della politica che piove dall’alto. Però rimane sempre lei a dominare la scena: la differenza sessuale, che un filone del pensiero femminista ha pensato, appunto, fosse più importante rispetto all’uguaglianza, la quale rischierebbe di offuscare la realtà dell’esclusione, con la sua pretesa di neutralità. In quanto ‘differenza umana originaria’ la differenza sessuale, da non  mettere in conto con le altre differenze, cioè con altri gruppi svantaggiati. rappresenta l’essenza duale dell’essere umano, è qualitativa, e non può essere rappresentata (Libreria delle donne). A meno che la rappresentanza non sia sessuata, attivando però un principio di fiducia- restituzione fra elette ed elettrici (Adriana Cavarero). Io mi sento più vicina a Sylviane Agacinsky che interpreta invece questa dualità umana come “condivisione” tra donne e uomini (quindi anche del potere politico), senza dimenticare, ovviamente, le discriminazioni subite.

Non entro nel merito di queste elaborazioni filosofiche molto raffinate, e trovo importantissime tutte le ricerche finalizzate alla libertà delle donne, ma bisogna pensare ad altro urgentemente prima che ci rinchiudano di nuovo nei recinti. A meno che …non ci dispiaccia poi così tanto. Possibile che non si riesca ad uscire da questa specie di coazione a ripetere?.

All’ordine del giorno c’è anche la cura, sorella della differenza sessuale. Mi piacerebbe  capire un po’ di più. L’enfasi sulla cura, la ‘ricchezza’ acquisita in anni di segregazione, diventa o patrimonio (potere) delle donne da donare alla società, oppure una catena da cui vogliamo liberarci perché ha fissato la nostra identità, la nostra ‘essenza’. Portiamo pure la cura all’interno delle assemblee, ma se vogliamo essere considerate cittadine di serie A, non possiamo portare nello spazio pubblico, come un pacco postale ciò che ha caratterizzato lo spazio nostro privato, proponendolo come un grande valore morale, da insegnare agli uomini, in alternativa al dominio, per una Storia a lieto fine.
In democrazia il cittadino/a non può proporsi come migliore di un altro/a. ‘Risignificare la differenza’ e ‘non tradire se stesse’ voleva dunque dire questo, per contrastare l’omologazione?

Non è facile entrare a pieno titolo in una cittadinanza che si è configurata sulla necessaria esclusione delle donne. Ecco delineato  lo zoccolo duro su cui si deve lavorare: la divisione del lavoro e la divisione tra spazio pubblico e privato sono elementi costitutivi della cittadinanza. E’ il peccato originale, più volte sottolineato,  così fortemente radicato nella cultura da sembrare un’ovvietà, un dato naturale, ancora.

Penso anche ai rapporti di cura come a rapporti di dipendenza, mentre la contrattazione pubblica avviene tra individui autonomi indipendenti ed è caratterizzata dalla reciprocità che può avvenire, tra l’altro, solo in un sistema pluralistico.  Quindi sarebbe il caso di appellarci a tutta la nostra creatività e al nostro senso estetico per portare temi e programmi ben precisi, innovativi, scambiare diritti, compreso quello dell’aborto, non limitarsi a ottenere la  depenalizzazione. E’ in nome del “potere generativo” che lottiamo per l’autodeterminazione? In tal modo sottolineiamo il dato biologico della rivendicazione ed indeboliamo il diritto alla procreazione artificiale delle donne che non hanno questo ‘potere di generare’. Legalizzare l’aborto ci permette di entrare nell’ambito della legalità pubblica accettando il confronto con altre regole giuridiche espresse in una società plurale in difesa di altri interessi, partendo dai suoi principi. Diventiamo così soggetti autonomi e non oggetti bisognosi di tutele. E’ solo portando la nostra identità sessuale nella legalità pubblica che cessiamo di essere corpo escluso dalla Polis. E quella grande esperienza umana delle donne: la maternità, la cura degli affetti e dei corpi, potrà sottrarsi al dato naturale e diventare un principio etico, un valore come un altro, un patrimonio che deve essere comune, conoscenza comune, un bene comune, come altri, e oggetto di stipulazione politico-giuridica.

Basta con l’ordine simbolico della madre e la genealogia femminile in alternativa all’ordine simbolico del padre. Per questa via non diventiamo cittadine. Non perdiamo nessuna libertà a mettere a norma le elaborazioni più alte espresse dal pensiero femminista e che riguardano la procreazione e l’aborto e tutto ciò che sta a cuore. Una legge non è obbligatoria per un gruppo particolare o per un intero genere, ma garantisce il diritto di scelta e anche di poter agire in giudizio se il diritto è  disatteso. Che è cosa ben diversa del “servizio sociale” concepito come una discrezionale offerta assistenziale del sistema politico vigente.

Dopo cinquant’anni di interrogativi se stare dentro o fuori le istituzioni, ho deciso che la  rappresentanza ci vuole. Non direi nel senso circoscritto a un patto tra donne” elette ed elettrici, ma donne che rappresentano l’intera cittadinanza, così che possano pretendere che anche gli uomini la rappresentino concretamente. Donne che entrino nelle assemblee non con l’ansia di trasmettere i loro valori,  acquisiti nell’abile e millenaria amministrazione dell’ambiente domestico quindi meno competitive, più generose, con capacità d’ascolto ecc  o con il desiderio di suscitare “pruderie” nell’agone maschile in cambio di qualche vantaggio. Significherebbe entrare nello spazio pubblico con stampata in fonte l’etichetta di spazio privato. Uno scivolone assurdo nel privato. Non sono scemi gli uomini, verrebbe subito messo al lavoro il nostro ‘maternage’ impastato con le nostre conoscenze, i nostri saperi. Come s’è visto in economia.  Cristina Morini ha scritto molto in proposito (v. il suo contributo in “L’Emancipazione malata, sguardi femministi sul lavoro che cambia”, ed. LUD, 2010).
Credo che faccia da sfondo su tutto questo l’ineliminabile tensione secolare tra la libertà e la necessità della sua regolamentazione. Lo dice una che per una libertà senza se e senza ma ha pagato duramente.

Un’altra cosa. So benissimo che l’effettività dei diritti sociali può essere garantita solo da una radicale trasformazione delle strutture economiche e che essi sono più aleatori rispetto ai diritti politici e civili, essendo i primi incompatibili con le logiche del mercato che si fonda sulle disuguaglianze (v.diritto al lavoro). Solo uno scontro sociale potrebbe scompaginare le carte. Ma per poterci organizzar bene per uno scontro che sarà violento, per salvaguardare i diritti sociali dobbiamo conquistare il diritto politico ad una equa rappresentanza (anche se ormai sta diventando un concetto sempre più astratto, solo formale, come quello di cittadinanza, avendo perduto la sostanza della solidarietà), chiamando in soccorso, perché no?, anche le quote. Non dimentichiamo pure che il welfareState è da un po’ che ha smesso di essere il garante del benessere della collettività e si sta trasformando in Stato penale, cioè in garante per la sicurezza.

Il fatto che al nostro seminario del 16 ottobre  fossero intervenute altre associazioni, non importa se per invito o spontaneamente è già qualcosa rispetto alla speranza di ricreare un grande movimento ‘combattivo’ che al di là dei vari recinti ideologici o paura di perdere identità, sappia di volta in volta,  congiungersi per la conquista di specifici obiettivi. “Democrazia è partecipazione”.
Lo scopo di questo scritto è quello di non disperdere lo scambio d’idee fatte al seminario, e sperare che possa continuare anche in rete. Anche per restare in contatto. Chissà che non ritorni una stagione di potente ribellione creativa  come è avvenuta in passato, così solidale con tutti i gruppi esclusi. Il mondo sta andando a pezzi. Siamo in piena oligarchia, da cittadini stiamo tornando tutti sudditi. Altro che cittadini di serie B.

 

27-10-2010