Sintesi?
A proposito dello sguardo “profondo” di Lea Melandri
su Walter Veltroni al Lingotto
di
Maria Paola Patuelli
Mi auguro che
Veltroni abbia letto l’articolo che Lea Melandri
gli ha dedicato. In realtà è una lettera aperta, bellissima, importante
per le donne dell’Unione e per lo stesso Veltroni.
Una lettera critica, molto seriamente esigente, assolutamente rispettosa.
Anzi, non credo che molte e molti abbiano seguito il discorso di Veltroni
al Lingotto con la scrupolosa attenzione di Lea, attenta alle parole, alle
metafore, ai significati.
Una attenzione che segnala l’importante lavoro critico che Lea e molte
donne stanno compiendo su un oggetto che potrebbe segnare una novità di
portata storica: la rappresentanza femminile nelle istituzioni e la
presenza delle donne nello spazio pubblico.
Alcuni passaggi mi
hanno particolarmente colpito. Lo stesso tipo di analisi Lea lo conduce su
recenti affermazioni di Vittoria Franco. Tutte le parole, femminili o
maschili che siano, contengono sempre altro, e spesso inconsapevolmente.
Non credo che né Vittoria Franco né Veltroni volessero dare al loro
discorso la stessa “aura” della alleanza fra i sessi di cui aveva parlato
Ratzinger, che, a suo tempo, aveva raccolto il consenso di autorevoli
figure di quello che da tempo definisco “un certo femminismo
mediterraneo”, che ha enfatizzato la differenza femminile e il materno,
con un esito che inevitabilmente sfocia nella complementarità, a tutto
svantaggio della libera soggettività.
Le madri non sono senza i padri, e viceversa.
Le donne non sono senza gli uomini e viceversa.
Invece, la piena cittadinanza non si fonda sul ruolo procreativo che la
natura attribuisce; si riferisce esclusivamente all’esistere, all’esserci
nel mondo comune.
Il genere umano è composto in pari numero da donne e da uomini. Questo è
un dato di fatto di una evidenza immediata.
Nella scena pubblica e nelle istituzioni non è così.
Chi vuole ripensare la democrazia, come credo che Veltroni intenda fare,
non può che partire da qui, andare a fondo sui perché, e non ridurlo a
brillanti incipit o a conclusioni retoriche.
Indubbiamente in Veltroni ci sono stati accorgimenti retorici. E’ un passo
in avanti avere dato rilevanza alla questione. Ma il ragionamento è ancora
formale, e non contiene la necessaria “drammaticità”. Lea qui scava a
fondo, e non possiamo che esserle grate.
Il problema della rappresentanza va affrontato con il suo rigore, fuori da
stereotipi e idealizzazioni, chiedendo a uomini e donne della politica di
compiere un ulteriore sforzo. Alcune donne lo stanno compiendo, per
esempio con la campagna del 50E50.
Uno sforzo che ha dietro di sé nodi da sciogliere, se è vero che anche
molte donne si sono attardate per decenni a ragionare di quote, di
“riserve”, di “protezioni” e se è vero che altre donne hanno criticato la
politica delle quote non per cercare altre strade ma per dire che no,
nelle istituzioni non vale la pena andare, è “altra” la politica delle
donne.
Con alcune conseguenze: una scarsa presenza, e non sempre attiva e
libera, di donne nelle istituzioni, e una grande ricchezza di pensiero e
di pratiche di donne “invisibili”, in un sonoro pubblico silenzio, che ci
ha sicuramente indebolite.
E così le istituzioni sono state, e sono, la “casa” degli uomini e il
grande rischio è che paternalisticamente le donne siano di nuovo
“accolte”, come a una tavola imbandita per pranzi di altri, come dice Lea.
L’apertura di Veltroni rischia di avere questo segno. Parla di democrazia
paritaria, di metà e metà, ma omette di dire che non è una sua “scoperta”,
ma è una grande campagna lanciata da mesi dall’UDI,
e che sta raccogliendo molte importanti adesioni, come quella, con propria
significativa motivazione, del movimento
Usciamo dal
silenzio, un movimento che ha riportato sulla scena pubblica
nazionale una forte azione politica di donne, finalmente non silenziosa o
troppo “privata”, finalmente plurale.
C’è bisogno di voi, sembra dire Veltroni, e forse anche altri, a destra e
a sinistra, lo stanno pensando, perché la “nostra” casa sta crollando, e
voi siete brave a “salvare” il mondo, come fu durante le guerre, sapete
“volere bene”, come la giovane Giulia (icona della ovvia bontà femminile),
sapete curare i corpi degli altri, avere pazienza e concretezza, abituate
come siete (come siete state abituate, aggiungo io) “a fare tanti lavori”.
Lavoratrici, “sgobbone”, poche chiacchiere e molta operosità. A testa
bassa.
Non credo in questa naturale vocazione femminile. Per parafrasare il
grande Brecht di Un uomo è un uomo, duttile come la creta
nelle mani dello scultore, a seconda delle circostanze famigliari e
storiche che lo plasmano, potrei dire che anche Una donna è una
donna, che è sempre stata, ed è, plasmata dalla storia.
Virginia Woolf sostiene, ed io sono d’accordo con lei, che solo dopo molte
generazioni nelle quali sarà stato possibile, e ancora non lo è, una del
tutto libera autorappresentazione della propria soggettività da parte
degli esseri umani, si potrà vedere se esiste una “naturale” differenza di
genere, e quale sia.
Non può quindi essere questo, la bontà, l’ operosità, la concretezza
stabilite a priori dagli uomini, il segno della nostra entrata nelle
istituzioni e nello spazio pubblico, che deve avere invece il segno della
nostra autonomia e del nostro progettare.
Progettare, non cooperare a progetti altrui. Un progettare singolare e
plurale.
E questo vale per le
varie differenze, anche politiche, interne al genere femminile già
evidentemente riscontrabili. Donne di destra, donne di sinistra, donne che
intendono sfuggire a queste categorie, e che affronteranno la
rappresentanza esprimendo opzioni politiche molto diverse fra di loro.
Quanto autonome rispetto alle “parti” politiche scelte? Cooperatrici o
progettiste in proprio?
Lea ha svelato un
passaggio che, credo inconsapevolmente, Veltroni ha proposto.
Infatti Veltroni non dice che “questa casa”, tutte le istituzioni, hanno
fondamenta che per millenni hanno escluso le donne; e non riflette, in un
discorso comunque molto articolato, e che contiene spunti che anche a noi
donne che riteniamo valga la pena frequentare la scena pubblica in vari
modi, non conviene trascurare (come il dialogo, per esempio, tutte le
volte che è possibile, e il bandire la cinica crudeltà con cui troppo
spesso si svolge l‘azione politica), sul perché della esclusione e sul
“tragico” che storicamente questa esclusione ha portato con sé.
Non dobbiamo stupirci che Veltroni non lo dica, perché è molto probabile
che non abbia piena consapevolezza di tutto questo, come quasi tutti gli
uomini e anche molte donne.
Quindi tocca a noi farlo, e porre la questione in modo esigente, sia a
Veltroni, che non escludo sia in grado di ascoltare e comprendere più di
altri e altre del futuro Partito Democratico, che alla futura Sinistra
riaggregata, che forse ha già, al suo interno, reti femminili che più
hanno lavorato e stanno lavorando su tutto questo.
Anche nella sinistra radicale non sarà una tranquilla passeggiata.
C’è un altro aspetto che Lea tratta, di grandissima importanza. Il
riferimento alla sintesi tante volte evocata da Veltroni.
Non mi aspettavo che Veltroni, che pure usa parole, stile e argomenti che
non sono della tradizione della sinistra storica, insistesse sulla
sintesi, parola forte del vecchio storicismo, molto presente nella
retorica del nostro vecchio, e un tempo da me molto amato, PCI.
Il gruppo dirigente deve fare “la sintesi”. Tesi, antitesi, sintesi, molto
hegeliana la faccenda, più che marxiana. Ma anche Marx ci ha messo del
suo. Credo che il problema non sia la sintesi.
Sarà meglio invece individuare bene i distinti, a volte opposti, come
povertà e ricchezza. Facilmente conciliabili? L’utopismo di Veltroni?
Diverse, a volte opposte, sono le opinioni, le idee, gli interessi, i
bisogni.
Credo che la buona politica sia prima di tutto “verità” (non mi riferisco
a verità metafisiche, naturalmente), il mettere, ognuna/o dei partecipanti
all’azione politica, tutte le proprie analisi e proposte sul tavolo, con
mani ben visibili sul tavolo.
Segue la mediazione, non la sintesi, che nella buona politica è chiara,
consapevole, senza che scompaiano i termini del confronto e dei vari
discorsi.
Non ditemi che chiedere questo è chiedere la luna. Il matrimonio dei
contrari in politica è impossibile.
L’equilibrio dei contrari, come il volgere delle stagioni, è ciò che regge
la natura, che stiamo invece con le nostre mani scardinando.
E in politica? Auspico alleanze, come quella che è stata avviata con il
programma dell’Unione, sulle questioni di fondo, che, per quanto mi
riguarda, sono quasi tutte scritte nelle nostra Costituzione.
Le questioni di fondo sono la cornice dell’alleanza. E dentro la cornice
vediamo di stendere a più mani un racconto condiviso, dopo inevitabili ma
non mortali conflitti.
E che siano leggibili in trasparenza. Lasciando stare le sintesi
impossibili, e lavorando molto sulle mediazioni possibili, per governare
questo difficile paese senza riconsegnarlo a una destra che non vogliamo.
Ma credo siano considerazioni sul “che cosa è la pratica democratica” che
non riguardano solo l’Italia.
Ultima riflessione. Il compito della mediazione non può essere scaricato
esclusivamente sulle spalle di un titanico e salvifico leader, o di
partito o di coalizione. Chiunque, donna e uomo, operi per governare la
parte di mondo che abitiamo insieme, dovrà pure porsi il problema della
mediazione.
Altrimenti il troppo ossigeno che in questi anni è stato dato alla cultura
“del capo salvifico” troverebbe continuo alimento.
E le donne, storicamente vittime di capi e patriarchi, proprio questo
stile, che sta diventando, temo, un nuovo immaginario anche popolare,
della necessità dell’uomo (in futuro anche donna?) forte, dovrebbero
contrastare con il loro libero ingresso nella scena pubblica.
Dovrebbero. Sempre che di questa storia abbiano conoscenza, e sempre che
non vogliano eternamente ripeterla.
Brava, Lea.
Grazie.
Ravenna
2 luglio 2007
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