Le
immaginarie ‘sintesi’ di Veltroni
di Lea Melandri
Elisabetta Pagani
In un articolo
pubblicato su
L’Unità (26.6.07) col titolo “Due o
tre cose che vorrei dire al candidato Veltroni”, Vittoria Franco scriveva:
“L’obiettivo ambizioso, e per noi irrinunciabile, è forgiare un partito di
donne e uomini, un partito segnato dalla presenza femminile, presenza
numerica e culturale, di contenuti e proposte. Per la prima volta
cofondatrici del nuovo Partito”.
E aggiungeva: “Vogliamo partecipare, avere voce, influenza…portiamo in
dote un patrimonio enorme di competenze, di capacità amministrative, di
concretezza. Non è rivendicazionismo ma affermazione del principio di
cooperazione fra i generi nella costruzione della democrazia”.
Le metafore che si
usano per esprimere un’idea non sono mai casuali, e le parole “dote”,
“cooperazione”, “competenza” sono inequivocabilmente legate a quel
‘matrimonio dei contrari’ -intelligenza/sensibilità, teoria/pratica,
ecc.-, o, se si preferisce, a quell’ “alleanza tra i sessi” di cui aveva
scritto Ratzinger prima di diventare Papa,
indicandola come fondamento “naturale” della famiglia. L’idea di un
“patto” tra uomini e donne, capace di conciliare uguaglianza di diritti e
“differenze” psicologiche, culturali tra loro complementari, non è certo
estranea al femminismo, così come la certezza di poter essere, per una
politica in crisi, una “forza di innovazione”.
Far riconoscere nella loro valenza positiva attitudini ritenute
tradizionalmente segno dell’inferiorità femminile, ha costituito, rispetto
al conflitto tra i sessi e alla radicalità con cui si è espresso negli
anni ’70, un’uscita di salvezza, una specie di quadratura del cerchio
-quello che, con un ossimoro veltroniano, si potrebbe definire un
orientamento “che non nasce dal nulla, ma che è del tutto nuovo”, un modo
per “conservare innovando”.
Non c’è perciò da
meravigliarsi se nel discorso con cui ha proposto la sua candidatura alla
guida del Pd a Torino, Veltroni ha potuto, con inattesa brillantezza,
inaugurare il suo “meraviglioso viaggio collettivo” all’insegna di una
compagnia paritaria di uomini e donne, una faticosa conquista femminile, è
vero, ma assunta e concessa paternalisticamente da chi sa di poter contare
ancora a lungo sul consenso a rappresentazioni del mondo e della politica
prodotte storicamente dal sesso dominante.
Se questa è la risposta alla richiesta di “democrazia paritaria”, che
viene oggi da più voci del femminismo, credo sia necessario sgombrare il
campo dagli equivoci che una formulazione riduttiva del “50 e 50” può
avere indotto, facendola passare come la strada di una possibile
pacificazione o ricongiungimento dei due rami divisi dell’umanità, la
forza rigeneratrice che le donne non hanno mai mancato di dare al “triste
fratello” nei passaggi più difficili della sua storia privata e pubblica.
Un riconoscimento
fatto dall’alto e smentito nei fatti dall’assenza di candidature femminili
alla guida del Pd -fatta eccezione forse per Rosy Bindi, contraria al 50
e 50, ma non alla valorizzazione delle capacità femminili- conferma quanto
si poteva temere: l’indisponibilità di molti uomini a mettere in
discussione il fondamento sessista della politica, nel momento in cui si
limitano ad “aprirsi” a nuovi soggetti - non è un caso che nel discorso
di Veltroni le donne vengono associate a “giovani”, “cittadini”,
“movimenti”, “federalismo”.
Se la pòlis, con le sue istituzioni, i suoi saperi, resta quella che si è
costruita storicamente sul dominio di un sesso solo, la cittadinanza piena
concessa al sesso escluso non è che la conferma dell’esistente e può
approdare all’esito opposto: togliere la parola a chi non si riconosce in
questo tipo di ‘integrazione’.
La presenza numerica
paritaria risponde a un principio elementare di civiltà, è l’applicazione
dell’articolo 51 della Costituzione italiana, che, come tale, non avrebbe
dovuto comportare umilianti trattative di “quote”.
Ma la “presenza culturale, di contributi e proposte”, di cui parlava
Vittoria Franco nel suo articolo, richiede una ridefinizione ben più
radicale dell’economia, della politica, del rapporto tra privato e
pubblico, tra individuo e società. Ha bisogno, prima di tutto, che si
faccia luce sul razzismo inconsapevole che ancora impedisce alla cultura
dominante, nel nostro Paese in particolare, di vedere le donne come
persone, corpi pensanti, esseri dotati di volontà, responsabilità,
capacità intellettuali e morali.
Il divario tra uomini e donne passa fondamentalmente attraverso la
divisione dei ruoli sessuali, la considerazione del lavoro di cura come
‘naturale’ donatività femminile, l’esercizio acrobatico per conciliare
casa, figli e lavoro esterno come problema riguardante le politiche
famigliari; passa vistosamente attraverso la violenza di cui le donne sono
vittime quotidianamente, sia quando vengono maltrattate o uccise, sia
quando sono costrette a subire, vergognandosene, le conseguenze di una
sessualità imposta: è il caso dell’aborto.
Ma di tutto questo,
nel lungo discorso di Veltroni, pur così ‘generoso’ di elargizioni
all’altro sesso, non c’è traccia. La questione “donne” si potrebbe
tranquillamente espungere e trattare a parte, collocata com’è nell’incipit
e nel finale, due inserti ad effetto a cui non fa seguito nessuna
implicazione, come se, accolto l’ospite alla propria tavola, i commensali
riprendessero a parlare dal punto in cui ero rimasti.
Come si può prendere sul serio l’affermazione di apertura -che
l’”irruzione della soggettività femminile” sarebbe “ un’esperienza
decisiva” per il neonato partito democratico-, quando tutto il corposo
panorama della “grande forza riformista” descritto dal suo aspirante
leader parla una lingua ineccepibilmente neutra? Dopo la breve apparizione
iniziale, e subitanea scomparsa, le donne riemergono in chiusura,
trasformate in ‘esempio’ o ‘parabola’ edificante, una forma di
riconoscimento a cui non aveva resistito nemmeno il Presidente della
Repubblica nel suo saluto di fine anno.
Veltroni racconta di una giovane amica che avrebbe espresso la volontà,
due mesi prima della morte, avvenuta a soli 15 anni, di adottare un
bambino africano, colpita dal sapere che in molti paesi del mondo i
bambini muoiono di povertà e di fame, e non solo di malattia.
Solo la sottile
misoginia che passa talvolta inavvertita sotto le apparenze di una
compassionevole celebrazione, poteva associare la “differenza femminile”
-come elogio della sensibilità, dell’abnegazione, delle doti sacrificali
della donna- alla morte prematura di una adolescente.
Ma, a guardare bene,
non è così vero che il ‘matrimonio dei contrari’, nella visione
veltroniana della politica, riguardi solo il rapporto tra i sessi. Nel
tentativo di tenere insieme realtà che si contrappongono in modo evidente,
la figura retorica che viene ripetutamente in soccorso è la “sintesi”.
“Non per furbizia” -si affretta a dire Veltroni-, ma per sincero amore
del dialogo, dello scambio, del rispetto reciproco.
E’ così che, per “voltare pagina”, mettere a tacere insulti, logiche di
guerra, scontri violenti, si finisce per bandire la conflittualità tout
court.
E quella che si dipana nel lungo affresco del programma riformista è una
sequenza fatta di accoppiamenti immaginari - lotta alla povertà senza
toccare la ricchezza, “libertà e giustizia sociale”, “integrazione e
legalità”, “multiculturalità e sicurezza”, “ambientalismo e conquiste
tecnologiche”, lavoratori precari e imprese, accoglienza e rigore, giovani
e anziani- , sintesi di facciata messe a copertura di un pragmatismo fatto
di certezze molto meno favolistiche e seduttive: l’impresa, il mercato, la
crescita economica, la sviluppo tecnologico, la mobilità sociale verso
l’alto lasciata al talento individuale e a qualche benevola “opportunità”,
la stessa “pari opportunità” che permetterebbe oggi alle donne di entrare
nella grande “casa” pubblica degli uomini.
articolo uscito su Liberazione del
30 giugno 2007 con il titolo "Walter e la sintesi dei contrari
ovvero come il leader tiene a bada le donne"
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