La maschera e il volto
Dipendenze e interdipendenze

di Umberto Varischio e Giuliana Baldi *

 


Cara amica,
non c’è problema...” questa frase ha spesso caratterizzato, in una lunga fase della mia vita, la mia risposta a vari di tipi di domande e sollecitazioni provenienti dall’esterno. Non c’era problema: le richieste di altre e altri venivano prima e io ero pronto a rispondere e ad affrontare il loro problema come se fosse mio. Invece il problema c’era: un atteggiamento e risposte di questo genere mettevano in secondo piano, mascheravano i miei bisogni e i miei desideri mettendo in primo piano altro.

D’altronde sono stato abituato e educato, come molti uomini, ad identificarmi con un modello maschile che mette in secondo piano i propri bisogni, che vede nel riconoscimento dei propri desideri e nella loro cosciente elaborazione una debolezza inammissibile, e che, soprattutto, proclama come valore autonomia e l’indipendenza dalle relazioni con gli altri. Recitava una pubblicità di un profumo per uomini tempo fa, “Per l’uomo che non deve chiedere mai!”.

Ho l’impressione che una parte del problema nasca da una storia che ritengo abbastanza comune agli uomini: dalla difficoltà di mostrarmi dipendente dalle donne. Nella mia storia, nel mio vissuto profondo, ma anche nella cultura corrente l’essere dipendenti significa essere deboli. Infatti, frequenti sono i richiami a non mollare, a stringere i denti, a non cedere nelle situazioni di forte difficoltà, ad andare avanti comunque e da soli.

Il fatto di celare i miei sentimenti più profondi, in particolare quelli di affetto, le emozioni e in particolare quelle positive, la paura di dimostrare la mia debolezza, la possibilità di essere ferito, la mia dipendenza normalmente mi portano a non aprire il conflitto. Dunque dietro a questo atteggiamento c’era e c’è tuttora una tendenza a non entrare in contatto con il mio mondo interiore di pensieri, desideri, emozioni. Sin da piccoli noi uomini siamo abituati a non entrare in relazione con noi stessi, anzi a svalutare questo processo e a rifiutare di ammettere che non sempre la dimensione pubblica debba venire prima di quella personale e relazionale; soprattutto, ad ammettere che spesso le risposte che diamo sono pesantemente condizionate dal doversi conformare all’ideale che ci è imposto culturalmente. Un adeguamento a un modello esteriore di maschio che non ha bisogno di nessuno.

Per me, come per altri, l’obiettivo dell’indipendenza e dell’autonomia individuale è diventata una gabbia, un dover essere che fin da bambino mi è stato inculcato con l’imposizione di modelli ideali che mi dicevano (e mi dicono tuttora) che altrimenti non sarei stato un vero uomo. Oltretutto nella mia esperienza passata questa ricerca dell’indipendenza, fatta fondamentalmente di atti di volontà (devo essere così, è giusto che sia così) ha significato perdere relazioni e rapporti, un inaridimento e non un arricchimento del mio mondo interno ed esterno.

Peraltro, vi è ora una presa di coscienza della mia dipendenza dalle donne, che tuttavia non desidero diventi immediatamente, come in passato, un problema da risolvere con scorciatoie o con soluzioni volontaristiche, ma un vissuto che messo in relazione con altri e altre smuova, “da sé” il mio stare nel mondo. Come ben sostiene V. Seidler in Riscoprire la mascolinità l’atteggiamento prima descritto, ormai profondamente interiorizzato e automatico, spesso non rappresenta un problema solo per noi stessi ma anche per le relazioni e in particolare per quelle che vanno al di là della mera conoscenza della persona e delle relazioni di coppia che stabiliamo nel corso della nostra vita. E questo è vero sia nella gestione di complessi problemi relazionali, che dobbiamo affrontare nella vita di tutti i giorni, sia nelle incombenze anche elementari che richiedono competenze e impegno personale. Seidler ricorda per esempio la delega alle compagne della gestione dei regali da fare.

Riconoscere la dipendenza e rielaborarla permette anche di illuminare alcuni elementi che portano diversi uomini ad agire violenza sulle donne e in particolare su quelle con cui vi sono le relazioni più strette. Scrive Marco Deriu in un articolo recente uscito su Via Dogana a proposito della violenza sulle donne: “Credo che la paura di riconoscere la propria dipendenza e l’angoscia prodotta dall’idea di abbandono siano due aspetti dello stesso analfabetismo relazionale degli uomini che in questa costante oscillazione tra due estremi produce ansia di controllo ed episodi di violenza”. Da qui secondo me bisognerebbe partire: dal riconoscimento e dall’analisi della nostra dipendenza dalle donne, dalla loro capacità relazionale, a partire concretamente dalla capacità delle nostre compagne di gestire le problematiche relazionali ed emotive che affrontiamo nella nostra vita anche e in vece nostra.

Lo sviluppo della libertà femminile, che in questi ultimi decenni è stato “prepotente”, ci ha messo di fronte a questa nostra dipendenza, a questa contraddizione tra un modello maschile di autonomia e indipendenza e la realtà di dipendenza e in alcuni casi di simbiosi con l’altra. Questa tensione è, in alcuni casi, vera e propria lacerazione, che provoca in noi reazioni di rabbia e irritazione per la nostra incapacità di affrontarla ed elaborarla.

La mancata elaborazione della nostra dipendenza come uomini ha anche effetti dirompenti su un piano più generale e consente similitudini, che solo a prima vista appaiono audaci. Senza assolutamente mettere in secondo piano gli aspetti economici e politici che la innervano, rispetto al dopo 11 settembre, si tratta - come ben dicono da J. Butler a I. Dominjanni - di analizzare lo shock per il riconoscimento della propria vulnerabilità che ha attraversato gli Stati Uniti e la sua paranoica reazione: quella della più grande potenza mondiale fortemente patriarcale, che non ha saputo, da quel tragico episodio, trarre la consapevolezza della sua interdipendenza con il resto del mondo; e che nella mancata rielaborazione e nel mancato passaggio per la perdita dell’onnipotenza dell’autonomia e della sovranità non è riuscita a ridisegnare e reimmaginare la politica futura. Immaginarsi “di delineare il paradigma di un’ontologia dell’interdipendenza riconoscendo che la vulnerabilità è un dato della condizione umana,un essere esposti al rapporto con l’altro e alla sua imprevedibilità, all’essere soggetti a passioni e desideri destabilizzanti” (J.Butler, Vite precarie)

Barbara Mapelli, in un capitolo del suo libro Nuove virtù, dedicato alla dipendenza, in cui rivisita le metafore di peso che pende/dipende dal gancio, della tessitura del pendolo che pende e di-pende e del modo di dire “vita appesa a un filo”, afferma che occorre “ritrovare le virtù e i significati della dipendenza” riscoprire per noi uomini che “la vita umana è resa possibile dai vincoli e dalle opportunità date dalla dipendenza”. Virtù come sentimento di non auto sufficienza e del bisogno dell’altro.



Caro amico,
[..] La parola amore non basta più/non è più qui/ E’ quindi un vivere a metà/ma tu di più, ma tu di più/sempre più forte e solo tu/ Noi non ci facciamo compagnia/bruci vita e fai volare il tempo/ Io ti vengo dietro ma in affanno/stanco di doverti e di spiegarti che un amore vero sa tacere/ Noi non abbiamo più la stessa ora/tu dormi e io passeggio in un cortile [..] (Biagio Antonacci nel testo Non ci facciamo compagnia)

L’altro giorno ascoltavo una nota canzone italiana e il potere di resa del leitmotiv mi ha permesso di entrare in un campo cosciente. Improvvisamente, l’ascolto ha abbandonato il suo luogo dominante per ramificare e articolare tutti i suoni conosciuti fino a creare un tessuto esperienziale capace di varcare la siepe di rumore stereotipato e rievocare, così, i luoghi e i momenti di apprendimento della collina anghiarese. Sono molte le parole scambiate in questi anni di gruppo che definisco socio-politico-educativo. In questa corrispondenza vorrei marcare come l’esperienza condivisa può portare a riorganizzare le nostre conoscenze. Può guidare la comprensione di come non sia più possibile spiegare gli uomini e le donne con postulati discorsivi decontestualizzati e depersonalizzati.

L’ a-priori sessista risulta inadeguato per le spiegazioni delle esperienze esistenziali e delle prassi in cui viviamo. Ripenso i nostri discorsi e scorro il tuo scritto e mi convinco sempre più di un’idea: non sappiamo cos’è l’amore. Grazie al nostro setting ambientale ho potuto re-visionare le mie - e credo, con me, anche gli altri e le altre partecipanti - le nostre abitudini provenienti da una cultura patriarcale ancora soggiacente. Lo sforzo delle tue parole ravviva l’idea di un movimento sociale desideroso di ribaltare le idee tradizionali sui ruoli di genere, sulla cultura e sull’amare.

Insisto sull’ultima espressione perché traspare - oggi più che mai - la necessità per le nostre identità di ri-significare la parola amore intuendo in essa la forza positiva e coadiuvante - fondamento - per ogni processo di costruzione e rottura dei legami. Tu parli di dipendenza e non credo sia per caso. Così facendo fronteggi forse le prevaricazioni fallologocentriche che hanno ridotto le possibilità di conoscere la logica dell’amore e cioè l’interdipendenza.

Come uomo dici di essere abituato ad una cultura della dipendenza nella storia, nei vissuti e nei discorsi: l’essere dipendenti significa essere deboli. Ed hai ragione, quando parli del nascondimento dei sentimenti più profondi, in particolare quelli di affetto, e delle emozioni, in particolare quelle positive. Il nostro Io debole non accetta se stesso e non accetta gli altri. Perché, amico mio, siam disfunzionalità capaci di nuclearizzare innumerevoli forme competitive.

La dipendenza è una foriera egocentrica di paure e inibizioni che distruggono la luce e fanno perdere di vista la quotidianità. Il pericolo della dipendenza è quello di predominare per debolezza e insicurezza corrodendo le relazioni. La ricerca narrativa, come quella che sperimentiamo, risulta socialmente costruttiva quando non trasforma i racconti delle donne e degli uomini in altrettante forme di potere per volontà di rivalsa ma risveglia l’interdipendenza come senso d’interesse - integrazione - partecipazione - responsabilità - completezza. Quando riesce a risanare il coraggio di liberarci dalla coazione del senso di inferiorità.

Allora, le parole che stiamo scambiando hanno un senso, perché trasformano il proprio personale background e suggeriscono lo stare in relazione - anche politica - con altri uomini e altre donne per riflettere sulla conflittualità, sulle difficoltà e sulla paura di perdere e di perdita. I nuovi surrogati emotivi, come la rabbia, l’infelicità, il dolore, le dipendenze, derivano dal fatto che noi “non stiamo imparando ad amare meglio ma stiamo imparando ad avere paura dell’amore” (Bell Hooks 2003).

I progetti culturali devono cercare discorsi di senso intesi come forme di momenti che richiamano ed evocano altri discorsi, altre conversazioni riprese e approfondite; altri giochi di domande e risposte. Da queste nuove compagini sociali può arrivare un contributo umano per la persona - uomo e donna che sia -, al fine di svelare i sentimenti e i comportamenti incomprensibili che però ci influenzano e dominano. Non siamo tram scollegati da ogni distanza (Fabrizio De Andrè nel testo Dolcenera), le storie si generano a cascata, le une dalle altre, e le vicende sono fatte per essere narrate e ascoltate.

La criticità delle dipendenze nasconde il vero sentimento e cioè il bisogno di contatto con gli altri; il bisogno/desiderio d’amore. Coraggiosamente ti chiedi come nel concreto il divenire autonomi non debba passare attraverso la distruzione della relazione con l’altro da sé. Servirebbe maggiore coraggio per “il rispetto assoluto del fatto storico, anche dell’imperfezione, che spesso è la chiave principale per comprendere il meccanismo dell’evoluzione” (Stephen Jay Gould 2005). Imperfetti - dunque - e non onnipotenti, non assoluti, non un Uno. L’eterogeneità del pensiero ci fa decodificare le motivazioni nel tempo inerenti il senso di colpa inteso come la percezione della differenza fra ciò che una cosa è e ciò che dovrebbe essere; fra chi siamo e chi crediamo di essere.

Le motivazioni dei nostri atteggiamenti vanno ricercate nei rapporti intrisi di sentimenti che appartengono alle personalità in gioco. Siamo responsabili dei nostri sentimenti e chi respinge da sé i sentimenti crea tensioni e circoli viziosi distruttivi. Per liberarci dagli irretimenti serve passione amorosa. Getterà scompiglio ma farà anche ordine nel cuore, darà nuove regole e riequilibrerà il libero scambio del dare e del ricevere.

La libertà è l’amore che resta quando disincagliando le emozioni evitiamo al pezzetto nevrotico presente in ognuno-ognuna di bloccare il nostro sogno di vita impedendo così alla debolezza-dipendenza di divenire la minoranza dominante.
A presto Giuliana

 

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Umberto Varischio : Tecnico informatico, componente del gruppo Sui Generi di Anghiari

Giuliana Baldi:  Educatrice, componente del gruppo Sui Generi di Anghiari

 

Questo articolo è stato pubblicato sul n. 6 della rivista Pedagogika dedicato a Il linguaggio delle relazioni

L'intero numero è consultabile sul sito www.pedagogia.it