Il desiderio, il potere, il dovere di dare la vita

di Eleonora Cirant




Paola Gandolfi

 

Conflitto, desiderio, controllo, potere, responsabilità, limite: l'approvazione di una legge che, per la prima volta in Italia, detta le regole sulla tecnologia applicata ai processi del generare la vita, ha fatto emergere molte contraddizioni che ci riguardano.
La legge 40 ha caratteristiche tali che opporsi è una via obbligata, come altri interventi di questo libro mettono bene in evidenza. Eppure, contrapporsi senza vedere e nominare l'ambivalenza su cui poggia tutta la vicenda significa lasciare ad altri il potere di dire e di decidere il cosa, il come e il perché di una partita che si gioca sui nostri corpi e sulla nostra identità. Si tratta di camminare ad occhi aperti sul crinale tra desideri e bisogni indotti, intrecciando lotta politica e coscienza, cercando di tenere in mano tutti i fili di un groviglio che pare inestricabile. La scommessa si gioca nel riconoscere le ambivalenze e tentare di dare loro un senso e una composizione che siano praticabili nelle scelte concrete: quel che nessuna legge può imporre passa dalla cruna dell'ago che è la responsabilità individuale.
Sto cercando, con questo testo, di articolare un punto di vista incarnato e non astratto su un argomento fitto di temi che incrociano la dimensione soggettiva e collettiva, interiorità e regole che determinano l'agire sociale. Non pretendo di parlare a nome di, né di proporre facili soluzioni proprio perché la promessa di una facile soluzione è ciò che voglio mettere in discussione. Porto qui alcuni spunti di riflessione raccolti in una ricerca personale e nel corso di momenti di dibattito e di azione insieme ad altre donne: il soggetto delle frasi è in movimento, dall'io al noi, perché rispecchia il con-testo corale entro cui questi spunti hanno preso vita. Mi riferisco, pur nell'assenza di un movimento di massa nel quale sia visibile e riconoscibile un soggetto politico determinato, ad un tessuto di idee e di azioni che prendono vita in gruppi più o meno grandi e più o meno stabili, con azioni più o meno efficaci, spesso sotterranee ma vive nella fluidità delle relazioni: forme di resistenza, di confronto e di azione politica che si manifestano in pratiche poco visibili nei mezzi di comunicazione di massa.
Partecipo al gruppo Sconvegno e al gruppo pro-creativo . Nel primo siamo sei donne intorno ai trent'anni, abbiamo iniziato ad incontrarci nel 2002 per organizzare un momento di confronto fra i molti femminismi di oggi ; da allora ci siamo concentrate sulla nostra condizione di donne al lavoro e sulla precarietà che investe tutti gli aspetti della nostra vita. Nel secondo siamo donne fra i trenta e i sessant'anni, abbiamo iniziato ad incontrarci nel periodo successivo all'approvazione della legge con l'obiettivo di indagare le molteplici dimensioni della questione. Il presupposto da cui siamo partite è la consapevolezza che nell'opporci in tutte le fasi della discussione della legge non avevamo raggiunto l'obiettivo di dare visibilità pubblica al problema, lasciando allo stesso tempo in secondo piano gli aspetti più contrastanti di ciò su cui la legge interviene.
In questi anni la tecnologia ha corso molto veloce, in assenza di regole, trainata dalla locomotiva del profitto economico e dalla domanda ad esso associata. Molto più veloce di quanto abbia fatto il dibattito pubblico: siamo già parecchio in ritardo in una necessaria presa di coscienza e di responsabilità sia come esseri umani, perché le biotecnologie sono ormai una realtà che muove interessi giganteschi, sia come esseri umani di sesso femminile, perché in questa partita il nostro corpo è snodo simbolico, terreno di conflitto tra desiderio e controllo.
Con questa legge l'Italia copre un vuoto legislativo non solo in ritardo, ma anche in conflitto con i corpi e le scelte delle donne e - va detto, andrebbe detto da loro stessi - degli uomini. Questo è evidente già dal primo articolo, che, stabilendo la parità di tutti i soggetti compreso il concepito, mette in discussione il diritto che il soggetto donna ha di decidere secondo la propria coscienza cosa fare rispetto al "soggetto" embrione. Questa legge ci riguarda anche in modo meno evidente, e forse più difficile da affrontare, perché interroga noi donne proprio in ciò che per secoli e a tutte le latitudini ha condizionato il nostro ruolo sociale e la nostra identità: il desiderio, il potere, il dovere di dare la vita.
Il legislatore, non a caso culturalmente e/o fisicamente maschio eterosessuale cattolico, nel determinare i criteri di accesso alla fecondazione assistita delegittima le famiglie in cui una delle due parti della coppia non è fertile, quelle non unite da un vincolo matrimoniale, quelle formate da individui dello stesso sesso, quelle portatrici di malattie genetiche o HIV: in Italia queste persone esistono e sono una parte consistente di cittadine e cittadini privati così del diritto di essere rappresentati.
Noi siamo contro questa legge, perché cerchiamo di costruire le nostre relazioni familiari in modo diverso da quelle che sono state per le donne e per gli uomini fino ad un passato molto recente; sto parlando della famiglia intesa come "cellula della società", luogo della divisione sociale del lavoro tra produttivo e riproduttivo, gratuito e salariato, della divisione del potere tra uomini e donne che ha assegnato alle seconde la posizione più scomoda. Questa legge fa appello ad un modello di famiglia proprio nel momento in cui esso è crisi, e lo fa con l'arroganza di chi impone con la forza un argomento cui non potrebbe convincere con la ragionevolezza.
Appartengo ad una generazione infarcita della retorica per la quale viviamo in una società in cui ogni questione che riguarda il rapporto tra i sessi è risolta. Eppure a molte di noi è accaduto di vivere eventi che hanno svelato l'inganno della neutralità, facendoci prendere coscienza del fatto che le diversità sessuali costituiscono ancora il terreno su cui si instaurano i rapporti di potere, anziché ali per la liberazione di ogni individuo. Non vogliamo fare la parte delle donne povere vittime, ma osservare che la realtà è declinata in modi differenti a seconda che si nasca maschi o femmine. Non siamo più, ma non siamo ancora: essere donna è per noi una ricerca quotidiana e pensiamo che anche gli uomini abbiano un percorso da fare su se stessi, per comprendere come modificare il modo in cui è determinata socialmente la mascolinità.
Ci è capitato di osservare che quando al lavoro un uomo dichiara di stare per diventare padre, acquisisce un'aura di responsabilità e garanzia di produttività: può accadere che gli venga concessa una promozione o un aumento; ma se è una donna a dichiarare di star per diventare madre, un alone di diffidenza si espande intorno alla sua persona: si sa già che avrà tempi condizionati, energie non più pienamente disponibili, ogni giorno altri problemi; sarà tagliata fuori, e questo è evidente e marcato quanto più la competitività caratterizza l'ambiente. La scelta del part time per conciliare famiglia e lavoro produttivo è ancora una via praticata molto dalle donne e poco dagli uomini, a conferma del fatto che sul terreno della divisione sessuale del lavoro non si manifestano cambiamenti significativi. Non sta scritto da nessuna parte che il part time equivalga quasi automaticamente al blocco del proprio percorso lavorativo in termini di qualifica e potere decisionale. Eppure nelle aziende accade proprio così.
Tutto ciò è in relazione con il fatto che il legislatore oggi ci dice quale famiglia va bene e quale no, abusando del proprio potere di regolare la vita sociale attraverso le leggi, e invadendo un campo che, in uno Stato laico, dovrebbe appartenere alla sfera della responsabilità e della scelta individuale.
Qui incontriamo un altro elemento del groviglio, la responsabilità individuale: seguiamolo prima di perderne le tracce, allacciando questo capo del filo a quello della tecnologia applicata alla nascita.
In termini assoluti, svincolate dal contesto, le tecniche fecondazione assistita avrebbero un grande potenziale di trasformazione sulle relazioni che si accompagnano ai processi riproduttivi, dunque sulla famiglia e sulle relazioni tra donne e uomini. Ma quanto il contesto sia determinante è dimostrato da ciò che sta accadendo negli Stati Uniti, paese nel quale le prime banche del seme ad uso commerciale sono attive dal 1972 e oggi muovono un mercato di milioni di dollari. Qui si riscontra un rafforzamento della struttura sociale nelle sue articolazioni di gerarchia e disuguaglianza . Perché accade che le strategie di marketing, adottate con successo dalle banche del seme, stabiliscono l'equivalenza tra caratteristiche del donatore e sviluppo della persona nata col contributo del suo seme. Tali strategie di vendita, nel proporre un modello di caratteristiche desiderabili, sottolineano proprio quei caratteri che individuano nell'immaginario il tipo dominante, rafforzando i modelli di comportamento e di relazione che in astratto la fecondazione in vitro potrebbe contribuire ad indebolire. Le consumatrici sappiano che per avere un figlio sano e di successo devono scegliere il seme di un uomo aitante, sportivo, con una buona carriera, meglio se bianco e occidentale. L'architrave di questa impalcatura, fondamentalmente razzista, sta nell'idea sempre più diffusa che non sia il contesto sociale a determinare l'individuo, ma il suo patrimonio genetico, rispetto al quale il seme maschile risulta determinante.
Tutto "come da programma", verrebbe da dire. Per rimanere in tema di immaginario patriarcale intorno allo sperma e alla sua azione determinante nel processo procreativo, è interessante osservare il modo in cui è descritto l'atto fecondativo: gli spermatozoi dell'uomo si lanciano in una corsa furiosa dove il più forte vince annaspando e arrivando finalmente all'agognata meta, l'ovulo della donna, che intanto se ne sta in attesa al caldino, passivo e tranquillo. La realtà è diversa da come ce la raccontano: "la maggior parte delle volte è la cellula uovo a viaggiare per incontrarsi con lo spermatozoo che ha vagato per quasi tre giorni lì intorno aspettando che lei arrivasse" . Le due rappresentazioni, quella della fecondazione naturale e quella della fecondazione artificiale, collimano nell'assegnare al seme maschile un ruolo attivo e determinante, all'ovulo femminile un ruolo ricettivo e determinato.
Questo per dire che una tecnologia non è in sé portatrice di alcuna trasformazione, se nel contesto in cui è adottata non ci sono le condizioni. L'argomento è tanto più consistente quanto più la tecnologia aumenta il potere dell'azione umana di modificare l'ambiente, compreso l'organismo umano stesso. Nella storia dell'umanità, ogni invenzione tecnologica ha comportato una ridefinizione del rapporto dinamico tra specie e ambiente, determinando ogni volta il significato di 'natura'. Lo sviluppo stesso delle specie viventi è il risultato dell'interazione tra patrimonio genetico e condizioni ambientali. L'indirizzo della ricerca biotecnologica dalle sue origini è stato di focalizzarsi sul primo dei due elementi più che sulla relazione (esattamente come accade nel marketing della nascita) tra i geni e l'ambiente, nell'illusione di controllare il processo della vita tramite la manipolazione del patrimonio genetico .
Lo strumento per la tutela del patrimonio genetico non è la personificazione dell'embrione, attuata in modi diversi e con fini opposti dal mercato intorno alle banche del seme e dalla Chiesa. Noi non siamo certo d'accordo con il Movimento per la vita, che organizza surreali funerali di embrioni equiparando l'esistenza di una persona a quella di un composto di cellule date dall'incontro (voluto o non voluto) tra ovocita e spermatozoo. Noi proponiamo invece di mettere in discussione la presunzione della biotecnologia di controllare il tutto attraverso l'azione sulle sue parti, intervenendo alla rinfusa in processi complessi e delicati. Crediamo sia di pari passo necessario assumerci la responsabilità del fatto che, così facendo, gli scienziati permettono di placare l'ansia vissuta dalle persone per la mancanza di controllo su aspetti dell'esistenza che fino ad ora erano affidati al caso, alla natura appunto.
Noi contrastiamo questa legge perché pretende di tutelare l'embrione invadendo territori da cui dovrebbe tenersi fuori. Affermiamo che di pari passo abbiamo consapevolezza dei fantasmi di onnipotenza sollecitati dalle promesse della biotecnologia e denunciamo i fenomeni che si innestano sulla confusione tra genetica ed eugenetica. A partire da questa consapevolezza chiediamo il controllo sulla ricerca scientifica, la trasparenza nell'uso dei geni e sugli interessi commerciali che di esso si nutrono: pensiamo che in questo campo lo strumento legislativo sia opportuno e necessario.
E' ancora interessante notare le vicende degli Stati Uniti, dove una legge in materia di fecondazione assistita è stata a lungo bloccata proprio dagli attivisti antiabortisti, che vedevano nella distruzione degli embrioni non utilizzati entro il ciclo di fecondazione uno sterminio anche peggiore di quello che secondo loro verrebbe praticato con gli aborti. Sono dovuti passare vent'anni perché fosse varata, nel 1996, la prima legge sulla fecondazione artificiale. Nel frattempo la ricerca è andata comunque avanti, veicolata da un mercato rigoglioso per domanda e per offerta. Le persone che hanno adottato il metodo della fecondazione artificiale, sono state di fatto le cavie di un esperimento condotto su grande scala senza monitoraggio. I criteri della ricerca scientifica, secondo cui i risultati degli esperimenti devono essere condivisi e messi all'esame delle conoscenze in possesso della comunità scientifica nelle sue diverse componenti, non sono stati applicati. Al mancato controllo della società civile nelle sue diverse parti, si è aggiunto un uso della tecnologia regolato più dalle leggi economiche che dalle regole di una ricerca scientifica rigorosa.
Sul controllo del processo tecnologico poggia dunque un grande potere. Anche in questo caso, la realtà non è neutra ma si declina in modi differenti a seconda del sesso, complicando la faccenda del controllo che non abbiamo rispetto al processo tecnologico. Proprio perché di potere si tratta, siamo certe che 'chiedere' non sarà sufficiente, come è successo tante altre volte nella storia. Per prenderlo nelle nostre mani sarà necessario esplicitare un conflitto, ma questo avrà un senso solo se contemporaneamente ci poniamo il problema di come trasformare questo potere sulla base di principi etici (non morali).
La stragrande maggioranza delle persone ignora che fino al 1993 i test sui farmaci sono stati effettuati solo su maschi (occidentali), risultando troppo costoso considerare negli esperimenti la complessità dell'organismo femminile esposto alle fluttuazioni continue dell'equilibrio ormonale e a rischio di gravidanza. Ancora oggi la percentuale di donne arruolate negli studi clinici è molto bassa, e si riduce a zero nelle fasi della ricerca in cui si cercano i dosaggi dei farmaci , con il risultato che noi donne assumiamo dosi e tipi di farmaci che non corrispondono alle nostre reali esigenze, rischiando di intossicarci.
Quando abbiamo potuto studiare la storia dei fatti e delle idee della "civiltà" occidentale con uno sguardo non neutro ma attento alle differenze, abbiamo imparato come le donne che in questa civiltà hanno vissuto e generato siano state oggetto di ciò che è stato fatto, detto, immaginato, realizzato sui loro corpi, più di quanto abbiano mai potuto o voluto essere soggetto. La trama di questa storia è il luogo delle nostre radici, la sua ricostruzione e osservazione contribuisce ad una consapevolezza che ci porta a protestare per come oggi e ancora il corpo femminile è il luogo in cui si esprime un potere rispetto a cui non abbiamo autonomia. Protestiamo, ma ancora una volta vediamo che non c'è un nemico univoco e determinato contro cui scagliarci. Osserviamo che la sollecitazione al consumo su scala multimediale oggi si esercita soprattutto sulla seduzione e sull'erotismo veicolati da un corpo desiderabile ad ogni costo, i cui caratteri sono resi omogenei e determinati da un immaginario che non ci piace. In questo le donne sono sempre più in compagnia degli uomini, che stanno guadagnando terreno nella rincorsa ai canoni necessari alla vendita della propria "forza seduzione".
La norma rispetto all'immagine che si deve dare di sé è ferrea anche se si manifesta come possibilità di scelta (una merce diversa per ogni target!). E' luogo di controllo il corpo di "chi ha preferito diventare egli stesso una merce, piuttosto che subirne semplicemente la tirannia" , fondendo in un unico movimento il consumo di prodotti per il corpo e consumo del proprio corpo come prodotto da vendere sul mercato. Nel gioco della seduzione avremmo infinite possibilità di espressione, ma constatiamo che le donne oggi si accontentano perlopiù di stare entro i codici dell'immaginario stereotipato di un corpo femminile eternamente giovane, riprodotto ossessivamente nella pubblicità. Le veline e i lifting trasmessi in diretta sono parte della sua fenomenologia più evidente.
Osserviamo che un corpo adattato ai canoni della bellezza, è un corpo reso produttivo. Ci chiediamo un poco sgomente: un corpo reso adatto ai canoni della maternità, è un corpo reso produttivo?
Seguendo il filo srotolato a partire dal corpo, mi trovo ad incrociarne altri che, lasciati sciolti nella trama del testo, voglio ora allacciare a questa domanda. Uno di quei fili è il ruolo materno nella famiglia ed il ruolo della famiglia nella divisione sociale del lavoro, e si stringe al nodo della famiglia per come è definita nella legge 40. Seguendolo fino in fondo, il discorso si potrebbe allargare a comprendere l'analisi e la critica delle politiche del governo in materia di welfare. Mi limito ad osservare che lo stesso governo con una mano sottrae risorse ai servizi che sostengono le donne nel lavoro di cura per figli piccoli o genitori anziani. Con l'altra mano, quella che dovrebbe garantire la tutela dell'embrione, si aggrappa ad un modello di famiglia fortemente in crisi, in tempi di erosione dei redditi e nel disfacimento di quelle relazioni di solidarietà tra generazioni femminili che garantivano la collaborazione di nonne, zie, sorelle.
Se la quantità del totale di lavoro non pagato delle donne supera quella del totale di lavoro pagato, significa che qualche domanda sul rapporto tra i sessi nel contesto familiare forse dobbiamo ancora porcela. Dopo averli messi al mondo, una figlia o un figlio vanno anche cresciuti, giorno per giorno e per molti anni! Entro quale famiglia e in quali rapporti? Se curare un bambino è un'esperienza che fa crescere e arricchisce la donna da molti punti di vista, perché privare gli uomini di questa stessa possibilità? Perché non condividere con loro questa emozione e questa responsabilità del curare e del riprodurre quotidianamente la vita? Perché non tentare di dare forma ad altri contesti rispetto a quelli che ora, oltretutto, scricchiolano? Alcune di noi stanno tentando di condividere un progetto di vita in comune con altre persone uscendo dai ruoli della famiglia patriarcale, scegliendo un'appartenenza rispetto al senso delle azioni quotidiane, attraverso cui praticare un'alternativa alla parcellizzazione e al consumo coatto.
A questo tema si allaccia l'altro dei fili lasciati in sospeso, quello della maternità dal punto di vista del desiderio. Osserviamo il percorso di una donna che pur di generare un figlio è disposta a sottoporsi alla trafila della fecondazione artificiale, Che comporta trattamenti ormonali molto invasivi, a spendere soldi, energie, impegno. Ci chiediamo perché. Da dove viene questo desiderio e quali pressioni esterne si scaricano su di esso?
Quando sondiamo in questo senso, la razionalità cede il passo ad emozioni e rappresentazioni di cui è molto difficile cogliere le sfumature. Sul tracciato incerto che con-fonde ciò che appartiene alla natura e ciò che appartiene alla cultura, alcuni elementi ci hanno colpito facendoci riflettere. Ad esempio, ci accorgiamo che ogni limite del nostro corpo è immediatamente assunto come patologico e reso oggetto di cure mediche e farmacologiche; anche la difficoltà di procreare potrebbe ricadere in questo aspetto? Crediamo di sì.
Quello che ci preoccupa è il contesto entro cui la difficoltà di procreare trova soluzione. La percezione del proprio limite è condizionata da un immaginario per il quale basta pagare per accedere alla soddisfazione immediata di un desiderio, e ciascun desiderio è a sua volta pesantemente condizionato dall'immaginario nel quale siamo immerse/i.
Fra i molti esempi possibili, scelgo una storia americana, quella dell'ormone umano della crescita modificato geneticamente. Somministrandolo, si ottiene l'aumento di statura dei bambini affetti da nanismo; fu brevettato da multinazionali del farmaco che ottennero condizioni di vendita privilegiate per il fatto di avere investito in una "malattia" rara come il nanismo. Ma è poi accaduto che il farmaco sia stato somministrato anche alle persone semplicemente un poco basse e non affette da nanismo; e siccome l'altezza è associata a forza, prestanza e successo, molti adolescenti che non potevano avere questi ormoni attraverso prescrizione medica hanno iniziato a procurarseli al mercato nero.
La percezione del proprio limite, ma anche di quel che è sano o no, quel che è normale o no: sono elementi che appartengono alle contraddizioni dell'umano, rispetto ai quali ogni tempo riformula le sue risposte.
La domanda sulla maternità ci fa fermare e riflettere proprio per l'interazione fra desiderio e contesto, per la tensione tra aspettative e identità, per il ruolo determinante della tecnologia nell'interazione tra questi elementi. Non ci scivola addosso, e finché non saremo in grado di intersecare questa domanda con l'obiezione alla legge in vigore sulla fecondazione assistita, saremo più facilmente strumentalizzabili.
Ciò che del desiderio ci piace e nello stesso tempo ci fa paura, è che esso può farci traballare, trascinarci oltre e altrove rispetto al controllo che possiamo esercitare sulle sue conseguenze. L'evento della maternità si connette al controllo in modo duplice e ambivalente: da un lato introduce un elemento di totale imprevedibilità (fuori controllo) nella nostra vita; da un altro lato ci incanala in un ruolo e in un ordine di priorità (sotto controllo).
Le donne hanno procreato, anche in condizione di estrema povertà e disagio. Ma appena hanno avuto un poco di autonomia rispetto alla propria fertilità, hanno smesso di far figli "come conigli" per tutto l'arco della vita, dall'adolescenza alla menopausa. Ora possiamo non solo scegliere di fare meno figli, ma anche di non farne del tutto. In astratto, potremmo avere la libertà di scegliere che fare del nostro desiderio. Stringiamo il campo e ci focalizziamo sull'elemento del desiderio, ingigantendolo e facendo scomparire il contorno. Però le aspettative dell'ambiente, i modelli femminili di riferimento, il percorso di un'identità che procede per tentativi, tutto contribuisce a confondere questa presunta libertà. La scelta costituisce sempre un elemento di complicazione, la consapevolezza nella scelta aumenta la complessità degli elementi attraverso i quali si sceglie.
L'ambivalenza qui sta nel fatto che da un lato abbiamo più strumenti razionali per decidere, ma l'oggetto della decisione ha a che fare soprattutto con la nostra sfera affettiva. E' come se non avessimo il linguaggio adeguato a raccontare. Come se cercassimo di misurare con il metro l'impalpabile materia del sogno, o di controllare ciò che per sua natura sfugge al controllo.
D'altro lato la scelta non è così libera come ci vogliono fare credere. Le generazioni di donne che ci hanno preceduto si sono poste il problema di come controllare la propria fertilità. Oggi abbiamo il problema di quale posto assegnarle, in un tempo di vita sempre più condizionato dalla precarietà delle condizioni di sussistenza. In particolare, la precarietà lavorativa è un deterrente notevole rispetto al desiderio materno. Confrontandoci, ci siamo rese conto che il nostro futuro è compresso in un presente continuo, una transizione costante. La piattaforma temporale su cui cerchiamo di stare in equilibrio non ci permette di progettare oltre l'arco di un semestre; il terreno economico è pieno di buchi e fratture: oggi guadagni, domani chissà; un evento pratico di alto valore simbolico nei passaggi della vita, qual è la sicurezza di una casa entro cui vivere autonomamente (la tana, il luogo delle proprie radici), è rinviato a data da destinarsi, forse mai. Si erodono i pochi margini di benessere creati dal lavoro dei nostri genitori.
Osservando questo scenario mobile, le figure si scompongono e ricompongono come al caleidoscopio. Dopo secoli, il libero arbitrio si è introdotto nella sfera procreativa, introducendo con spiragli di libertà ma anche la difficoltà della scelta. Pare che la svolta pericolosa stia nell'alchimia di questo elemento di libertà che si mescola con le forze del mercato, svolta che rischia di ricondurre il desiderio nel recinto delle scelte obbligate. Pare che la lotta per i diritti fatta nel secolo scorso non sia stata accompagnata da una revisione profonda dei rapporti tra i sessi, che in questa direzione ci sia ancora parecchia strada da fare, per donne e uomini.
Crediamo che questa complessità sia la sfida per chi oggi vuole tentare di cambiare se stessa e il mondo. Rispetto ad essa vogliamo essere attive e non passive, per esistere ed agire nel mondo in modo consapevole.

Ringrazio le donne e gli uomini che hanno reso possibile questo intervento.

Questo testo è tratto dal libro collettivo:
Un'appropriazione indebita

L'uso del corpo della donna nella nuova legge sulla procreazione medicalmente assistita

Baldini Castoldi Dalai Editore , 2004