Mahasweta  Devi,  La preda,
a cura di Anna Nadotti,

di Paola Splendore


La pubblicazione dei racconti di Mashaweta Devi, la più importante scrittrice  bengalese dopo Tagore, va salutata come un evento significativo nel panorama editoriale italiano in cui  le opere provenienti dal subcontinente indiano sono per lo più limitate alla sola produzione in lingua inglese.

La recente raccolta di  Einaudi  propone sette  racconti scelti da Anna Nadotti e affidati all’ottima resa delle due traduttrici.  Se, come afferma Nadotti nella postfazione, non è stata impresa da poco scegliere i testi, ancora più arduo sarà stato rendere il particolare mélange linguistico in cui scrive Devi, un bengali ‘contaminato’ da termini hindi, inglesi, e soprattutto da locuzioni dei vari dialetti tribali. Una lingua viva, aspra, veloce, qua e là attraversata dalle osservazioni ironiche della voce narrante, una lingua che ha contribuito in maniera decisiva al successo dell’autrice.

Con La preda siamo lontani dai temi e dagli ambienti cui ci ha abituati la narrativa indiana contemporanea in lingua inglese, spesso concepita per il pubblico occidentale, basata su intrecci matrimoniali fatti in serie, storie di condomini brulicanti e litigiosi e ritratti di donne inquiete delle grandi città.  Qui  siamo nelle regioni più interne dell’India orientale, nel fitto della giungla e della foresta, dove vivono, con leggi, costumi e lingue proprie, le  popolazioni  discendenti dei primi abitanti dell’India, che oggi rappresentano un sesto della popolazione totale del subcontinente.  E’ a loro che Devi ha dedicato tutta la sua opera di scrittrice e attivista politica, opera e impegno per cui ha ricevuto, oltre a vari riconoscimenti letterari, l’equivalente indiano del premio Nobel per la pace, il Magsaypay. 
Le responsabilità maggiori – denuncia  Devi – sono tutte del governo indiano che, dopo l’indipendenza nel 1947, invece di  varare la riforma agraria che avrebbe salvato i contadini poveri, lasciò in piedi un sistema feudale che continuò a sfruttare le vite di milioni di individui.  Privati della loro terra, ingannati, ritenuti inferiori persino agli animali, i tribali ancora oggi non hanno diritti.
 Ciò che anima la scrittura di Devi è  dunque  in primo luogo la difesa dei diritti e del patrimonio culturale minacciato dei tribali, che si tratti degli alberi e della foresta o della salvaguardia di usi e costumi che sono alla base della loro identità.

Sono i personaggi femminili quelli che colpiscono più profondamente, figure  di grande forza, capaci di  passioni e di autodeterminazione, e a cui Mahasweta Devi dà maggiore spazio e simpatia, a partire da Draupadi, protagonista del primo racconto, forse la più famosa delle sue eroine, anche grazie alla traduzione inglese di Gayatry Spivak, altra importante intellettuale bengalese. Nella storia,  ambientata all’epoca delle lotte naxalite per la rivendicazione di un pezzo di terra, Draupadi è una donna della tribù santal ritenuta una pericolosa  terrorista che, dopo essere stata catturata e violentata, in un gesto estremo di oltraggio all’autorità, si presenta nuda davanti al capo della polizia che ha consentito lo scempio del suo corpo, svilendo la sua autorità e virilità. Mary, la fiera meticcia protagonista del racconto che dà il titolo alla raccolta, uccide a colpi di machete un commerciante  di legno che la importuna con le sue profferte. Facendogli credere di accettarle, Mary lo adesca nel folto della foresta  trasformando così il predatore in preda, ‘la bestia più grossa’.

 

MAHASWETA  DEVI,  La preda,
Einaudi 2004, pp.251, 13 €,
a cura di Anna Nadotti,
traduzione dal bengali di Babli Moitra Saraf e Federica Oddera

 

tratto dalla segnalazione pubblicata su L'INDICE DEI LIBRI DEL MESE , n. 5, giugno 2004