"Preistorie", oltre la cronaca per capire meglio il presente

Al centro del libro di Lea Melandri la passione per l'inascoltato, per il limite che abita il lato notturno dell'esistenza

di Ambrogio Cozzi


Mary Cassat


Un lavoro di scavo del quotidiano, attraversandone gli strati per cercare i significati palesi ma contemporaneamente occulti di fatti che hanno segnato l'immaginario collettivo. Si va dalle cronache familiari (il delitto di Cogne), alla politica (i fatti di Genova o il decennale di Forza Italia), alle adolescenti nella pubblicità.

Ma non ci si lasci ingannare. Preistorie. Di cronaca e d'altro di Lea Melandri, non è un semplice lavoro di svelamento. Tenta invece di riprendere quel lavoro dell'andare "alle radici dell'umano", che ha caratterizzato il lavoro della generazione degli anni '70, o almeno di quella che possiamo ritenere una sua grossa parte, forse la più accorta e avveduta, quella che ha attraversato le contraddizioni cogliendole e abitandole. «Se in passato - spiega Melandri nella prefazione - si trattava di portare alla coscienza quegli "oggetti seppelliti" che sono le oscure storie delle donne e di tutti gli esclusi dal banchetto del potere, o semplicemente dai diritti elementari di cittadino, oggi il percorso sembra inverso. Si tratta di riportare i mostri usciti dal vaso di Pandora dell'esperienza comune, riconoscere le parentele insospettabili tra la violenza e l'amore, tra la vittima e l'aggressore, tra le libertà dell'Occidente e la miseria del resto del mondo…».

Un compito etico importante, nel senso migliore e quotidiano dell'etica, intesa come assunzione di responsabilità verso gli atti e gli eventi, segnando una insostituibilità soggettiva, un'impossibilità di rimando ad altri, assumendosi i rischi di un dire che diviene azione. Ma connotandosi non come esaltazione della trasgressione o dell'assenza di limiti, questo lavoro interroga la politica, ne segna i limiti insiti nella sua costituzione originaria, che nel tracciare i confini della polis indica chi è dentro e chi è fuori, ciò di cui si può parlare e ciò di cui si deve tacere.

Il testo allora dice come il sipario del silenzio sia lacerato, strappato, e come ciò che sta dietro torna in forme mascherate, irriconoscibili e quindi più pervasive perché non ci accorgiamo dell'estraneità che ci abita nel quotidiano.

Recentemente in un'intervista su Repubblica uno dei protagonisti dei tragici fatti di Primavalle diceva che all'interno di Potere Operaio c'era una suddivisione tra "i ricchi e i poveri". C'è da chiedersi quanto hanno pesato quelle suddivisioni, quello scarto messo in parole così rozze e pesanti. Si parlava di lotta di classe e si conviveva con una cesura così pesante, che poi ha segnato i destini e i percorsi di un'intera generazione, con rivalse e rancori, delazioni e fughe.

Proprio a questa parte notturna dell'esperienza si rivolge il testo, evitando due facili scorciatoie: quella di consegnare il notturno al silenzio dell'irrazionale o del primitivo, e quello di esaltare il notturno in sé come già dotato di valore. Due strade che porterebbero ad evitare di interrogarci sul disagio che abitiamo e ci abita nelle dimensione quotidiana, quando una notizia ci coglie di sorpresa, ci spiazza gettando una lama di luce su parti nascoste che riemergono e che la volontà del silenzio non può sopire.

Il lavoro di scavo va oltre, collegandosi ai lavori precedenti dell'autrice, da L'infamia originaria arrivando a Le passioni del corpo, e mettendoli alla prova del quotidiano, quasi una trafila in cui laminare il pensiero, in cui torcerlo per affinarlo. Così ritorna la riflessione sul corpo: «La violenza invisibile che portiamo impressa nostro malgrado nella coscienza del corpo, nel modo di sentire e di pensare noi stesse e il mondo, non può essere paragonata a quella che viene da fuori, ma vederla e analizzarla è importante proprio per capire come sia stato e sia tuttora possibile sopportare l'altra, anzi talvolta non riconoscerla nemmeno come violenza».

Non viene indicato un mondo a parte, al riparo dalle contraddizioni che la rimozione delle passioni ha prodotto. Il mondo in cui viviamo, i soggetti che lo abitano sono, e portano, i segni di questa rimozione, e non è possibile un luogo altro presunto separato da queste rimozioni. E qui si apre la parte più feconda ed originale del pensiero dell'autrice che nel rifiuto della separazione riesce a ritrovare una carica critica più mirata, che va ad indicare qualcosa di originario con cui fare i conti. Melandri ci dice che se anche non riuscissimo a farci i conti sino in fondo (se fondo ci fosse) dobbiamo comunque provarci poiché «la modernità ha i suoi limiti e il suo rovescio nella preistoria che si porta dentro e, per quanto allusive e svianti, le parate di cui si abbellisce non possono cancellare quella prima immagine che ha lasciato nel corpo e nella memoria dei singoli segni duraturi».

Ma non si pensi solo ad un lavoro di demolizione del presente, che ci abbandonerebbe in una sorta di deserto da abitare, in un paesaggio di rovine. Certo, l'aspetto distruttivo della parte nascosta è spesso preponderante, ma la consapevolezza della distruttività può aprire ad altri spazi, ad una consapevolezza vigile, si provi a leggere il capitolo "Bambini": «Se non fosse stato coperto così rapidamente da preoccupazioni legate al contesto sociale, il legame che spesso nasce tra un adolescente e un bambino dello stesso sesso, avrebbe potuto essere visto, fuori dagli stereotipi dell'omosessualità e della pedofilia, nei suoi molteplici aspetti: nodo intricato di amicizia, di dipendenza, attrazione sessuale, idealizzazione, luogo dove violenza e amore si confondono, dove vittime e carnefici, spinti dagli stessi desideri e paure, finiscono, sia pure in modo diverso, per morire insieme, esposti senza alcuna difesa agli assalti di un tempo della vita che nessun adulto, nessuna istituzione o cultura ha insegnato a conoscere e a padroneggiare».

In questo invito a fare i conti con l'alterità del corpo, con la convinzione di padroneggiarlo e non di abitarlo, si ritrova uno dei filoni del pensiero di Lea Meandri, la passione per l'inascoltato, per il limite che segna il nostro esistere, limite che abita il lato notturno dell'esistenza perché rimosso, ma che nella crisi si ripresenta. Allora il compito che il testo ci propone è quello di riconoscerlo nelle passioni che ci agitano, che ritornano nel presente in forme mascherate, trasfigurate per essere irriconoscibili, e che non riconosciute segnano il nostro agire e il nostro abitare il mondo.

Un testo importante nel segnare i limiti della politica, ciò che la politica ha espulso e ritorna. Non sarà forse compito della politica riappropriarsene, pensarlo, ma sicuramente è una parte dell'esistenza che non può essere occultata, pena il ritrovarcela sotto mentite spoglie proprio nel cuore della politica senza possibilità di saperne, subendola nell'illusione di un silenzio pacificatorio.
 


Lea Melandri
Preistorie. Di cronaca e d'altro
,
Filema, 2004, pp. 250, euro 15,00
 

questo articolo è apparso su Liberazione dell' 8 marzo 2005

09 marzo 2005