Quale cultura per la sinistra?
Antonio Prete



Claudia Losi

Di recente su queste pagine, con punti di vista diversi - penso, tra gli altri, agli interventi di Rossana Rossanda, Ida Dominijanni, Lea Melandri - s'è riflettuto su come interpretare e riconoscere e analizzare quell'universo di gesti e pensieri, di sentimenti e scelte, di pulsioni e desideri che un'idea astratta e tutta amministrativa della politica relega nella regione del soggettivo, dell'impolitico, se non dell'irrazionale. Vorrei qui aggiungere, al margine di quelle riflessioni, qualche considerazione.

Politica e religione. La politica ha sì il compito di riconoscere e tutelare le culture religiose dei soggetti che rappresenta, ma non può identificarsi con esse. Per il semplice fatto che se la politica riguarda l'intera comunità, la cultura religiosa nella comunità si declina come un ampio ventaglio di tradizioni, orientamenti, pratiche. Le moderne democrazie prendono forma a partire dal riconoscimento della pluralità e libertà e intimità soggettiva delle religioni. Da qui discende che lo stesso richiamo ai cosiddetti "valori morali" non può essere declinato in modo univoco e deve ogni volta riferirsi ai soggetti che quei valori proclamano.

Le democrazie sono imperfette non solo perché non interpretano né rispettano i diritti di ciascuno riconosciuti come universali ma anche perché pretendono di dare un significato univoco ai cosiddetti "valori morali". I fondamentalismi, sotto ogni cielo, poggiano la loro violenta e cinica energia apparentemente sull'identificazione della politica con una tradizione religiosa, di fatto sull'uso strumentale di una credenza religiosa. Il riconoscimento della pluralità delle tradizioni e delle interpretazioni e delle credenze è analogo al riconoscimento della ricchezza di culture e costumi e linguaggi che definiscono una comunità: è questa vitale compresenza, propria di ogni regione della terra, che impedisce di contrapporre una civiltà o una cultura o una religione a un'altra.

Quando una parte della sinistra italiana, dopo le elezioni americane, si chiede come rappresentare e accogliere istanze e "valori" di quei ceti moderati spesso definiti genericamente di area cattolica, non dovrebbe trascurare il fatto che il cattolicesimo italiano, come tutti sanno, ha allo steso tempo zone ampie di conformismo, esteriorità, doppiezza ipocrita e zone di esperienza evangelica aperta, forme di osservanza superficiale e vuota e forme di intensità soggettiva da cui discende una relazione col mondo attiva, generosa, innovativa. E' a queste seconde esperienze che la sinistra deve innanzitutto guardare. Del resto spesso queste stesse esperienze hanno alimentato e alimentano la cultura di sinistra. Quanto alle altre zone -dove attecchiscono facilmente egoismi proprietari, paure del diverso, qualunquismo- si tratta di cogliere e interpretare il senso e le ragioni di questi riflessi, che non esprimono certo "valori". Lavoro difficile, che non può eludere la via del dialogo.

Quale cultura per la sinistra? La sinistra italiana ha dietro di sé alcuni decenni in cui soggetti, gruppi, movimenti hanno modificato non solo la nozione di politica ma anche il rapporto della politica con la cultura. Non è possibile ignorare l'immenso lavoro fatto da più parti per dare presenza a tutto ciò che l'astrazione propria della politica negava o marginalizzava o riteneva irrilevante o confinava nell'impolitico: il corpo, il desiderio, il vivente, le forme del sentire, la singolarità, la sofferenza, il sogno. Il pensiero delle donne ha dato apporti straordinari su questo terreno. La filosofia ha indagato sulle pieghe delle relazioni tra l'individuo e il mondo, descrivendo mappe di saperi e di poteri, definendo la natura del sentire individuale e delle istituzioni, interrogandosi sui fondamenti delle passioni, dell'agire, del pensare, sulle radici del desiderio e della mancanza.

La letteratura, a sua volta, ha costruito universi di forme che hanno esplorato la coscienza, interrogato il limite, il confine, l'impensato, rianimato l'oblio, dato vita al perduto e figura all'impossibile. Non si può dire ci sia decadenza di pensiero, se si pensa alla ricchezza di apporti che la filosofia e la letteratura hanno dato in questi ultimi cinquant'anni. La crisi della politica non dipende dalla crisi del marxismo o di sistemi di pensiero che pretendevano di interpretare il mondo. Dipende forse dall'incapacità di leggere e interpretare e trasferire in termini di scelte politiche il nuovo variegato e ricchissimo orizzonte di cultura (pensiamo alla rilevanza assunta dal rapporto con la terra e l'ambiente, alla critica della globalizzazione, al nuovo rapporto tra particolare e universale, alla nuova rappresentazione delle differenze e delle relazioni tra culture diverse). Uno sguardo davvero politico non è nostalgicamente rivolto a quel che s'è perduto con la fine delle ideologie e con la crisi del marxismo. E' invece attento a preservare e interrogare l'immenso laboratorio di cultura -plurale, multiforme, disomogeneo- elaborato per decenni e che un abito distintivo e rassicurante ha preferito catalogare sotto la voce cultura dei movimenti. Può accadere talvolta di sentire additare come causa della caduta della passione politica qualcuno dei sistemi di pensiero contemporanei, come il decostruzionismo, o le varie discendenze e i vari innesti della fenomenologia e dell'ermeneutica, o il cosiddetto "pensiero debole". E' un falso arroccamento. Ogni epoca ha i suoi interpreti, i suoi saperi, le sue passioni. Se le passioni dei giovani hanno una natura e una tensione diverse da quelle della nostra giovinezza non per questo vanno guardate con sospetto.

Il nodo della guerra. Fintantoché ci sarà una ragione politica che distingue la guerra giusta dall'ingiusta, la guerra autorizzata da quella illegale, la guerra umanitaria da quella barbarica, la guerra che garantisce il rispetto dell'ordine internazionale da quella che porta disordine, si nasconde e rende opaco, astratto e invisibile lo scopo di ogni guerra: che è trarre un interesse -per un gruppo o per un'idea astratta o per una strategia economica- attraverso la distruzione sistematica e violenta di altri individui. Nella guerra la singolarità dell'individuo, il suo corpo, i suoi desideri, la sua storia, i suoi pensieri, i suoi legami, vengono opacizzati, sussunti nel numero, nella voce nemico, nel sacrificio necessario. Il vivente è negato come vivente. Il corpo straziato tutt'al più è il passaggio rapido di un'immagine sugli schermi, seguito da altre veloci immagini. L'orrore giorno dopo giorno è addomesticato, fatto abitudine, anestetizzato. Per impedire questa anestesia del tragico, questa opacizzazione della singolarità vivente, la riflessione sulla guerra e il movimento contro la guerra hanno elaborato in questi anni una vera e propria cultura. Anche questa cultura, che cancella la guerra dal dizionario politico per riportarla nel dizionario degli affari, dello sterminio, della distruzione, è una cultura che appartiene alla sinistra. E che la politica deve assumere e interpretare.