Minerva e le altre


di Sara Sesti


 


“Figlie di Minerva. Primo rapporto sulle carriere femminili negli enti pubblici di ricerca italiani” è il titolo di una inchiesta coordinata da Rossella Palomba (nella foto), appena pubblicata dalla casa editrice Franco Angeli. Il testo è il risultato dell'indagine di quattordici autrici, in prevalenza esperte di demografia e statistica, partita dopo due convegni avvenuti a Bruxelles nel 1993 e nel 1998 tra parlamentari, ministri e ricercatrici europee. Incitate dallo slogan della sociologa inglese Hilary RoseNo data, non problem, no policy”, le autrici, esperte di statistica e di demografia come la stessa curatrice, hanno ottenuto l'appoggio del Consiglio Nazionale delle Ricerche e della Commissione per le Pari Opportunità e hanno raccolto e analizzato dati con perizia, chiarezza e senza ideologia. Le cifre confermano, in sintesi, che anche in Italia le donne sono escluse dai luoghi di decisione e valutate con “coefficiente 2,6”, rivelando che, per ottenere promozioni pari a quelle di un ricercatore, una ricercatrice deve essere 2,6 volte più brava.

Vediamo alcuni tra i dati più significativi: tra il 1995 e il 1998, le studentesse italiane hanno ottenuto il 52% delle lauree in discipline scientifiche, superando i ragazzi anche per qualità, perché hanno avuto i voti migliori. Gli enti statali hanno assunto però il 63% di uomini, mandando avanti, evidentemente, anche ricercatori non troppo competenti, solo perché maschi. Dal 1999 le ricercatrici sono diventate il 60,4%, ma sono rimaste ferme ai gradini più bassi. Quando si sale nella gerarchia, si scopre che le donne vengono falcidiate: ne resta solo un 6,8%. Nei livelli intermedi la situazione non va molto meglio: troviamo il 15% di ricercatrici, rispetto al 34% dei ricercatori.

Il Consiglio Nazionale delle Ricerche sembrerebbe l'istituzione più accogliente, conta infatti il 61,8% di ricercatrici, ma solo al primo gradino: a dirigerne il lavoro e a deciderne le priorità ci sono 226 uomini e 20 donne. Quali sono i motivi di questa sproporzione? Un luogo comune li ha sempre attribuiti al fatto che la scienza è un ambiente così competitivo da spingere le donne a tirarsene indietro o perché non condividono i modi di lavorare degli uomini o perché risucchiate dagli impegni familiari. Il “rapporto Minerva” mostra invece che i vecchi stereotipi non reggono alle cifre attuali: non è vero che le donne sono più assenteiste perché fanno figli: ne hanno pochissimi e tardi, né è vero che dedicano più tempo alle cure domestiche: si fermano in laboratorio fino a tardi e producono lo stesso numero di pubblicazioni dei colleghi. La realtà è che vengono deliberatamente scoraggiate dal dedicarsi alla scienza, attraverso precariati più lunghi, paghe più misere e giudizi più sprezzanti sul loro lavoro. Lo Stato italiano, nel misurare la bravura femminile e quella maschile, usa ancora due pesi e due misure: come già riferito, per ottenere promozioni pari a quelle di un ricercatore, una ricercatrice deve essere 2,6 volte più brava.

Visti gli esiti dell' indagine, auspichiamo per il futuro la realizzazione di un analogo rapporto sulle carriere femminili nelle università, dove le docenti ordinarie sono appena l'11,4%, e su quelle negli enti privati di ricerca, dove si ha l'impressione che venga praticata una discriminazione di genere ancora più pesante di quella operata dagli enti statali.

 

In "Sempre discriminate?" la discussione sul Rapporto Minerva