questo articolo è apparso su
il manifesto
del 22 agosto 2004
Non credo che
convenga discutere assieme di Judith Butler e di Joseph
Ratzinger. La prima è una individua, sola, problematica, esposta.
Il secondo è il Sant'Uffizio, custode e sorvegliante della verità
della Chiesa cattolica e apostolica romana, che indirizza a tutti
i vescovi una direttiva sulla «collaborazione fra uomini e donne»
siglata dal Papa Giovanni Paolo II. Luisa Muraro - che
ne ha scritto su queste pagine il 7 agosto - è ben indulgente
quando si rivolge all'uomo Joseph invitandolo a partire da sé e a
individuare in sé il conflitto fra i sessi; quella lettera non è di
un uomo ma di una istituzione, la quale parte per l'appunto da sé
e si riferisce a sé come alla rivelazione. Soprattutto mi sorprende
il clamore che la lettera ha sollevato.
Essa innoverebbe
perché assume il tema della differenza? Non è una novità. La Chiesa
ha sempre fatto sua la differenza femminile, ma in un'accezione molto
diversa e opposta a quella per la quale si batte Luisa Muraro. Per
la chiesa i sessi sono sempre stati diversi, anche al di là del dato
biologico, perché diversi Dio li ha creati assegnando una diversa
funzione e definendo fra di essi una gerarchia. Che Ratzinger rimanda
alla «antropologia biblica», riassumendo l'inizio del Genesi: Dio
che ha creato per primo Adamo, poi lo ha visto triste e solo (lasciamo
correre su quel prima e poi), allora ha tratto dalle sue carni e dalle
sue ossa quella che sarebbe stata la sua compagna, stabilendo così
- glossa il cardinale ad uso delle mie amiche femministe - che l'umanità
ha «ontologicamente» bisogno della relazione.
Il Genesi aggiunge un essenziale: Dio li fece a sua immagine e somiglianza,
e Paolo dirà: «In Cristo non ci sono maschio e femmina», volendo significare
(Sofri ha inteso male) che uno e uguale è il rapporto fra Dio e la
specie umana, altro è il rapporto fra i due sessi nel loro passaggio
terrestre. Il quale è segnato dalla caduta, il peccato originale di
disobbedienza alla sola proibizione che Dio dette alla prima coppia,
cioè il gustare quel frutto della conoscenza che li farebbe diventare
uguali a lui. Eva invece cede alla tentazione, convince Adamo a mangiare
la celebre mela e l'irato Javé condanna i due irriconoscenti, che
aveva creato immortali, a morire. L'umanità si dovrà riprodurre attraverso
il loro congiungimento carnale, Eva partorirà con dolore e, aggiunge
Javè: lui ti dominerà. È stata creata a sua immagine ma è diventata
soggetta all'uomo.
Tutto questo era già noto, prima della lettera di Ratzinger, a chiunque
sia andato da ragazzo a dottrina. Ratzinger si guarda bene infatti
dall'inserire il racconto biblico nel contesto storico, ridimensionandone
il valore paradigmatico. Precisa anzi che il congiungimento dei sessi,
necessario alla riproduzione umana (ma anche di quasi tutti gli animali,
innocenti da ogni disobbedienza) è infaustamente legato al peccato
originale, e minacciato dall'ulteriore peccato di concupiscenza. Non
si capisce come egli pensi che il congiungimento carnale avverrebbe
senza desiderio, e in che cosa questo desiderio si distinguerebbe
dalla concupiscenza: forse nell'essere cercato per sé, anche fra coniugi
invece che ai fini della riproduzione. Non dice, il cardinale, che
Tommaso d'Aquino sosteneva, nella Questio 94 della Summa ricordata
da Adriana Zarri, che il congiungimento sessuale doveva essere parte
dello stato di perfezione nell'Eden. Si limita a far capire, come
Paolo, che meglio sarebbe rinunciare ad esso, singolarmente o nel
rapporto coniugale - a costo di metter fine all'umanità o affidarne
la prosecuzione alla tentazione diabolica; insomma la carne che si
congiunge è indissolubilmente legata al peccato.
La donna se ne può distaccare per il ruolo, separato e superiore al
dato biologico, di compagna «per l'altro», capace di ascolto, compassione,
adattamento, passività (sic) - qualità quasi tristi che, certo, dovrebbero
praticare tutti ma alle quali essa è «per natura» (cioè per disegno
di Dio) predisposta.
E quale essenzialismo, quale ontologia è più solidamente basata di
quella derivante dalla creazione? Si capisce che la Lettera dichiari
fin dall'inizio la sua preoccupazione, essendo scritta per mettere
in guardia da due recenti tendenze: il fatto che la donna tende a
riappropriarsi di sé e «per sé» andando così contro la sua intima
natura e il suo «genuino» interesse, e l'avanzare di idee e pratiche
di intervento sulla riproduzione «naturale»; nonché la tentazione
che avanza di un polimorfismo sessuale, che rivelerebbe la tendenza
diabolica dell'uomo a uccidere il suo corpo prescindendo dall'ordine
di natura. Tutte derive fatali che stanno mettendo in pericolo l'ordine
famigliare, che è alla base dell'ordinamento sociale.
Dov'è l'innovazione? Non è nuovo neppure che, pur nella gerarchia
naturale dei sessi, il cristianesimo assegni all'essere femminile
una dignità che lo distingua sia dalla tradizione greca (per Esiodo
la donna è il «bel male» che l'irato Giove fa confezionare da Minerva
per punire gli uomini), sia da quella ebraica, in quanto impone una
unicità di rapporto fra un uomo e una donna, che nel Libro non c'è.
Si può avere dignità a parte intera, anche essendo «un altro io dell'umanità»:
altro e senza quel potere di mediazione fra l'umanità stessa e il
suo creatore che compete all'uomo attraverso la chiesa. Il sacerdote
è infatti il solo ad amministrare i sacramenti, il solo che abbia
l'immenso potere conferitogli dal signore di far rifiorire nella messa
e nell'eucarestia la presenza e il sacrificio di Cristo, il solo che
possa condannare e assolvere dai peccati dell'umanità che è tenuta
a confidarglisi nella confessione, il solo che può legare o separare,
il solo a somministrare o negare la presenza di Dio nell'eucarestia,
insomma il solo a essere parte della funzione della Chiesa. A lui
«esclusivamente» riservata in virtù della non casuale mascolinità
di Gesù.
La donna è nella chiesa ma appunto passivamente, in funzione di compagna,
madre, moglie, sorella, figlia se non sposa di Dio. A Ratzinger piace
la dizione «nuzialità» in quanto simboleggia questo rapporto assieme
impari e amoroso: non è nuziale nel Libro il rapporto di Dio con Israele.
Egli è lo sposo che l'ha eletta mentre lei, Israele, è la sposa incline
a cadere, a idolatrare altre immagini, a prostituirsi, attirandosi
la collera di lui che però è anche pronto a un amoroso perdono. Le
pagine di Osea sono profuse di questa indulgente tenerezza che ristabilisce
fra Javè e Israele il patto da lei violato. E nuziale sembra al nostro
cardinale il rapporto fra Dio e la chiesa, che legge anche nel Cantico
dei Cantici - metafora sublime d'una reciproca attesa che la Chiesa
è costretta un po' faticosamente a desessualizzare.
Più recente e insistente l'indicazione di Maria nella donna assolutamente
perfetta, quella che accoglie l'intervento divino nel concepire Gesù
magnificando Dio per averla scelta, che adora il figlio e lo segue,
ne patisce i tormenti e la morte in croce e ne riceve in grembo la
salma e lo seppellisce senza una sola parola di protesta. Maria è
soltanto amore e dolore. Papa Pio IX, centocinquanta anni fa, ha deciso
che era stata concepita lei stessa senza peccato, cosa che ai padri
non era neanche passato per la mente. E Pio XII, quasi un secolo dopo,
le ha risparmiato addirittura la morte perché sarebbe stata «assunta
in cielo». Si direbbe che una certa mariologia, propria dei papi più
tremendi - salvo il rispetto per la figura di Woytila - tenda a disumanizzare
la madre di Cristo, quale che ne siano le conseguenze per la scelta
del figlio di Dio di essere uomo in tutta l'umana miseria. Uomo sì,
ma passando per il ventre di una donna non soggetta ai limiti del
resto dell'umanità.
Ma non voglio continuare: stanca anche me, come Luisa Muraro, l'analisi
della Lettera ai vescovi, facilmente consultabile sul sito
vaticano. Chiedo piuttosto alle mie amiche del femminismo della
differenza perché questo testo le abbia così singolarmente interessate.
Certo, Ratzinger interessa loro più di quanto loro interessino lui,
considerando che non è neppure sfiorato dall'idea di una libertà femminile
che non sia obbedienza all'ordine del creato. Ordine subìto e amato,
fino a quel sostare davanti al mistero, rinunciando alla conoscenza
(Eva ne è stata scottata) cui saremmo inclini, preferendo comprendere
«per amore» che «per ragione».
Ragione fatale, afferma Luisa Muraro, madre di tutte le guerre. Ma
come la mettiamo con il Logos? Neanche Ratzinger se la cava molto
bene con l'apostolo Giovanni, per il quale «al principio era il Logos»,
quando se la prende con l'astrazione e loda la concretezza femminile.
Astratto perché senza corpo? Come il Logos? Povero Logos. Che ne pensano
quelle di noi che usano il terribile neologismo: fallologocentrismo?
Oppure si tratta di una metafora? E di che? Ratzinger preferisce assegnarci
una volta per tutte all'ineffabilità del misticismo, sulla traccia
di Meister Eckhart. Da parte mia ringrazio e declino.
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