Gli studi sull'aggressività umana non hanno mai spiegato perché gli umani,
al contrario di tutti gli altri animali esistenti, si dedicano a lotte
contro i propri simili. Perché, insomma, abbiamo inventato le guerre
Con il suo discorso su violenza-e-non Bertinotti fa la cosa giusta. Forse
la cosa più vicina a una vera «rifondazione». Non solo del comunismo ma
della società in toto. Non limitarsi ad auspicare la non-violenza,
ma farne una proposta politica e affermarne la necessità, è il gesto
politicamente più radicale, anzi il più sovversivo, il più carico di
conseguenze, e insieme il più attuale, che oggi si possa compiere. E lo
dimostra il fitto e appassionato dibattito che da un paio di settimane
dopo l'intervento del segretario si svolge su «Liberazione», allargandosi
anche sul «manifesto», ospitando voci di alta autorevolezza (Ingrao per
ben due volte) e di numerosi militanti di base, voci diverse, alcune anche
decisamente dissenzienti, tutte profondamente coinvolte.
I più insistono
però sulla violenza come parte della storia e dei comportamenti
tradizionali delle sinistre (da criticare o rivendicare), o come
tentazione presente nella pratica politica d'oggi, tra i giovani
soprattutto. Pochi (ma proprio questo dice quanto il problema sollevato
sia opportuno e chieda approfondimento) si impegnano sull'intero discorso
di Bertinotti, il quale pone il problema in tutta la sua ampiezza e tutte
le sue implicazioni, non solo con coraggio avventurandosi sul difficile
terreno del confronto col proprio «grande e terribile» passato, ma anche
mettendo a fuoco il rischio che rispondere alla violenza con la violenza
comporta: rischio di somigliare all'avversario, di essere penetrato dalla
sua logica e dal suo linguaggio, di non riuscire più a liberarsene.
Proprio questa è invece la più drastica e proficua «rottura di schema» -
come la chiama Ingrao - che il discorso propone. Schema che certo sta alla
radice di quella stessa lotta armata apparsa ai vecchi comunisti
«ineluttabile percorso di liberazione dallo sfruttamento capitalistico»,
ciò che a lungo non ha loro consentito di trovare "una vera distanza
critica né dalla violenza né, certo, dalla guerra". E che ancora oggi
condiziona in qualche misura posizioni e scelte politiche specie tra le
sinistre «antagoniste», come qualche intervento esplicitamente testimonia.
E' Marco Revelli in particolare a misurarsi con questo immane problema,
d'altronde a lui congeniale e più volte affrontato nei suoi libri.
Nell'articolo sul «manifesto» non solo parla di «retroazione che la
violenza opera su chi la pratica», addirittura di «metamorfosi
antropologica che la violenza impone al soggetto che si trova a
impiegarla», usando concetti vicini a quelli di Bertinotti, ma vede nella
non-violenza l'unico possibile «nuovo inizio» da proporre in un'epoca in
cui «la guerra è diventata la forma stessa della vita sociale». E su
questa lunghezza d'onda si snoda anche l'intervento di Paolo Cacciari, per
il quale «la nonviolenza va cercata oltre il pacifismo».
Al di là della inaudita distruttività raggiunta, in una irresistibile
escalation da Hiroshima in poi, dalle tecnologie belliche. Al di là del
salto epocale segnato dalla geopolica della «guerra preventiva», il quale
in un mondo divenuto unipolare cancella quelle regole internazionali che
in qualche modo potevano contenere la minaccia dell'annientamento totale.
Al di là del terrorismo, surrogato della guerra - dice Raniero La Valle -
divenuta proprietà di un solo padrone. Al di là della guerra ormai
normalmente usata - secondo un'opinione oggi largamente condivisa - come
lo strumento più sicuro per risolvere crisi e depressioni economiche. Al
di là insomma della violenza dispiegata come tale, senza infingimenti,
senza aggettivi intesi a contrabbandarla per altra cosa, se davvero si
vuole «iscrivere la radicalità in una pratica di non violenza», come
propone Bertinotti, non basta dire no alla guerra. Bisogna dire no a un
mondo che la guerra l'ha incorporata come sistema, che della violenza ha
fatto la ricetta del proprio agire quotidiano.
I giovani dei movimenti l'hanno capito, quando fanno del loro «No alla
guerra e no al neoliberismo» i due pilastri del loro impegno e la base
imprescindibile di ogni possibile dialogo con le forze politiche
istituzionali. Senza approfondite analisi, semplicemente ma fermamente
proponendo in un unico slogan i due «no», mostrano di sapere che non è
guerra solo quella guerreggiata a suon di bombe, ma lo è anche la morte
per fame, la crescente distanza tra ricchi e poveri, lo sfruttamento
sempre più esoso del lavoro, l'attacco generalizzato allo stato sociale,
la negazione dei diritti civili. Come lo è la perdurante disparità sociale
delle donne, e la indiscriminata dilagante rapina della natura, e la
privatizzazione dell' acqua e dei brevetti su farmaci vitali, e lo
sviluppo imposto a propria immagine e interesse dal Nord al Sud del mondo,
e un Occidente che rappresenta un quinto della popolazione mondiale, ma
consuma l'80 % delle risorse. Il neoliberismo insomma, il modello
socioeconomico oggi vincente.
Ma la radice violenta della guerra si può
cogliere anche in momenti apparentemente estranei alla struttura
gerarchica del globo, riferibili alla normalità quotidiana della vita
civile o addirittura al benessere in aumento in non pochi paesi e fasce
sociali. Penso all'incrudelire estremo della competitività, della sfida
mortale cui le dinamiche di mercato oggi obbligano non solo l'imprenditore
ma l'intero mondo del lavoro: non è un caso se determinazione, capacità di
comando, aggressività, «grinta», sono le qualità richieste a chi cerchi
occupazione. Penso alla colonizzazione dell' immaginario collettivo,
sistematicamente perpetrata mediante la pubblicità e la maggior parte
dell' informazione, mediante l'imposizione di modelli funzionali al dogma
produttivistico e consumistico. Penso alla ricaduta di tutto ciò sia nel
farsi di esistenze tutte proiettate al conseguimento di un successo
identificato con reddito e consumo, sia nei rapporti personali, nel
confronto con l'altro, anch'esso precipuamente misurato su questi stessi
parametri. Penso a quella sorta di inquinamento sociale che il predominio
di valori individualistici, acquisitivi, competitivi, induce in ogni
ambiente e classe.
Sto allineando riflessioni
che vorrebbero un discorso ben più ampio e costruito.
E che, portato avanti, andrebbe a parare nella gran disputa sull'
aggressività umana, che ha impegnato intelligenze come Lorenz, Fromm, Jay
Gould, Jonas, Eibesfeld, Giorgio Prodi (per citarne qualcuna), ma non ha
risposto alla domanda come mai gli umani - a differenza di tutti gli altri
animali del creato, che praticano solo lotte «interspecifiche», cioè
contro specie diverse - fin dai più lontani documenti risultino dediti a
lotte «intraspecifiche», cioè contro il propri simili. Perché insomma
abbiano inventato la guerra.
Non sarà il dibattito aperto da Bertinotti a dare la risposta. Forse può
essere però occasione per dirci che dopotutto non è scritto da nessuna
parte che ciò che non è stato finora non possa essere. La storia è fatta
di cose che prima non c'erano. E se finora - secondo l'argomento forte di
quanti criticano il pacifismo - il «no alla violenza» chiesto e praticato
da piccoli gruppi non ha portato lontano, forse il risultato può essere
diverso quando a gridarlo sono folle sempre più vaste, da Seattle a
Genova, da Porto Alegre a Firenze, da Cancun a
Bombay.
questo articolo è apparso su
"il manifesto" del 30 gennaio 2004
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