Ma perché gli uomini fanno le guerre?
di Carla Ravaioli

 


Gli studi sull'aggressività umana non hanno mai spiegato perché gli umani, al contrario di tutti gli altri animali esistenti, si dedicano a lotte contro i propri simili. Perché, insomma, abbiamo inventato le guerre


Con il suo discorso su violenza-e-non Bertinotti fa la cosa giusta. Forse la cosa più vicina a una vera «rifondazione». Non solo del comunismo ma della società in toto. Non limitarsi ad auspicare la non-violenza, ma farne una proposta politica e affermarne la necessità, è il gesto politicamente più radicale, anzi il più sovversivo, il più carico di conseguenze, e insieme il più attuale, che oggi si possa compiere. E lo dimostra il fitto e appassionato dibattito che da un paio di settimane dopo l'intervento del segretario si svolge su «Liberazione», allargandosi anche sul «manifesto», ospitando voci di alta autorevolezza (Ingrao per ben due volte) e di numerosi militanti di base, voci diverse, alcune anche decisamente dissenzienti, tutte profondamente coinvolte.

I più insistono però sulla violenza come parte della storia e dei comportamenti tradizionali delle sinistre (da criticare o rivendicare), o come tentazione presente nella pratica politica d'oggi, tra i giovani soprattutto. Pochi (ma proprio questo dice quanto il problema sollevato sia opportuno e chieda approfondimento) si impegnano sull'intero discorso di Bertinotti, il quale pone il problema in tutta la sua ampiezza e tutte le sue implicazioni, non solo con coraggio avventurandosi sul difficile terreno del confronto col proprio «grande e terribile» passato, ma anche mettendo a fuoco il rischio che rispondere alla violenza con la violenza comporta: rischio di somigliare all'avversario, di essere penetrato dalla sua logica e dal suo linguaggio, di non riuscire più a liberarsene.

Proprio questa è invece la più drastica e proficua «rottura di schema» - come la chiama Ingrao - che il discorso propone. Schema che certo sta alla radice di quella stessa lotta armata apparsa ai vecchi comunisti «ineluttabile percorso di liberazione dallo sfruttamento capitalistico», ciò che a lungo non ha loro consentito di trovare "una vera distanza critica né dalla violenza né, certo, dalla guerra". E che ancora oggi condiziona in qualche misura posizioni e scelte politiche specie tra le sinistre «antagoniste», come qualche intervento esplicitamente testimonia.

E' Marco Revelli in particolare a misurarsi con questo immane problema, d'altronde a lui congeniale e più volte affrontato nei suoi libri. Nell'articolo sul «manifesto» non solo parla di «retroazione che la violenza opera su chi la pratica», addirittura di «metamorfosi antropologica che la violenza impone al soggetto che si trova a impiegarla», usando concetti vicini a quelli di Bertinotti, ma vede nella non-violenza l'unico possibile «nuovo inizio» da proporre in un'epoca in cui «la guerra è diventata la forma stessa della vita sociale». E su questa lunghezza d'onda si snoda anche l'intervento di Paolo Cacciari, per il quale «la nonviolenza va cercata oltre il pacifismo».



Al di là della inaudita distruttività raggiunta, in una irresistibile escalation da Hiroshima in poi, dalle tecnologie belliche. Al di là del salto epocale segnato dalla geopolica della «guerra preventiva», il quale in un mondo divenuto unipolare cancella quelle regole internazionali che in qualche modo potevano contenere la minaccia dell'annientamento totale. Al di là del terrorismo, surrogato della guerra - dice Raniero La Valle - divenuta proprietà di un solo padrone. Al di là della guerra ormai normalmente usata - secondo un'opinione oggi largamente condivisa - come lo strumento più sicuro per risolvere crisi e depressioni economiche. Al di là insomma della violenza dispiegata come tale, senza infingimenti, senza aggettivi intesi a contrabbandarla per altra cosa, se davvero si vuole «iscrivere la radicalità in una pratica di non violenza», come propone Bertinotti, non basta dire no alla guerra. Bisogna dire no a un mondo che la guerra l'ha incorporata come sistema, che della violenza ha fatto la ricetta del proprio agire quotidiano.

I giovani dei movimenti l'hanno capito, quando fanno del loro «No alla guerra e no al neoliberismo» i due pilastri del loro impegno e la base imprescindibile di ogni possibile dialogo con le forze politiche istituzionali. Senza approfondite analisi, semplicemente ma fermamente proponendo in un unico slogan i due «no», mostrano di sapere che non è guerra solo quella guerreggiata a suon di bombe, ma lo è anche la morte per fame, la crescente distanza tra ricchi e poveri, lo sfruttamento sempre più esoso del lavoro, l'attacco generalizzato allo stato sociale, la negazione dei diritti civili. Come lo è la perdurante disparità sociale delle donne, e la indiscriminata dilagante rapina della natura, e la privatizzazione dell' acqua e dei brevetti su farmaci vitali, e lo sviluppo imposto a propria immagine e interesse dal Nord al Sud del mondo, e un Occidente che rappresenta un quinto della popolazione mondiale, ma consuma l'80 % delle risorse. Il neoliberismo insomma, il modello socioeconomico oggi vincente.

 

Ma la radice violenta della guerra si può cogliere anche in momenti apparentemente estranei alla struttura gerarchica del globo, riferibili alla normalità quotidiana della vita civile o addirittura al benessere in aumento in non pochi paesi e fasce sociali. Penso all'incrudelire estremo della competitività, della sfida mortale cui le dinamiche di mercato oggi obbligano non solo l'imprenditore ma l'intero mondo del lavoro: non è un caso se determinazione, capacità di comando, aggressività, «grinta», sono le qualità richieste a chi cerchi occupazione. Penso alla colonizzazione dell' immaginario collettivo, sistematicamente perpetrata mediante la pubblicità e la maggior parte dell' informazione, mediante l'imposizione di modelli funzionali al dogma produttivistico e consumistico. Penso alla ricaduta di tutto ciò sia nel farsi di esistenze tutte proiettate al conseguimento di un successo identificato con reddito e consumo, sia nei rapporti personali, nel confronto con l'altro, anch'esso precipuamente misurato su questi stessi parametri. Penso a quella sorta di inquinamento sociale che il predominio di valori individualistici, acquisitivi, competitivi, induce in ogni ambiente e classe.

Sto allineando riflessioni che vorrebbero un discorso ben più ampio e costruito.

E che, portato avanti, andrebbe a parare nella gran disputa sull' aggressività umana, che ha impegnato intelligenze come Lorenz, Fromm, Jay Gould, Jonas, Eibesfeld, Giorgio Prodi (per citarne qualcuna), ma non ha risposto alla domanda come mai gli umani - a differenza di tutti gli altri animali del creato, che praticano solo lotte «interspecifiche», cioè contro specie diverse - fin dai più lontani documenti risultino dediti a lotte «intraspecifiche», cioè contro il propri simili. Perché insomma abbiano inventato la guerra.

Non sarà il dibattito aperto da Bertinotti a dare la risposta. Forse può essere però occasione per dirci che dopotutto non è scritto da nessuna parte che ciò che non è stato finora non possa essere. La storia è fatta di cose che prima non c'erano. E se finora - secondo l'argomento forte di quanti criticano il pacifismo - il «no alla violenza» chiesto e praticato da piccoli gruppi non ha portato lontano, forse il risultato può essere diverso quando a gridarlo sono folle sempre più vaste, da Seattle a Genova, da Porto Alegre a Firenze, da Cancun a Bombay.
 

questo articolo è apparso su "il manifesto" del 30 gennaio 2004