Nessuna delusione
di Anna Maria Rivera


Delusione per la composizione del nuovo governo? Perché mai? Essa rispecchia limpidamente lo stato dei rapporti di genere ma anche di “colore” nel nostro paese.

Riflette la struttura maschio-biancocentrica della società italiana e la sua penosa “arretratezza”, si potrebbe dire, se questa non fosse una categoria etnocentrica che evoca i paesi “in via di sviluppo”. Alcuni dei quali, com’è noto, sono ben più avanzati dell’Italia quanto a parità e presenza pubblica delle donne. In Colombia, Uruguay, Bangladesh, Zimbabwe e Thailandia, il gender gap (il divario fra uomini e donne) è meno accentuato che nel Belpaese.

Ce lo conferma il Rapporto del 2005 del World Economic Forum, che propone una graduatoria realizzata secondo cinque criteri: partecipazione economica e parità di remunerazione tra i due sessi; opportunità di accesso ad ogni genere di lavoro; rappresentatività nelle strutture decisionali dei paesi; accesso all'educazione e assistenza alla salute e alla maternità. In questa classifica  l’Italia occupa il 45° posto su 59 paesi; e sarebbe stata relegata ancora più in basso se non avesse almeno dei buoni sistemi sanitario ed educativo: "Italia e Grecia ­commenta il Rapporto- hanno la situazione peggiore in Europa, con indici che riflettono i bassi livelli di partecipazione politica delle donne agli organi decisionali e le scarse possibilità di carriera in campo professionale".

Se pensate che in campi diversi dalla rappresentanza politica le cose vadano meglio, considerate i dati seguenti: nel 2003 su circa 18.000 professori ordinari solo 2.800 erano donne (la media dell’Unione europea è del 16,4%), così che, ai ritmi di crescita attuali, ci vorrebbero ben 179 anni per raggiungere l’equilibrio fra i sessi in questo ruolo. Va ancora peggio se si considerano le posizioni di vertice: tanto fra gli 83 rettori delle università italiane quanto fra i 105 direttori d’istituti di ricerca del Cnr vi sono solo due donne; nella presidenza di enti pubblici di ricerca non v’è alcuna presenza femminile.

Al di là dei dati, la discriminazione, l’emarginazione, la condiscenza paternalistica sono esperienza quotidiana di ognuna di noi. Un solo, piccolo esempio, sul quale raramente si riflette: accade sovente che si organizzino forum, conferenze, dibattiti, seminari, convegni ove fra i relatori non v’è una sola presenza femminile, che si tratti d’iniziative promosse da partiti e movimenti politici -anche molto di base e di sinistra- oppure da altri soggetti, pubblici o privati. Ma ciò non suscita negli organizzatori alcun sentimento di vergogna: la familiarità col potere o col dominio non va d’accordo col garbo e col senso della misura.   

Può succedere, come accade da due anni, che le giornate culturali in una città del Nord, dedicate a un grande giornalista scomparso ed aventi per tema -pensate un po’!- la pluralità culturale e il superamento di apartheid e confini, vedano fra i 37 relatori e moderatori delle tavole rotonde una sola donna, invitata per la sua statura di star accademica internazionale: il confine fra i generi e la segregazione femminile evidentemente sono intoccabili.

Ma quante sono solite protestare di fronte a discriminazioni così palesi? Non è forse vero che è costume femminile non raro ­anche e soprattutto a sinistra- abbandonare al suo destino l’ingenua che abbia il coraggio di proclamare che il re è nudo, per non rischiare l’emarginazione o per preservare per sé spazi di manovra per future ascese ai vertici? E’ forse infondato dire che in ogni campo ­ma più nella politica che nei settori delle professioni, della cultura, della ricerca- la selezione delle carriere, dei vertici, delle rare cooptazioni femminili avviene spesso secondo criteri che premiano più la mediocrità, l’arrivismo e la fedeltà ai capi che l’autonomia, il rigore, la competenza, lo spessore intellettuale?

Conviene tenere in mente che il berlusconismo non è passato invano e anzi non è neppure tramontato: la questione morale è ancora all’ordine del giorno ed essa appare più che mai intrecciata con quella che un tempo si chiamava questione femminile.

Non poche volte la conventio ad excludendum di cui sono vittime alcune personalità femminili che “farebbero ombra” a vertici maschili è attuata con la complicità ­ sia pure secondaria- delle donne, anche in partiti di sinistra. I cui gruppi dirigenti femminili forse qualche responsabilità ce l’hanno nelle scelte compiute dai vertici, anche in rapporto alla composizione del nuovo governo. Quante sono le dirigenti di partito, le parlamentari o le prescelte per i sottosegretariati che hanno protestato per l’istituzione dell’inedito ministero della famiglia (di sapore vagamente clerico-fascista) o per la pletora dei sottosegretari?   

Di quali donne parliamo, dunque? Ha ragione Lea Melandri a ribadirlo: il narcisismo maschile si alimenta e si riproduce grazie alle tante signore o signorine Smith ansiose di condividere il potere maschile, di raccoglierne le briciole o, più modestamente, d’esserne accolte nel salotto buono.  Pur d’essere fra le “salvate”, non importa quali folle di “sommerse” ci si lascia alle spalle.

E finora abbiamo parlato solo delle élite femminili, promosse o bocciate, integrate o emarginate, cooptate o respinte: ben più drammatico ci apparirebbe lo stato delle cose se rivolgessimo l’attenzione ai milioni di donne e ragazze che vivono il dominio maschile in forme di gran lunga più umilianti o brutali (in una sola settimana tre omicidi efferati di donne compiuti dai loro partner sono una spia inquietante dello stato dei rapporti di genere).

Converrebbe allora perdere la pazienza collettivamente, come Lea c’invita a fare implicitamente, ed abbandonare per ora il terreno della querimonia sulla rappresentanza nel nuovo governo per ricominciare a stare nella società insieme alle folle di donne private di parola.

La storia del femminismo dovrebbe aver insegnato che “uscire dal silenzio” è un gesto efficace se è un gesto davvero collettivo; e se non delega a nessuno e a nessuna, neppure ai/alle leader di movimento.


questo articolo appare su Liberazione del 20 maggio 2006