L'assassinio muto della nascita
di Rossana
Rossanda

Jeanne Hebuterne
Ecco un libro dal quale non si riesce a staccarsi:
Dare l'anima. Storia di un infanticidio di
Adriano Prosperi. Lo studioso stava lavorando sulle schede delle
confraternite che accompagnavano i condannati a morte perché
cristianamente accettassero la morte, ma non era riuscito neppur lui a
staccarsi da un processo che gli era venuto fra le mani: nella Bologna
papalina del 1709 era stata giustiziata Lucia Cremonini per aver ucciso il
figlio appena nato.
Dalle carte risulta che Lucia, 25 anni,
frequentava la chiesa, era una ragazza onesta, faceva la serva nelle case
della città come sua madre, con la quale viveva in una stanzetta ad
affitto. Una sera di carnevale era stata trascinata in un vicolo da un
giovane prete che la sverginò, la possedette un paio di volte la
accompagnò a mangiare e poi trovando chiusa la porta di casa la mandò a
dormire da una conoscente e uscì di scena. Una squallida stretta tra due
indigenti, lei di qualche voce amica e lui di sesso, che neppure si sono
detti il nome. Per lui nessuna conseguenza, per lei la rovina. Poverissima
Lucia avrebbe potuto godere di una caritatevole dote che la città
assegnava alle più spossessate per maritarsi; per questo le nubili erano
tenute a dichiararsi al comune se si scoprivano incinte, nel qual caso
perdevano con l'onore anche questi pochi quattrini. Lucia Cremonini nega
alle occhiute vicine di essere gravida, partorirà sola, nel terrore, in
piedi, e davanti alla cosa che le è uscita dal ventre e significa per lei
l'infamia, afferra un coltello glielo ficca in gola, la mette in una
sporta e ricade sfinita sul letto. Dove la trova il notaro allertato dalle
vicine. Sulle prime Lucia non ammette, la creatura deve avere sbattuto il
capo cadendo, ma la ferita e il coltello parlano da sé. La madre viene
chiamata, giura di non aver saputo nulla e la maledice. Lucia è arrestata.
Segue il processo e lei ammette tutto, rassegnata, come trasognata. La
madre non sarà sentita, il prete neanche cercato. Un anno dopo le viene
notificata la condanna: verrà impiccata l'indomani mattina 22 gennaio 1710
in piazza San Petronio. Lucia non getta un grido. Da quel momento è presa
in carico dalla confraternita di Santa Maria della Morte: la conducono in
una casa patrizia, la circondano, la fanno scaldare al caminetto, la
accudiscono e le parlano con pietà. A quel tepore Lucia si scioglie,
piange, accetta di confessarsi e si avvierà al patibolo in modo esemplare,
con coraggio e chiedendo perdono alla folla.
Le ore che l'hanno separata dalla forca sono state probabilmente le sole
in cui è stata trattata con gentilezza in vita. Il suo corpo finirà
esposto in una pubblica lezione di anatomia, punto alto del carnevale.
Questo è quanto Prosperi ha trovato nei documenti, Lucia Cremonini non
avendo lasciato altre tracce in terra: come egli scrive, un cono crudele
di luce per un momento ha illuminato una vita che sarebbe sprofondata
nell'oscurità. Lo storico è colpito dalla figura di assassina muta e alla
fine capace di dignità; essa non si lascia dimenticare in mezzo ai molti
uomini e alle poche donne, spuma della società che solo la punizione fa
emergere, che erano state assistite dai confortatori. Ma come è stata
vissuta da lei la vicenda? Prosperi collutta con le carte dando loro
spessore con quel che conosce dei costumi, delle pratiche, delle culture e
delle istituzioni del tempo, ma di Lucia esse non restituiscono che il
profilo sociale: per essere donna, serva, senza marito né padre è in
assoluto il soggetto più debole. Una famiglia, specie se abbiente,
l'avrebbe coperta essendo d'uso proteggersi da nascite inopportune. Sola e
poverissima non ha scampo: è una infanticida, corpo femminile colpevole e
più severamente sorvegliato e punito da quando stato e chiesa sono a
Bologna una cosa sola. C'è il fatto e c'è il contesto ma Lucia resta
inafferrabile, agita più che agente. Gli storici conoscono questo limite
delle biografie. Prosperi ne scrive con rara partecipazione e pietà.
Ma che cosa è in quel caso il contesto? Non più che un frammento limitato
nel tempo e nel luogo del tentativo millenario di dare regole al nascere e
al morire. Mistero cui culture e istituzioni non hanno cessato di
rispondere in modo diverso; quello che è venuto convergendo nella sorte di
Lucia, rimanda indietro nei secoli nella discussione fra chiese e chiese,
pensatori e pensatori. La ricerca di Prosperi riflette questa
irrequietudine, dilatandosi in cerchi sempre più larghi. Che cosa era alle
soglie del XVIII secolo un corpo concepito? Chi lo concepisce? Contro le
evidenze della gestazione e del parto la primazia del generare è stata a
lungo rivendicata dal maschio che la pone nel suo seme. L'ostinazione,
suppone
Winnicott, dall'intollerabilità per il
sesso maschile di essere assente o secondario nella generazione che
significa non solo riproduzione della specie ma trasmissione del nome,
dello statuto, della proprietà, un prolungamento di sé oltre la morte.
Protagonista non può essere che il seme virile, caldo e travolgente che
immette un principio vitale nel corpo della donna, passivo e freddo. Esso
lo riceve finché il frutto non matura e a quel punto se ne separa. La
donna è la terra. Come questa passività si coniughi con l'abilità sessuale
nello stesso tempo attribuita al femminile si spiega soltanto per
influenza diabolica.
Quando dal `400 in poi alcuni studiosi fra cui Leonardo e poi la medicina
attenta a stare sotto le ali della chiesa, riconosceranno
indiscutibilmente nel corpo materno la fabbrica del vivente avanzeranno le
loro scoperte con prudenza, rischiando l'eresia. E' come la rivoluzione
copernicana, annota Prosperi, ma più difficile da ammettere della caduta
del sistema tolemaico: è la virilità che si trova spossessata e con essa
la gerarchia sociale. Non ne vediamo le tracce ancora oggi?
Barbara Duden insiste sull'occhio medico
nel separare dal corpo della donna quello della creatura che essa porta;
da quel momento il corpo femminile diventa luogo pubblico da legiferare.
Ma viene ancora più da lontano il lavorio delle religioni, specie
monoteiste nel ritenerlo secondario, venuto dopo e perfino dotato di anima
molti giorni dopo il feto maschile e per 40 giorni impuro dopo il parto.
Che la donna non possa amministrare i sacramenti per la chiesa cattolica è
il marchio di questa inferiorità. Il medioevo è stato più mite, quando
alla chiesa si unisce lo stato nascente, il potere pubblico di controllo
diventa più rigido. Il cesareo nasce per strapparle il feto ancora vivo se
lei muore, e se si deve scegliere fra la vita sua e quella della madre è
lei che va sacrificata.
E poi il corpo finisce con la morte? Nella esperienza è evidente il suo
disfarsi. Il dogma cristiano più difficile da rappresentarsi è che esso
stesso resusciterà come l'anima.
Ma che cos'è l'anima? E' quello che vivifica il corpo, è quello che lo
rende unico e individuale, la mente che intende, la persona? Anche su
questo si sono scontrati chiese e pensatori, nonché la medicina che più o
meno segretamente cercava di localizzarla in qualche parte del corpo. E
poi chi immette l'anima nel feto e a quale punto del suo sviluppo? E che
ne succede quando il corpo si disfa? Per lungo tempo l'immissione
dipenderà dal seme maschile, veicolo del divino, ma su quando si discuterà
anche fra papato e papato - assai recente è la rigidità del cattolicesimo
che afferma l'anima essere presente fin dall'embrione.
E' invece di tutto il cristianesimo la certezza che l'anima non muore con
il corpo, a parte alcuni eretici: Cristo ci ha salvato dalla morte, del
corpo e dell'anima nel segno del battesimo. Ma quanti si salveranno? Non
tutti, pensa Agostino nella sua visione pessimista dell'umanità, tanto è
stato terribile il peccato originale che la grazia potrà salvare un numero
ristretto di eletti. Soltanto la grazia, dunque per predestinazione. Ma
come può consentirlo un Dio giusto? La vicenda arrovella per secoli. E non
solo i dotti: il rapporto con i morti è problematico per tutto l'animo
popolare, che teme nel morto l'infelicità e l'invidia e ricorre al rituale
della sepoltura religiosa per toglierselo da torno. Ma che succede ai
bimbi non nati o nati e non battezzati, moltissimi in quei tempi sotto il
profilo sanitario calamitosi? Per Agostino a loro spetta l'inferno per
altri più pietosi un limbo dove in eterno saranno privi della visione di
Dio. Lucia Cremonini è colpevole non solo di avere ucciso il figlio ma di
non averlo battezzato, impedendogli la seconda nascita.
Non è tutto. Sulla scena della nascita, tutta fatta di presenze femminili
e affidata all'arte della levatrice si annidano i sospetti: la levatrice,
la sola che sa tutto della sessualità, della gravidanza e del parto può
usare questi suoi saperi in accordo con il demonio. Molte levatrici
finiranno al rogo come
streghe; sono un'immagine stessa della strega: donne vecchie,
provate, sole. E' un guaio per la chiesa e per i genitori che il battesimo
per chi morirà piccolissimo sia nelle loro mani - ne approfittano alcuni
disinvolti conventi che per denaro contante dichiarano di richiamare in
vita il morticino il tempo necessario per battezzarlo. Va detto che in
questa confusione il Sant'Uffizio sembra, come anche di fronte a papi
tremendi come Sisto V un più ragionevole mediatore.

Insomma, i lacci che si sono annodati attorno all'infelice Lucia Cremonini
sono secolari, intrecciati e per gran parte irrisolti. Lo abbiamo visto
nella recente
discussione
sulla
legge 40. E non solo. Se è vero, conclude
Prosperi, che al massimo dell'individualismo si registra quel massimo di
omologazione nei costumi e nei consumi della quale è parte la voglia di
clonazione, tentativo di sottrarsi al mistero con la ripetitività della
tecnica.
Adriano
Prosperi
Dare l'anima. Storia di un infanticidio
Einaudi, 2005, pp. 373, € 24
Questo articolo è apparso su
il manifesto del 31 luglio 2005
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