Destini di donne
di Rossana
Rossanda
Il pensiero femminile e la guerra, una discussione sul conflitto
jugoslavo. Stasera (4 ottobre) alle sedici, nella sala dell'Archivio di
stato di Mantova, si discuterà finalmente d'un libro, a mio avviso, raro e
ingiustamente poco segnalato: Le guerre
cominciano a primavera. A cura di Maria Bacchi e Melitta Richter (Rubettino
2003). Titolo più elusivo del sottotitolo che lo segue: Identità e
genere nel conflitto jugoslavo. Ne parleranno con le due curatrici Lea
Melandri e Tania Sekulic. Dico finalmente perché è uno dei pochi lavori -
per quel che conosco - che assieme a quelli di Rada Ivekovic e alle
riflessioni di Judith Butler, va oltre l'enunciazione del generale e
generico rifiuto femminile della guerra. Che le donne siano contro la
guerra è diventato senso comune. Una loro distanza e diversità appartiene
perfino a millenni di civiltà. E' femminile il volto dolente e maledicente
della donna che in guerra ha perduto il suo uomo o suo figlio, e talvolta
neppure lo potrà seppellire.
Ed è assegnata alla donna la funzione che nelle guerre ha da svolgere,
curare i feriti e dire l'ultima parola ai morenti, quando non penetrare, a
scontro finito, sul campo di battaglia per raccogliere i morti. Da
millenni le donne sono state il risvolto, in qualche misura confortante,
della fatalità delle guerre, sulle quali non le era dato di decidere mai.
Non decidono neanche oggi, neanche col finire di una esplicita
interdizione a prendere la parola. Così Florence Nightingale, o anche
Madre Coraggio sono intrinseche alle culture più tradizionali di ogni
paese. E lo è anche la donna che accoglie il prigioniero o il disperato o
lo sconfitto dell'altra parte quando bussa alla sua porta, la compassione
e l'amore di cui è «per natura» portatrice superando le barriere della
conflittualità degli uomini.
E' il suo ruolo consolatorio, e una
traccia ne è ancora presente, pur nella inabituale forza, nelle immagini
di Cindy Sheehan che assedia la Casa bianca o di Manuela Dviri, che contro
venti e maree si batte con altre israeliane e palestinesi per la pace e
contro l'occupazione nei territori in Medioriente: sono due madri orbate
da un figlio che si levano sull'inaccettabilità della tragedia. Ma da
qualche tempo in qua nella parte del mondo dove le donne si sono prese il
diritto alla parola, molte di esse, anche se sollevate da private perdite,
hanno smesso di subire la guerra come un destino. Da quando hanno
rifiutato di pensare anche se stesse come un destino. Questo non va da sé.
Le voci che cercano di sfondare l'indifferenza appartengono al secolo
scorso, e fino agli anni `70 sono rimaste isolate, ancora nella seconda
guerra mondiale mogli e madri hanno accompagnato con lacrime e fierezza
mariti e figli che partivano per la trincea, o le fidanzate hanno
disprezzato l'uomo che rifiutava l'uso delle armi.
E' rimasta solitaria Virginia Woolf, quando ha
rifiutato il contributo delle tre ghinee allo sforzo britannico di
prepararsi a una guerra, della quale più di altre, essendo stata coinvolta
negli affetti dalla guerra civile spagnola, comprendeva i tremendi motivi.
Tuttavia il ragionamento della Woolf era più articolato di certe sue
interpretazioni successive: perché dovremmo partecipare anche in modesta
misura a una guerra che fa parte di quelle ragioni e decisioni tutte
maschili dalle quali la società ci esclude? Ci hanno estraniato. E io,
scrive Viginia Woolf, dichiaro questa mia estraneità negando ogni gesto
che possa suonare un'accettazione. L'estraneità ha accompagnato anche
l'elaborazione più recente della differenza femminile, sia che sia stata
attribuita a una ontologia o un essenzialismo, sia che sia stata
riportata, in un registro non metafisico, alla diversità della
costituzione psichica fra i sessi prodotta da millenni di una divisione
sociale dei ruoli fondata sul principio di invidia e di potere che segna
tuttora i rapporti sociali. La donna, se appena si vede con occhi propri,
si scoprirebbe fondamentalmente estranea a questi principi di
conflittualità, così introiettati da segnare come un'ambivalenza tutti e
due i sessi e, temibile mimesi o eredità, gli stessi rapporti omosessuali.
E' un'estraneità tutta ovvia e innocente? Non credo. Essa induce o alla
comunità dello Scamandro di Christa Wolf, o a un mondo separato di
relazioni femminili che, anche ad ammettere che sia privo di devastanti
relazioni conflittuali perché si arresterebbe almeno alla soglia dei corpi
viventi, sembra a me, per dirla in modo provocatorio, simile al noto
«Fermate il mondo, voglio scendere», che non solo è fuori dalla
possibilità, ma implica una fondamentale innocenza delle donne del modo in
cui il mondo va come va, innocenza che siamo molto lontane dall'avere. E
soprattutto, per quanto riguarda il tema di cui si discute stasera, e dal
quale parte questa riflessione, arrestandosi al gesto finale omicida che
renderebbe la guerra non un evento ma una permanenza metastorica se non
proprio naturale, inducendo a considerare ogni guerra simile all'altra,
rendendo inspiegabili o poco interessanti le specificità che ne sono le
cause o gli sviluppi.
E' forse inevitabile che il pensiero
femminile insista sulle origini, quelle che oggi soltanto gli si
chiariscono, ma questo lo induce a una povertà di analisi e di conseguenza
mi si perdoni l'ingenerosità la capacità di intervenire contro e prima
delle guerre. Se una guerra è identica all'altra, riproduce eternamente lo
stesso gesto mortale, e introiettato dagli uomini, che potrebbero fare le
donne? Ma il «che posso fare» significa tirarsene fuori. Poche pensatrici
evitano questo scoglio e, fra quelle che conosco, Judith Butler e Rada
Ivekovic.
Mi ha colpito il libro della Bacchi e
della Richter perché di questo discute. Nella guerra sono sempre due
nazioni, più o meno simboliche, che si scontrano. Il noto discorso di
Samuel Huntington sull'impossibile convivenza di diverse civiltà è assai
semplificatorio. La guerra è, si voglia o no, uno scontro fra stati o per
la natura dello stato. Lo stato è l'irrigidirsi istituzionale della
nazione, o il suo identificarsi a una terra. E nazione e terra sono una
estensione dell'appartenenza alla famiglia, di un affratellarsi nel
territorio (la patria).
L'etnia ammesso che non sia un puro
prodotto culturale è l'estrinsecazione massima del legame di sangue. E
questo non è intrinseco al legame familiare e non è fatalmente congeniale
all'essenza femminile? Quale sangue è più stretto di quello della madre
col figlio, quali che siano i cromosomi, che lo sigleranno? Ma è un
pensare che, se riflette una base di realtà, la immobilizza in una verità
simbolica, che rende inevitabile lo scontro, perché nell'etnia non è una
scelta che parla, ma la fatalità di un cadere in un luogo e tempo
circoscritti del mondo. E dove c'è fatalità non c'è scelta, e dove non c'è
scelta si è liberati da ogni responsabilità. Come una volta ebbe ad
accennare Alessandra Bocchetti a proposito dei fatti di Cernobyl, non è
vero che le donne siano estranee o deresponsabilizzate dall'attuale
costituzione sociale, e quindi da scelte mortali come il nucleare, non
fosse che per la loro adesione, fin eccessiva e sostitutiva di una
identità incerta, ai modelli di consumo. Così il conflitto jugoslavo ha
visto le donne e questo mette in evidenza il lavoro della Bacchi e della
Richter attraversate sia dal rifiuto di quel massacro, del quale la più
imponente testimonianza sta nello scambio di lettere oltre gli assurdi
confini, sia dal parteciparvi, dilaniate nelle propria carne, del
prendervi parte come donne madri o mogli o figlie.
Tutti e due questi volti si sono visti e non solo in Bosnia. In questo la
guerra jugoslava non è stata una fra le guerre, ed è ben distante
dall'aggressione all'Iraq, quali che siano state le velleità della
Germania o del Vaticano nell'ingerenza fra Serbia e Croazia, e
dell'ideologia islamista in Bosnia Erzegovina. Non si è trattato di una
realtà residuale, ma dell'estrema modernità, nella quale le donne non sono
soltanto una parte soggetto. Quel che emerge è insieme il subire ed essere
costitutive di una crisi identitaria dell'oggi. E in questo gioca il
rifiuto ad andare nella sfera delle decisioni. Non solo vietata ma in gran
parte non cercata. Non inevitabile, non impossibile. Certo la traversata
di un universo anche oggi strutturato su forme pensate al maschile non è
semplice. Ma è un tema ormai maturo, e al quale i contributi del libro di
cui stiamo discutendo anche maschili portano un materiale che deve far
riflettere.
Questo articolo è apparso su
il manifesto del
4 ottobre 2005
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