Boxe: il loro sangue

di Daniela Pastor

 

- Vedrò sprizzare il sangue?- mi chiese un’amica, per la prima volta spettatrice di una riunione di boxe, gli assoluti italiani dilettanti- Non preoccuparti,  hanno il caschetto – risposi, ma il suo sguardo  perplesso mi rivelò che ci riferivamo a paure e scenari diversi.
Lei temeva che il reale la coinvolgesse troppo, senza più il filtro dello schermo televisivo e cinematografico. Io ero rassicurata perchè la testa dei pugili era protetta dai colpi più pericolosi.
Lei, che aveva scoperto la boxe con “la danza” di Alì in bianco e nero, chiude gli occhi  nelle ultime riprese della “mattanza” in technicolor dei vari Rocky,  alle ferite aperte e al volto tumefatto.
Io non riesco a dimenticare  Giovanna, la moglie di Angelo Jacopucci, morto per edema cerebrale nel 1978, tre giorni dopo il KO subìto dall’inglese Alan Minter.; la tenerezza con cui raccontò che  l’ultima volta  che lo vide pensò che anche da morto gli era rimasta la faccia pulita, solo con un po’ di nero sotto gli occhi.

Se la grande paura è l’emorragia invisibile,  la comparsa del sangue, però,  inquieta anche me,  perché segna il confine fra un prima (il mero combattimento) e un dopo (la ferita, l’emergere di ciò che è interno, nascosto). Il cinema ha lavorato molto su questa immagine, anzi, - lo spettacolo della  boxe- scrive Alessandro Cappabianca in“Boxare con l’ombra”(Genova, 2004) -  appare sempre quasi più violento (sangue, smorfie di dolore, dentiere che saltano, rumore sordo dei colpi) di quanto in genere sia un incontro vero, anche perché tende ad eliminare i cosiddetti tempi morti, a ridurre “le fasi di studio” ed enfatizzare i momenti topici del KO, magari attraverso il “ralenti “, il gioco sul sonoro ecc. Il primo piano, fulcro del fascino delle star, nel film pugilistico diventa maschera di sangue e di dolore, apparizione e annuncio di morte, più accentuati rispetto ad altri generi cinematografici: negli western e nei thriller ci si ammazza di più a distanza, e anche a confronto con i film horror quello di boxe gode di un maggior realismo. – Nel capitolo dedicato proprio al getto di sangue, il critico ammette che anche il film più brutto e convenzionale sulla boxe contiene sempre un barlume di “verità sul corpo”, perchè questo sport è una “pratica di verità”, un’esperienza estrema di metamorfosi, rivelatrice del rovescio dei corpi, della fragilità degli  involucri, del loro interno fluido, pronto a debordare all’esterno e  a sfigurarli.

Nel buio della sala cinematografica anch’io, come la mia amica, ho talora  rifiutato l’eccesso della  “trasfigurazione”: ricordo di avere appena intravisto, per esempio, la scena dell’ultimo incontro di  la Motta contro Sugar Ray Robinson, in Toro scatenato, che invece Cappabianca descrive analiticamente, con un Jack che resiste, aggrappato alle corde, e mentre cade un grande silenzio sul ring fattosi di colpo più grande, “Robinson ripreso come da una soggettiva dell’avversario, avanza, alza il pugno e in ralenti colpisce, con un gesto maestoso da dio vendicatore, e nel controcampo il sangue, pure in ralenti, sprizza dal volto di Jake…La macchina da presa scivola lungo le corde a inquadrare il sangue che ne cola.” (cit., pp.121-122)
Ma se dalla “finzione”posso  distogliere lo sguardo, non lo faccio mai quando ho di fronte due pugili in carne e ossa, sia in televisione sia a maggior ragione dal vivo. Ho troppo rispetto per il loro dolore, anche se so che non sempre nella boxe, come nella vita, il sangue e il dolore coincidono. Eppure,  con lo sguardo e la presenza , mi illudo di dimostrare loro che “li sento” perché questo sangue, questi colpi, rappresentano anche qualcosa di me.

Non so più da quale sopracciglio, da quale narice, abbia visto per la prima volta sgorgare rosso il sangue nella tv a colori, ma ricordo che per me fu come un rito di passaggio, di sofferenza in solitudine. La boxe in bianco e nero significava complicità con mio padre, alla sera tardi, seduti sul divano mentre le altre donne di famiglia erano andate a dormire. In tv si scontravano corpi chiari e scuri, tra il buio della sala e la luce del ring, e più della loro metamorfosi,  ricordo quella di mio padre, che fino ad allora seduto tranquillo a leggere un libro, tirava jab all’aria o dispensava  consigli come uno dei secondi .Si  ricordava anche di me, però, e provava a spiegarmi la tattica, i colpi, finché io lo interrompevo quando vedevo comparire sul volto dei pugili un rivolo scuro:- Ma è sangue, papà?- …E  la magia delle creme spalmate sul viso nella pausa,  mi rassicurava per l’atleta  ma mi lasciava perplessa, essendo lui un medico- Papà, ma perché non le usi anche tu per quando ci si fa male?-
A colori non ci sono più dubbi, è sangue.  

Non essendo mai salita sul ring non so che cosa provi il pugile quando lo sente affluire: provo ad affidarmi ancora al cinema, e  mi risuonano le parole di Frankie Dunn in Million Dollar Baby alla sua Maggie ferita :- Di quanti occhi hai bisogno per vincere quest’incontro?-  Lei, dura- Uno è abbastanza- E mi trovo pure a riflettere sulla definizione data da Eastwood sulla boxe come “uno sport innaturale, per attaccare si deve arretrare, per spostarsi a destra si deve premere sull’alluce sinistro, per spostarsi a sinistra si deve premere su quello destro.” A me sembra innaturale rispetto a come ci comportiamo fuori dal ring riguardo al nostro sangue: mi colpisce sempre la”naturalezza” con cui il pugile continua a combattere, a pensare ai suoi colpi, nonostante  i calzoncini bianchi siano striati, una patina rossa scorra sul suo corpo e “macchi”pure l’avversario. Sembra allenato  anche a questo, e seduto nella pausa  attende il make up da parte dei suoi assistenti, con tranquillità, almeno apparente. Da quando non c’è più mio padre a rincuorarmi, ho appreso da sola che sanguinare per il pugile e i suoi secondi è forse l’ultima delle  preoccupazioni, caso mai  si teme che l’incontro venga sospeso  e dato il K:O: tecnico all’avversario.

A Joyce Carol Oates (Sulla boxe, Roma, 1988) vengono in mente Rocky Marciano, il volto rosso di sangue ma l’espressione trionfante, o la fronte insanguinata di Marvin Hagler quando sta sconfiggendo Thomas Hearns (Quando vedo il mio sangue divento un toro- dichiarerà poi ), o Boom Boom Mancini contro Bramble, mentre cercava di tergersi con i guantoni il sangue che gli sgorgava  dai tagli profondi alle arcate sopracciliari,  suturate poi con ventisette punti. Si racconta che Floyd Patterson aiutò un giorno l’avversario a cercare il paradenti che gli era caduto sul tappeto- Non mi piace vedere il sangue-spiegò .-  Quando sanguino io è un’altra cosa, non mi disturba perché non mi vedo.-

E lo spettatore? Come reagisce a tutto questo, al sangue in particolare? Concordo con la Oates:” in nessun altro sport come per la boxe la connessione tra chi agisce e chi guarda è così intima , spesso così dolorosa, così irrisolta. “. Posso cercare, quindi,  di rispondere solo per me e devo confessare che  il sangue continua a farmi pensare, nel senso che mi ritrovo nelle riflessioni di Cappabianca, sulla boxe come possibile veicolo di metamorfosi, di rivelazione di ciò che sia  fluido, vischioso, e anche repellente. Con gli anni ho cominciato a chiedermi che cosa possa vedere rappresentato io di me stessa in tutto questo.. Parti di me.

Il colpo che  squarcia  e  offusca la vista mi ricorda quando la vita arriva a scoprire quello che Maupassant chiama “il punto doloroso” di ognuno di noi, la sofferenza  nascosta, il nervo scoperto che cerchiamo di proteggere perché sappiamo che se cominciamo a piangere non finiremo più, e allora pur feriti, ci medichiamo e proviamo a proseguire. La fuoriuscita del sangue può anche  suggerirmi l’ avere il coraggio di guardarci dentro e far emergere ciò di cui proviamo vergogna, la melma, l’oscurità (o preferite chiamarlo inconscio?)..

Ma una volta che ne abbiamo preso consapevolezza  sentiamo che non fa male, che possiamo controllarlo, e che anzi  può forse darci un’energia supplementare. Anche per questi significati, non riesco a capire le accuse che spesso si rivolgono alla boxe, come non riesco a concepirlo  uno spettacolo di mera potenza, o violenza: nella sua essenzialità a me appare piuttosto come un rito delle origini, innanzi tutto, un emergere di un corpo dal buio alla luce,  un uomo (o una donna) che sale su un altare ed è pronto al sacrificio, ma nello stesso tempo ci dice che con tutto ciò che ha dentro, sangue, viscere, cuore, mente, gambe, braccia, è disposto a lottare e a resistere..
E noi?

 

Dalla rivista Samurai di novembre, n. 11, 2008

1-12-08