«Le donne deluse dalle mancate riforme in Iran»
intervista a Shirin Ebadi
di Sabina Morandi


Teheran


Questo articolo è apparso su Liberazione del 21 febbraio 2004



Non è per il Nobel che l'accolgono con un applauso scrosciante. I volti noti del femminismo storico radunati, insieme alle nuove leve, alla Casa internazionale delle donne, affollano la sala conferenze soprattutto per rendere omaggio al lungo impegno dell'iraniana Shirin Ebadi nella difesa dei diritti delle donne e dei bambini. Così, nel suo tour organizzato dall'Università Roma 3, oltre alle visite al carcere minorile e alla Comunità di Sant'Egidio, non poteva mancare un pomeriggio nella storica sede di Via della Lungara, dove l'abbiamo incontrata.

La prima domanda sorge spontanea: oggi in Iran si vota. Perché lei è qui?

Intanto ci tengo a precisare che questo viaggio era stato organizzato da tempo ma che comunque, se fossi stata a Teheran, non mi sarei recata alle urne per un semplice motivo: tra le persone che sono state riconosciute idonee a candidarsi non c'è nessuno che conosco. Come posso affidare il mio voto a dei perfetti sconosciuti?


Non ha paura che se il partito dell'astensione dovesse vincere la reazione dell'esercito e dei Guardiani della rivoluzione potrebbe essere molto dura?

Dipende che cosa s'intende per paura. La paura personale fa parte della mia vita da molti anni ma non ho mai permesso che interferisse o condizionasse le mie decisioni. Dopo la rivoluzione, quando mi fu proibito di continuare a presiedere il tribunale e di esercitare come giudice perché donna, ho ricominciato da zero come avvocato. E' stata dura, durissima, e non soltanto perché una donna deve dimostrare di essere meglio di un uomo, ma perché spesso ho accettato di patrocinare delle cause che davano fastidio al governo. Per questo sono stata arrestata e più volte minacciata ma ho continuato per la mia strada, come chiunque abbia deciso di lottare per un cambiamento.


Qual è la condizione delle donne in Iran?

Pessima, come in tutta l'Asia. Le donne sono vittime e insieme portatrici, in quanto madri, di una cultura patriarcale tribale che non accetta la parità. Si tratta di una tradizione che può utilizzare delle spiegazioni scientifiche - come la presunta inferiorità biologica del genere femminile - o che può strumentalizzare la religione agli stessi fini, interpretandola in senso patriarcale. Una pratica che fa un pessimo servizio sia alle donne che all'Islam. In Iran, in particolare, c'è una situazione ancora più ambigua perché, se da un lato sopravvivono alcune norme medioevali come la lapidazione, dall'altro le donne sono istruite - rappresentando il 63 per cento della popolazione studentesca - e soffrono l'imposizione di un diritto di famiglia arcaico. Per questo l'associazionismo femminista è molto vivo e, per lo stesso motivo, il livello di conflittualità è molto alto.


Che fine hanno fatto le riforme promesse da Khatami?

Khatami è stato eletto grazie al voto consistente delle donne che si aspettavano grandi cambiamenti. Ma in sette anni i cambiamenti non sono arrivati. Per esempio, invece di presentare un progetto di legge contro la lapidazione sono state spedite delle circolari ai giudici, cosa che non li dispensa affatto dall'applicarla. E anche quando sono state approvate misure a mio avviso importanti, come la ratifica della Convenzione internazionale sui diritti delle donne che era passata al Parlamento, il Consiglio dei Guardiani l'ha impugnata, annullando tutto il difficile percorso che era stato fatto.


Come giudice cosa pensa della relazione fra potere giudiziario e potere politico nel suo paese?

La distinzione fra i due poteri è fondamentale, così come l'indipendenza della magistratura, e sappiamo bene che in molti paesi questa separazione non viene rispettata. Ma non sto parlando soltanto dell'Iran o del Medio Oriente. Da qualche tempo a questa parte si registrano episodi inquietanti anche negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei.


Cosa si sente di avere in comune con le donne che ha incontrato oggi?

Ogni volta che incontro delle donne nel mondo sento, al di là delle differenze, che facciamo parte di una stessa comunità. Se io parlo della fatica che ho dovuto fare per superare le discriminazioni e di quella fatta per continuare a lavorare allevando le mie due figlie, sento che tutte sanno di che cosa sto parlando. Quando racconto loro che ho scritto il mio primo libro nei ritagli di tempo che riuscivo a conquistarmi chiudendomi in bagno, so che a Roma come a Teheran, le donne mi capiscono e condividono il mio obiettivo: raggiungere una parità vera, effettiva. E' un programma estremamente rivoluzionario in paesi come il mio dove, come ho scritto una volta, una donna vale quanto l'occhio strabico di un uomo.



 
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