Siamo uscite dal silenzio

di Lea Melandri

 

Milano, 14 gennaio 2006


Oggi si terranno in molte città assemblee di donne (senza esclusione di presenze maschili) per decidere il senso e le parole da dare alla manifestazione che si terrà Milano il 14 gennaio 2006. Circa un anno fa Liberazione apriva un dibattito sul silenzio del femminismo e, dal breve e incerto andamento che ha avuto, nessuno si sarebbe immaginato l’inizio di "una nuova stagione così potente e emozionante", come si legge in una delle tante mail del sito www.usciamodalsilenzio.org

In realtà, non sono mai venuti meno né l’impegno né la produzione di pensiero né la spinta aggregativa. E’ mancato a lungo quel desiderio di accomunamento che impedisce alle associazioni, ai saperi, ai luoghi, di aprirsi a una progettualità collettiva allargata, capace di ottenere ascolto e cambiamenti nel contesto in cui viviamo. Più insidioso di ogni repressione manifesta è l’adattamento, la rinuncia sempre più impercettibile al dissenso, l’abitudine all’indignazione solitaria e il dubbio che non ci sia limite al peggio che ci può capitare.

Lo scambio veloce e fittissimo di proposte e commenti circolati in questi giorni, lasciano sperare che quello che si sta preparando possa non essere solo un evento, interessante e passeggero, ma la ripresa di rapporti continuativi tra le realtà diverse in cui le donne si trovano a vivere, la possibilità di riuscire da qui in avanti a operare insieme e separate, muovendosi tra gruppi ristretti e momenti assembleari, tra impegni specifici e prospettive più generali.

Se la cultura e la politica sembrano avviarsi a un progressivo arretramento, non è detto che si finisca necessariamente per esserne travolti. Sulle questioni che oggi spingono le donne a tornare sulle piazze, luoghi-simbolo della “cosa pubblica” riservata storicamente agli uomini, regredire significherebbe accontentarsi di semplificazioni facili: la difesa della Legge 194, che rischia di essere resa inapplicabile, e della laicità minacciata dalla ingerenza della Chiesa. Sarebbe davvero paradossale se oggi non riuscissimo a dare al problema dell’aborto la complessità di analisi con cui fu affrontato prima che fosse approvata la legge che lo rendeva "libero, gratuito e assistito", nel 1978. Nei documenti dei gruppi femministi che parteciparono alle manifestazioni degli anni ‘70, le gravidanze non desiderate sono messe in costante rapporto con la sessualità e la maternità, descritte come l’esperienza che più drammaticamente assomma le contraddizioni legate al rapporto uomo-donna. La “libertà”, associata alla scelta di abortire, non solo non ha niente di trionfalistico, ma diventa la "soluzione estrema e violenta" attraverso cui è costretta a passare, per una donna, la riappropriazione del proprio corpo.


"Aborto libero rappresenta la conquista di una libertà democratica, ma anche l’istituzionalizzazione di una violenza operata sul corpo della donna. Quando viene negata la vita stessa e la possibilità di scegliere e decidere, autonomamente, diviene vitale uscire dalla posizione di minorità e affermare la propria esistenza ad alta voce. Anziché accettare ed esaltare la potenzialità creatrice, le donne hanno dovuto negarla e staccarla da sé, in quanto ruolo-gabbia in cui erano relegate; hanno dovuto esprimere concretamente la loro capacità di essere altro, di avere un corpo al di là delle finalità che per esse erano state stabilite e decise. Quando abbiamo abortito lo abbiamo fatto sotto la spinta di una dolorosa necessità, costrette in una alternativa invivibile e disumana. Ma non è sul piano dell’aut-aut che vogliamo esercitare la nostra capacità di scelta" (L. Percovich, “La coscienza nel corpo”, Franco Angeli 2004).


Il controllo sui corpi e sui pensieri delle donne ha conosciuto sicuramente epoche più oscure di questa, ma le tecnologie riproduttive, permettendo di isolare le fasi iniziali del concepimento, è come se avessero infranto il mistero dell’indistinzione originaria tra la madre e il figlio, tolto l’ultimo baluardo di sacralità e di timore che ha impedito finora una dichiarata cancellazione della centralità materna nel processo generativo. Il “pianto” di credenti e non credenti sui bambini mai nati, di cui ci viene fornito un puntiglioso conteggio, evocativo delle stragi e dei genocidi della storia, è la misoginia che si mostra nella sua forma più scoperta e arrogante, cinicamente smemorata su che cosa abbia significato e significhi tuttora per le donne la maternità, voluta o non voluta, la trasformazione di una capacità biologica in destino, il confinamento dell’esistenza femminile nel ruolo che l’ha separata dalla vita pubblica, messa a rischio quotidiano di morte, votata al sacrificio di sé per il bene di chi l’ha sottomessa. I progressi della scienza e della medicina, l’incontrollata manipolazione dei corpi umani, diventa per la Chiesa, senza ombra di contraddittorietà, l’occasione per affermare priorità date come “naturali”.

Nel momento in cui l’intero ciclo della vita, dalla nascita alla morte, passa dalla sfera privata a quella pubblica, salta agli occhi una trasversalità che rende più incerto il confine tra laici e credenti, tra sinistra e destra, tra intellettuali e gente comune. La denatalità, l’indebolimento del legame famigliare, l’affermarsi di libertà e diritti legati alle differenti scelte sessuali e alle nuove forme di convivenza, inquietano un arco di forze politiche e religiose molto esteso, e la risposta, più o meno dichiaratamente conservatrice, è la stessa: facilitare alle donne il compito di madri, dissuaderle dal proposito di non fare figli o di abortirli. La diatriba che si accende ogni sera nei salotti televisivi, schierando su fronti opposti i partigiani accalorati della madre o del figlio, è il segno dell’infantilismo che perdura a dispetto dei veloci cambiamenti della civiltà; è l’idea che si possa arginare la fantasia di una potente generatrice sottraendole innanzi tempo il figlio che tiene confuso con le sue viscere. Riportare i due protagonisti dell’origine dentro la storia vorrebbe dire far fare un salto alla coscienza, operare una sorta di rivoluzione copernicana, rendere finalmente conto di quella evidenza invisibile che è il dominio maschile, l’appropriazione del corpo della donna e della vita che ha continuato a crescervi dentro, indipendentemente dal suo consenso, come conseguenza della sessualità fecondante dell’uomo.


Del fatto che si fanno pochi figli, con allusione indiretta all’aborto, si preoccupava giorni fa sul Corriere della sera (12.12.05) Francesco Alberoni. A mettere in pericolo legami di sangue, parentele, doveri necessari per la vita della comunità sono ovviamente le donne: perché vogliono lavorare, far carriera, o peggio ancora perché hanno cominciato ad anteporre il benessere e l’erotismo al desiderio di una discendenza. Di fronte al decadimento della stirpe occidentale cristiana, insidiata da individui che "vogliono aver relazione solo con altri individui scelti liberamente per amicizia, per interesse, per amore", stanno le comunità dei “diversi” che invece di radici, sangue e figli ne hanno in abbondanza. E’ facile associare alle preoccupazioni di Alberoni echi nostalgici di tempi in cui l’aborto era "reato contro la specie" e la “sudditanza” della donna all’uomo considerata "demograficamente indispensabile". Più difficile scalfire la composta, “ragionevole” impalcatura ideologica che ha caratterizzato la storia della sinistra rispetto alla maternità, vista come fatto sociale, e come tale sottoposta ai pubblici poteri. "Lo Stato - si legge sempre nei documenti degli anni ‘70 - si impegna a lasciare la donna libera di scegliere quando fare figli e ad aiutarla quando è madre; la donna d’altra parte si impegna ad educare bene i figli, a curarli, ad amarli e ad essere tranquilla. Le battaglie per gli asili nido, scuole a tempo pieno, anticoncezionali, sono famose".


Come si può pensare che sia cambiato qualcosa, quando si legge che D’Alema, in visita all’ospedale San Camillo, dichiara che la "promozione della maternità" sarà parte del programma del centrosinistra, se dovesse vincere le elezioni? Non si spiegano con la stessa rimozione del rapporto tra i sessi i bonus baby e i bonus mamma, proposti indifferentemente da destra e da sinistra, e volti a confermare la donna nel suo ruolo tradizionale, a placarla di fatiche e insoddisfazioni, a confortare le proprie coscienze per aver reso giustizia a un soggetto debole, svantaggiato?


Sono ancora voci disincantate del passato a portare una nota di lucido realismo: "Gestire una famiglia a due è già faticoso, però è possibile conquistarci degli spazi di autonomia. Con un figlio che non è autosufficiente non è possibile farlo. Per questo vogliamo polemizzare per un attimo con chi dice che le donne vogliono più soldi e più servizi per fare tutti i figli che vogliono. Noi vogliamo sì più soldi e più servizi perché sappiamo che in qualche modo i figli, magari pochi, ce li faranno fare. Ce li sanno far fare, usano un milione di pressioni, dal marito all’ideologia generale".
Agli uomini che verranno alla manifestazione non si chiede solidarietà, ma un atto di responsabilizzazione volto a riconoscere, come ha scritto su questo giornale Stefano Ciccone, che "la violenza contro le donne riguarda innanzitutto gli uomini".

 

 questo articolo è apparso su Liberazione del 18 dicembre 2005