Il silenzio, le parole. E ora piccoli progetti di donne.
A partire dalla quotidianità e dai problemi concreti
di Emanuela Borzacchiello*


Milano, 14 gennaio 2006


Parole. Iniziamo da alcune pronunciate senza un’esatta cognizione di causa. Ascoltato dalla Commissione Affari sociali della Camera nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla applicazione della 194, Carlo Casini (presidente del Movimento per la vita), ha dichiarato che "nell’80% dei casi non solo alla donna non viene prospettata alcuna alternativa all’aborto", ma non viene neppure "chiesto il motivo della sua intenzione". Spesso l’incontro con il personale del consultorio, ha aggiunto Casini, è vissuto come “una sollecitazione all’aborto”.

Parole, giunte chissà da dove, chissà perché. Ai cattolici Cav (Centri di aiuto alla vita) sono giunte notizie di bambini abortiti, ma vivi, e quindi lasciati morire sul tavolo operatorio.

Parole, il cui senso si è rafforzato. Prima del 14 gennaio, prima della manifestazione milanese, c’è chi ha definito i cortei noiosi, roba maschile perché parte della storia del movimento operaio. Ci sono modalità di espressione che vengono da lontano, ma ci sono valige che è bene portarsi nel proprio tempo, se contengono esperienze democratiche, ricche e condivisibili. Ma è anche vero che da lì bisogna partire per inventare anche altro.

Parole che costruiscono domande. Si sta abbattendo sulla riva la seconda ondata del femminismo? chi sono le nuove protagoniste? cosa vogliono? qual è l’identikit della neo-femminista?
Parlare di “seconda ondata” implica il riconoscere una sorta di continuità con il movimento degli anni Settanta. Pochissime sono le donne giovani che hanno sfilato a Milano e si identificano con il femminismo, riconoscendo una sorta di maternità simbolica con coloro che diedero vita e animarono quello stesso movimento. Molte non si definiscono femministe, né si riconoscono protagoniste di qualcosa, se non della propria identità. Sono scese in piazza, hanno dato vita ad un corteo animato da una molteplicità di pensieri e per la prima volta hanno avuto la percezione che sia indispensabile unire rivendicazioni specifiche di genere alla difesa di diritti civili.

Il femminismo ha prodotto una fecondazione sotterranea dei linguaggi e dell’agire politico, ci ha trasmesso “un’eredità senza testamento”, così come la definiva la rivista latinoamericana Fempress, quando nel 2000 pubblicò un’inchiesta sui femminismi di fine secolo. L’inchiesta fu realizzata partendo dal presupposto che il femminismo del Novecento avesse trasmesso un’eredità che chiunque può prendere. Un’eredità che non comprende solo idee femministe ma anche modi di essere, pratiche di vita, priorità politiche.

In molte, oggi, condividiamo la paura di vedere eclissarsi un movimento non organizzato, perché è difficile riunirsi, perché è difficile trovare un linguaggio diverso che non tradisca quello che vuoi dire, perché è difficile dare identità ad un progetto. Ma è necessario. Ed è così che all’indomani della manifestazione è iniziato il silenzio di molte che stanno progettando a partire dalla propria quotidianità - così come scriveva Eleonora Cirant su queste pagine.

Piccoli progetti, senza troppe pretese, a partire dai luoghi che ci circondano, dalle donne che si hanno intorno, da problematiche vissute. Magari all’inizio si incespica, si inciampa, non si sa come dirle le cose, si pecca di ingenuità. Ma va bene lo stesso, perché ora si sta crescendo. Si sta cercando di non disperdersi e di non perdere delle competenze che vanno riconosciute e valorizzate, di dare concretezza ad un soggetto collettivo, ad una assemblea permanente, come ripeteva Lea Melandri negli incontri di “Usciamo dal silenzio”. Un silenzio, questa volta, carico di suoni.

La difesa della 194 ha portato già ad un primo, reale risultato. Ha riempito di significati e di contenuti questa stessa difesa. Il significato della necessità politica di voltare pagina, perché non è più possibile ammiccare al Vaticano da un lato e cavarsela con generiche promesse da marinaio a un’Italia laica che non vuole giocarsi, per una manciata di voti, diritti civili e pratiche democratiche.

Si è affermato che “autodeterminazione” della gravidanza diviene una parola vecchia, da riconsegnare al passato se non la si riempie di nuovi contenuti. Un lavoro precario, un contratto a termine, ti priva di quella autodeterminazione. Una donna straniera, una manager promettente o una free-lance non ha la possibilità di scegliere se diventare madre, perché con quel figlio si farà fuori da sola.

Forse, se proprio vogliamo avventurarci in un confronto fra le manifestazioni degli anni Settanta e quello che nasce ora, possiamo farlo sul piano delle sensazioni. Se negli anni Settanta si era in una manifestazione, si guardava oltre frontiera e si vedeva che in Cile spadroneggiava Pinochet, un po’ di paura te la portavi addosso. Oggi possiamo guardare all’America Latina e vedere proprio in Cile la prima donna Presidente, Michelle Bachelet, e un po’ di speranza possiamo preservarla dentro.


*acasadilaria@yahoo.it

 

questo articolo è apparso su Liberazione del 26 gennaio 2006