Un immenso pachiderma che si scrolla i parassiti
di Rosetta Stella

Perché non ci andrò, nonostante non provi nessuna ostilità nei confronti della manifestazione di Milano …e anzi mi auguro che sia enorme, come un immenso e pacifico pachiderma che, con una sonora scrollata, si liberi d’un colpo di tutti i fastidiosi parassiti che lo tormentano da troppo tempo ormai. Enorme e semplice, come lo è un urlo di insofferenza, senza cappello di partiti o sindacati, senza bandiere e senza slogan quasi. Solo un BASTA, cadenzato, ripetuto, insistito e forte, che percorra tutto il corteo e tutta Milano e tutto lo Stivale. Un gigantesco basta che esprima solo concetti semplici: sessualità libera, rispetto per la capacità d’amare delle donne, fiducia incondizionata nella loro capacità d’intendere e di volere… la vita. Una sfida insomma.

Per i distinguo poi, che pure sacrosantemente ci caratterizzano ormai senza farne un dramma, ci saranno tantissimi modi per comunicarceli e sappiamo usarli tutti, dai siti alle e-mail, agli articoli sui giornali, tanti da invaderli tutti, fino alle vivissime assemblee dove, in presenza dei nostri corpi, circola l’eros necessario perché ci si scaldi e magari ci si accapigli.

Perché non ci andrò allora? Perché il pachiderma che è in me soffre di un terribile orrore per la parola diritto, soprattutto quando viene abbinato all’aborto.

So che ci siamo sgolate, parecchie di noi e per molti anni, nel ripetere fino alla nausea che non di diritto si tratta, ma questa parola scappa fuori ogni volta, come un demone maligno, ad ammalare tutti i nostri basta.

E ora scappa fuori dietro la rivendicazione della laicità dello Stato, cappello magico sotto cui sembra che possano stare insieme Milano e Roma il 14 gennaio e anzi sembra che addirittura possano rinvigorirsi l’una e l’altra piazza, vicendevolmente. A me pare invece il contrario, che si ci si trovi di fronte ad un ennesimo trucco del maligno che potrebbe inquinarle entrambe.

Già Stefania Giorgi ha accennato sul “Manifesto” di mercoledì che la questione dell’aborto ha poco a che vedere con la laicità dello Stato: è questione più “sopra” o più “sotto” se vogliamo, come peraltro dimostra di esserlo il sesso femminile ogni volta che lo si vuole incardinare per forza nelle grandi e piccole questioni della modernità. Esso, il sesso delle donne, sfugge ai cartelli d’inquadramento, anche ai più verosimili. Lo dimostra per esempio il fatto che il Coordinamento Lesbico Romano, sorprendentemente, non aderisce alla manifestazione sui Pacs (lo ha annunciato nel corso dell’assemblea dell’8 gennaio alla Casa Internazionale delle donne di Roma, Lucilla), tutta limpidamente dentro la logica di un diritto ancora disatteso nel nostro Paese e perciò rivendicato se si vuole perfezionare la laicità di uno Stato moderno, mentre aderisce invece a quella di Milano, dove evidentemente la questione annegherà in una più felice confusione e perciò paradossalmente sarà più facile aderire al proprio essere prima di tutto donne e cioè, appunto, non immediatamente inquadrabili nei progetti di risanamento della zoppicante laicità italiana.

Ma allora di nuovo, io perché no?

Perché mi sento intrappolata. Sì, ho paura che l’onda del verosimile soverchi, in me stessa, la verità del mio bisogno di ruminare in santa pace tutta la contraddizione che l’aborto, persino nel suo essere per me soltanto una parola, - non sono mai incappata nella necessità di doverlo fare - mi costringe a contemplare. Sin dal momento della mia prima mestruazione, dal momento cioè che è cominciata per il mio corpo di donna, l’avventura del rischio vertiginoso, bellissimo e spiazzante di restare incinta.

E’ vero, c’è un fastidioso ronzio di mosche intorno a questa mia domanda, tutta femminile, di essere lasciata in pace, quando devo fare i conti col coraggio o anche con le paure, mie e delle mie simili, nel momento in cui l’imprevisto di una gravidanza - perché sempre imprevedibile è in qualche modo, persino quando si dice che è altamente programmata - fa irruzione nell’esistenza. Un ronzio di mosche che è sì di un’infinita teoria di uomini, in toga o in tonaca, che vorrebbero metterci becco, non ultimi gli inconsolabili padri esautorati alla Risè, ma è anche quello di alcune donne, che, per sprovveduta leggerezza a volte, o per calcolo d’emancipazione nei luoghi della politica che sfocia troppo facilmente nelle piazze, confondono parole e storie, - magari in buona fede, non lo metto assolutamente in dubbio, - tra loro irrimediabilmente distanti.

La 194 è un capolavoro di quadratura del cerchio della politica tradizionale in questo Paese, dominato da clericalismo e anticlericalismo, tra i più strumentalmente generici che esistano a questo mondo, e perciò è inattaccabile, ferme restando le logiche di questa politica. Nessuno infatti si sogna di azzardare modifiche, anzi tutti si affrettano, a sinistra come a destra, a dichiararne la intoccabilità, per lo meno sostanziale. Persino Storace, Casini. A suo modo, a ben guardare, persino Ruini.

Questo piccolo argomento è un punto di forza. Non siamo deboli su questo punto. Dire che si scende in piazza per difendere la 194 è inappropriato e ci mette in una posizione di subalternità a scenari già scartati dagli stessi attaccanti. Tanto è vero che anche una donna, che io conosco sempre fermissima nella sua contrarietà all’aborto, in qualunque modo esso venga giustificato, Lucetta Scaraffia, recensendo sul “Corriere della Sera” del 10 gennaio scorso, la ponderosa inchiesta del sociologo Luc Boltanski sulle conseguenze giuridiche dell’interruzione di gravidanza, conclude così il suo articolo: «… dovremmo quindi ridiscutere la legalizzazione dell’aborto, ma tutti - a cominciare da chi scrive - siamo convinti che sia meglio non rimetterla in discussione».

Scendere poi con l’idea superficiale che si debba difendere un diritto acquisito ad abortire è semplicemente offensivo nei confronti dell’enorme tradizione di pensiero femminile ormai accumulato su questa insanabile contraddizione.

Allora, diciamocelo pure senza enfasi e magari in sordina: è diffusa abbastanza la consapevolezza delle ambiguità che si porta dietro una manifestazione sull’aborto. Essa è dimostrazione di forza e di debolezza insieme. E perciò viviamola con la dovuta distanza, sia che si vada a Milano domani, sia che no.

Essa non è, né può essere una scadenza definitiva, ma una tappa, importante, questo sì, che ci aiuti a continuare il lavoro del pensiero almeno fino a quando esisteranno donne, fosse pure una sola, la cui vita debba essere segnata dallo scegliere se essere o non essere madre.


questo articolo è apparso su Liberazione del 13 gennaio 2006