Il saggio Strada interrotta (scritto per il convegno Il centro ovunque organizzato dall'Associazione Culturale Nemus e promosso dal Comune di Venezia) riguarda l'agire e il reagire rispetto alla società di massa (e alla sua forma terminale la globalizzazione). Riteniamo sia utile alla preparazione del corso condotto da Donatella Bassanesi: Hanna Arendt - Pensare il presente, che si terrà a Cernusco sul Naviglio - Libera Università delle Donne - a partire da Febbraio.

Strada interrotta

di Donatella Bassanesi

L'arte di smarrirsi

Il pensiero, situandosi in un non-luogo parallelo al tempo del susseguirsi degli oggetti, appartiene a un vuoto dove un vento, e-vento, soffia attraverso gli interstizi suscitando il dimenticato, è un vuoto che costringe il non apparente ad apparire, che si ricrea nelle parole dei racconti e nei pensieri che li attraversano. Così il pensiero interviene osservando il tempo che è presente, è spezzato, sta come frammento tra passato e futuro. Il presente è dunque la strada interrotta, e il pensiero interviene nell'interruzione, in un certo senso ne è parte.
Sapere che la strada è interrotta è incominciare a guardarla nel suo carattere frammentario. Perché "l'accadere (…) sarà sempre (…) come un testo scritto con inchiostro simpatico", e la storia "costituisce, per così dire, le citazioni di questo testo e sono solo esse che si presentano in modo leggibile a ciascuno" (W. Benjamin, I "Passages" di Parigi, in: Opere complete, vol. IX, Torino, Einaudi, 2000, pp. 534-535).

Il pensiero, nel riconoscere il presente come crisi, si colloca ai limiti della strada interrotta, oscuro interroga il presente (l'altro, sé altro). Indica la necessità addentrarsi in "spazi di disordine o di non-controllo, in cui proliferano varietà, variabilità e indeterminazione" (E. Rullani, Economia del rischio e seconda modernità, in: Il rischio e l'anima dell'Occidente, cit. p.187). Osservare. "Il mendicante ai margini della strada non è nessuno; è senza nome, senza storia e senza viso. È lo sconosciuto per eccellenza. E si può veramente parlare solo con lo sconosciuto per cui non esiste più ormai rischio della confidenza, perché non è prevedibile e non si può rinviare. Se lo sconosciuto non è identificabile, anche chi parla perde lentamente la propria identità, il proprio nome, il proprio viso, quello che l'altro non conosce e non ha bisogno di conoscere. Ciò che resta è soltanto la storia, il puro racconto, quello che si sa accaduto" (H. Arendt, Rahel Varnhagen. Lebensgeschichte einer deutschen Judin aus der Romantik, R. Piper & Co. Verlag, Munchen, 1959. Tr. it. Rahel Varnhagen. Storia di una ebrea, Mondadori, Milano, 1988, pp. 154-155).

I luoghi che appartengono all'ombra quando escono dall'oscurità, vengono alla luce, nascono. In essi il tempo indagando se stesso, attraversandosi, svuotandosi, mostra un'impronta. Perciò si può pensare che sono luoghi che si traggono dall'origine, dalla sofferenza del nascere (dell'iniziare) che è il peccato originario o meglio il dolore dell'origine che è la sofferenza del nascere, per entrare in quello 'spezzone' che è il tempo-istante-presente (nel quale è implicato il divenire, l'essere viventi e mortali).
Sono luoghi che si intuiscono, si prestano ad essere immaginati. Perché "l'immaginazione si concentra sulla particolare oscurità del cuore umano e sulla particolare opacità che circonda tutto ciò che esiste" (H. Arendt, Essays in Understanding 1930-1954, Harcourt Brace & Company, 1994, tr. it. Archivio Arendt, 2. 1950-54, Milano, Feltrinelli, 2003 p. 97).
Sono immagini che appartengono allo strato addormentato, provengono dal vuoto, "balenano fugacemente dal flusso delle cose per poi scomparire nuovamente" (W. Benjamin, Scritti, 1932-1933, Torino, Einaudi, vol. V, 2003, p. 442). E sono passaggi, rivelano affinità, permettono di entrare nel movimento dell'esperienza, si trovano per una residuale facoltà mimetica che permette di cogliere similitudini nelle apparizioni di un momento (W. Benjamin).
Per essere trovati è necessaria l'arte di smarrirsi. "Smarrirsi in una città - proprio come si fa in una foresta -, ciò abbisogna di addestramento". "Ho appreso a Parigi l'arte di smarrirmi; così si è esaudito il sogno le cui prime tracce furono i labirinti sulle carte assorbenti dei miei quaderni di scuola. È innegabile, inoltre, che io sono pervenuto al suo centro, nella stanza del Minotauro" (ibid. p. 249).
Percorrere distanze, attraversare il non-tempo usando della memoria. Che "non è uno strumento, bensì il medium stesso, per la ricognizione del passato. (…) chi cerca di accostarsi al proprio passato sepolto deve comportarsi come un individuo che scava. Soprattutto non deve temere di tornare continuamente a uno stesso identico stato di cose - di disperderlo come si disperde la terra, di rivoltarlo come si rivolta la terra stessa. Giacché gli 'strati di cose' non sono altro che strati che consegnano, solo dopo la ricognizione più accurata, ciò che giustifica tale scavo". Terra che "è il medium in cui sono sepolte le città antiche", è il luogo che conserva. Perciò bisogna "procedere secondo un progetto", è indispensabile "il colpo di vanga che procede con prudenza e a tentoni nell'oscuro regno della terra. E s'inganna sui lati migliori chi fa solo l'inventario degli oggetti ritrovati e non sa individuare nel terreno attuale esattamente il luogo in cui era conservato l'antico (…). Così i ricordi veri devono non tanto procedere riferendo, quanto piuttosto designare esattamente il luogo nel quale colui che ricerca si è impadronito di loro" (W. Benjamin, Scritti, 1932-1933, Torino, Einaudi, vol. V, 2003, p. 112).
Quando ci si inoltra, partendo dal concreto del singolo fenomeno, il pensiero nella necessità di interrogare il presente entra in una condizione asistematica, al confine con il caotico. La domanda origina nuovi pensieri nella lingua-pensiero che nella parola cercano il fatto ascoltato e salvato dal sistema nel quale è posto. Ritroviamo il pensiero come frammento, che mostra senso e il tempo-frammento transitorio e mortale. Mentre il fenomeno (un singolo fatto raccontato) diventa unico (cioè autentico), strappato al suo tempo diventa originario, permette di riconoscere l'originarietà dei fenomeni, il miracolo dell'evento.
Per le variazioni della memoria le parole diventano movimento, tempo. Così il racconto sta nel tempo (che è presente), re-agisce al tempo, lo rigenera, inverte la sua direzione.
La strada proietta un'ombra che abitualmente passa inosservata. E tra le macerie ci sono spazi invisibili, si vedono nell'ombra incrinature, interstizi, passaggi come vuoti: vuoti non-luoghi imprigionati dal fondo che stanno al di là degli ordinamenti, ai limiti del mondo, dove l'ombra si stacca dal corpo e mostrandosi come pura ombra affronta l'oscurità. È una possibilità ma rimane intransitabile (puramente pensabile), per la pressione e la sovrabbondanza degli oggetti-macerie che ostruiscono il passaggio e che si rivelano proprio qui nella loro funzionalità di ostacoli al pensiero, di negazione al commun sense, che è il senso dei sensi.
Alcuni luoghi rassicurano. "Nel buio delle cassapanche, come nel chiuso delle dispense, restavano gli utensili meno splendenti che non sarebbero serviti ad alcuna messinscena del benessere né ad alcuna trascurata abilità da far valere" (Lea Ritter Santini, Introduzione a H. Arendt, Rahel Varnhagen, Il Saggiatore, Milano, 1988, p. X). Altri danno un senso di oppressione, lo "stesso senso di oppressione con cui si entra in una soffitta dopo anni. Può anche esservi conservato qualcosa di prezioso, ma nessuno sa più da che parte cercare" (W. Benjamin, Scritti, 1932-33, Torino, Einaudi, 2003, p. 259).
Possono essere case. "Qui nelle case sul retro e nelle soffitte, si sono stabilite, custodi del passato, molte puttane, a causa delle quali, all'epoca dell'inflazione, la zona aveva conquistato la fama di essere la scena delle più abiette forme di svago. Va da sé che non era dato sapere a quali piani i salotti di questi poveretti e i grembi delle loro figlie si aprissero ai ricchi americani" (ibid. p. 252).
Possono essere strade, che sono di chi le percorre con attenzione, ne conosce i particolari, ci vive stabilmente. Attraversate camminando, espongono agli elementi, rendono in un certa misura ridicole le discipline delle "istituzioni umane che stabiliscono e mantengono l'ineguaglianza", evidenziano "l'enorme incongruenza tra natura creata, cielo e terra e uomini, davanti alla cui grandiosità tutto diventa perfettamente uguale, e le differenze gerarchiche costruite dalla società, attraverso cui l'uomo mette in discussione la forza della natura (…), questa incongruenza ha qualcosa di comico nella sua evidenza. Improvvisamente tutto si capovolge" e così ridicoli appaiono "coloro che vivono in rigidi ordini gerarchici, poiché hanno evidentemente scambiato ciò che la natura aveva dato loro generosamente con gli idoli dell'utile sociale" (H. Arendt, Il futuro alle spalle, Il Mulino, Bologna, 1981, p. 66). Strade che "sono la dimora della collettività", che "è un essere perennemente desto, perennemente in movimento, che tra i muri dei palazzi vive, sperimenta, conosce e inventa come gli individui al riparo delle quattro mura di casa loro". (W. Benjamin, Scritti, 1932-1933, cit. p. 474).
A Mosca negli anni '30 "gli angoli delle strade di alcuni quartieri sono ricoperti di mucchi di stracci: sono i giacigli del gigantesco lazzaretto 'Mosca', disseminati lì a cielo scoperto" (W. Benjamin, Immagini di città, (1925-30), Einaudi, Torino, 1971, p. 18). Una città stracolma, dove "ci sono almeno tre quattro punti in cui non è possibile andare avanti senza quella particolare strategia fatta di spintoni e mosse serpentine", un "moto passivo a zig zag a cui l'angustia dei marciapiedi ha abituato", una città esuberante e "gonfia non solo di gente" (ibid. p. 9). Dove "i venditori si rivolgono ai passanti piuttosto con perorazioni contenute se non addirittura sommesse, in cui resta qualcosa dell'umiltà del postulante" (ibid. p. 13). Dove i mendicanti hanno "lo stesso atteggiamento del mendico per il quale il San Martino delle antiche pitture divide in due il suo mantello con la spada. Sta lì inginocchiato con le due braccia protese in avanti" (ibid. p. 18).
Mentre a Berlino "gli uomini e i gruppi che si muovono nelle sue strade hanno attorno a sé la solitudine", e "sembrano una pista appena ripulita, su cui una muta di concorrenti si affanna in una squallida 'corsa dei sei giorni'" (ibid. pp. 8, 9).


Milano, mercoledì 20 luglio 2005, ore dieci, c'è sole, la temperatura è di 28°. Inizio le osservazioni.

Di Milano la parte più oscura, la sua ombra sono tracce di un'intricata rete di navigazione per il trasporto-merci. Sono i Navigli, che oggi scorrono sotto strade.
Il sistema Navigli serviva a trasportare da ovest la ghiaia (gli ultimi trasporti sono stati dopo la guerra, per la ricostruzione della città bombardata), da est il legname. Avendo perso i caratteri funzionali di un sistema, essendo scomparse le finalità per le quali è stato fatto, rimasto vago il ricordo del suo funzionamento, e imprecise anche le parti coperte, è piuttosto un non-luogo. Non si può dire che sia dimenticato, anzi. Ma come strada d'acqua è deserto.
Rimangono segnali nei toponimi, e 'spezzoni'.
Da est, e dall'Adda, proviene il Naviglio Martesana che attraversa gran parte della città, ma quasi tutto coperto. È stata proprio (o prevalentemente) la sua copertura a far perdere a Milano la caratteristica di città d'acqua. Le sue acque si mescolano a quelle degli altri Navigli alla Darsena (il Porto del sistema-navigli, di quel 'mare' interno nel quale approdavano le barche), ma il punto di confluenza non si vede.
Seguendo la parte ancora scoperta (che collega quella che era la campagna a est della città alla grande strada che serviva a collegare Sesto S.Giovanni, Greco-Pirelli, le grandi fabbriche, a Milano), avvicinandosi alla Stazione centrale, si passa sotto un sistema di arcate che reggono i binari della ferrovia. Il piano avvenieristico di intrecciare due piani di strade, la strada come nodo centrale qui si vede ai primordi, come un a parte funzionale. Adesso, sotto i treni che passano incrociandosi a più livelli, ci sono orti, terreni abbandonati, capannoni, e nella parte più scura di una delle gallerie, vicino un albero di fico, ci sono materassi arrotolati, dove qualcuno probabilmente la notte viene a dormire.
Nel punto in cui il Naviglio svolta avvicinandosi alla città, dove c'era la sua 'conca', il 'salto' e la 'porta' della chiusa che permetteva alle imbarcazioni di superare il dislivello, dove rimangono segni di una cascina, di un' osteria e dove si dice ci fosse un mulino, c'è una grata di ferro e il Naviglio sparisce come assorbito dalla terra. Contro questa grata si ferma sempre qualcosa: sono stati ripescati carrelli della spesa, pezzi di biciclette, di motorini, qualche pistola.
A volte arrivano corpi di ammazzati, o annegati. Per questo i fantasmi degli assassinati e dei suicidi vagano sotto la città, tra i Navigli coperti (Ligeti).
Vicino a un ponticello che si chiama ponte vecchio c'è una piazzetta che in parte è usata come posteggio, e che è attraversata da due strade, di cui una con doppia curva. Pur avendo un monumento (sul quale è stata impressa la scritta 'ecco la guerra') che dovrebbe segnalarla come piazza, per indeterminatezza ha piuttosto le caratteristiche di un incrocio. Non abbastanza per essere una piazza e troppo per essere una strada, si direbbe incongrua, l'incursione aerea del 20 ottobre 1944 allunga la sua ombra, la piazza è il segno della bomba.
Il mercoledì mattina c'è mercato, una città che compare e scompare, una città nella città, stracolma. Questo è uno di quei mercati settimanali che si consumano in poche ore, la loro transitorietà, la provenienza ignota, li fa centri provvisori, e rende impossibile l'accostamento e la somiglianza con gli imponenti centri commerciali.
Oggi qualche banchetto ha 'occasioni'. I compratori si mostrano propriamente consumatori, dotati di quella natura di cacciatori che non contrasta ma si conferma nell'acutezza degli sguardi, nell'attenzione ai richiami, nella diffidenza verso le merci messe troppo accuratamente in mostra. In questa occasione si strappano di mano le cose, si direbbero famelici.
Mostrano quella ossessione di abbondanza che forse è ricerca di gratificazioni o di sicurezze. È la dominante consumatrice - per la quale sono stati sacrificati gli ideali dell'homo faber ("permanenza, stabilità e durevolezza") a favore di un "incessante bisogno di una sempre più rapida sostituzione delle cose del mondo che ci circonda" che è come "divorare, le nostre case e i mobili e le automobili come se fossero 'buone cose' della natura che si guastano se non sono trascinate rapidamente nel ciclo interminabile del ricambio dell'uomo con la natura" (H. Arendt, The Human Condition, Chicago, 1958, tr. it. Vita activa, Bompiani, Milano, 1964, 2001, pp. 95, 90), finché non ne rimane nulla (un processo di impossessamento e, in un certo senso, di metabolizzazione) - che caratterizza la società di massa, e che ha incorporato tutti gli strati della popolazione, tutti i momenti dell'essere.
Lungo il lato destro del mercato si vendono abiti, scarpe, oggetti per la casa. Lungo il lato sinistro solitamente ci sono i banchi della frutta e della verdura, quello del pesce e quello delle focacce, ma oggi ne mancano molti e allora se ne sono inseriti dei nuovi che vendono le cose più diverse.
Adesso, che è agosto e pochi sono rimasti in città, ci sono molti più ambulanti poveri (gli immigrati), quelli che evitano di esibirsi. Però, tra quelli che vendono gli 'odori' (il basilico, il rosmarino…), da qualche tempo ce ne sono che si fanno coraggio, cercano di mettersi meno d'angolo, provano a farsi notare, si direbbe si emancipino da quello stato vicino alla mendicità.
All'angolo, a una estremità del mercato, come di fianco alla 'porta' (di una città che sta nella città) seduto su una cassetta bassa rovesciata sta seminascosto un uomo vestito di scuro, mostra un cartello che inizia "ho un bambino piccolo sono disoccupato…". Saluta. Ha una specie di particolare confidenza con la terra, anche se meno 'profonda' di quelle donne dall'età incerta, dalle sottane scure e dal fazzoletto calato sulla fronte che, accoccolate, della terra quasi ne fanno parte, si direbbe ne fanno uscire la voce e una mano, ascoltano lo strato addormentato, la radice che affonda, è stretta ma è nutrita dalla terra, e cerca tormentosamente di sprofondare, e perciò simmetricamente di farsi rami e di alzarsi.


Milano, lunedì 22 agosto 2005, ore 11,30, il tempo è incerto, la temperatura è di 23°. Continuo le osservazioni.

Del Naviglio Martesana, che si forma dall'Adda molto prima di Milano, nel tratto (scoperto) che scorre 'in città', si può percorrere soltanto una riva, mentre sull'altra ci sono orti, parti incolte. Mentre una fila di case segue, a volte come una barriera.
Quasi tutti gli orti sono su due terrazzi e hanno scalette che scendono fino all'acqua, per facilitare l'annaffiatura. Generalmente davanti, quasi in acqua, ci sono i fiori (molte le ortensie, e le rose); e gli alberi: quelli spontanei (le acacie, le canne di bambù, molti i fichi), e alcuni evidentemente piantati (ho riconosciuto un prugno e un ulivo). Sui terrazzamenti più in alto c'è qualche pianta di vite: sotto una di queste - che fa un pergolato ed è protetta (per gli uccelli? per il vento?) da una rete azzurra - oggi qualcuno sta chiacchierando. Adesso ci sono i pomodori maturi sorretti da quattro canne incrociate, le piante di zucchine e di zucca, le piante delle verze che stanno crescendo.
In questo tratto, in acqua ci sono anatre e gallinelle d'acqua, i piccoli sono oramai quasi adulti e si muovono abbastanza liberamente. Ci si ferma a guardare. Ogni tanto questa popolazione diminuisce e aleggia il sospetto che 'qualcuno' (gli invisibili poveri?) se li mangino.
Vicino alla stazione della metropolitana scompaiono gli orti. Una vecchia cascina a lungo abbandonata è stata trasformata in alloggi di lusso e ha un elegante giardino.
Di fronte, nella riva di qua, una casa 'di ringhiera', tutta dipinta a nuovo. Al piano terra si apre uno studio di architettura, e c'è una 'taverna greca'. Ma entrando, davanti al portone, con fiori e una corona di alloro, una lapide ricorda i venti nomi dei morti sotto quello stesso bombardamento che nel 20-10-1944 ha ucciso, un po' più in là, i bambini della scuola, e si vedono i cortili interni con gli intonaci bianchi sporchi, i panni stesi, persone lungo i ballatoi che chiacchierano.
Vicino alla fermata della metropolitana, oltre un cancello che porta la scritta 'Circolo Familiare di Unità proletaria', dove una bacheca ha sempre la copia del giorno dell'Unità, c'è un giardinetto: 'il boschetto' (con un baracchino per le bibite, dei tavolini dove si chiacchiera e si gioca a carte), denomina tutto il posto, fino all'edificio grigio in fondo dove a una finestra sventola sempre, verso il Naviglio, la bandiera dei Ds.
Oggi sotto la galleria, o meglio sulla banchina che costeggia l'acqua e passa sotto una delle arcate che sopraelevano i binari della linea ferroviaria, dove ho già visto dei materassi, un uomo li sbatte e sembra mettere ordine fra le sue cose. Per questi gesti il luogo, che è buio e rimane quasi invisibile, potremmo dire alluda a una casa. Di questa 'casa' non c'è entrata. Le due estremità delle inferriate apparentemente sigillate. Ma davanti a una c'è un carrello del supermercato che nasconde una sbarra mancante. Il carrello dunque, che forse è il mezzo per trasportare le cose, è l'artefice dell'inganno.
L'uomo è intento alle sue cose e non guarda al di qua. Potrebbe avere un'età tra i trenta e i quarant'anni, ma forse anche di meno, è serio, forse cupo, i suoi gesti sono posati, è bruno, ha una barbetta curata, potrebbe essere straniero, forse turco o forse kurdo. Quelli che passano fanno 'finta di niente'. Noi persone che non si guardano attraverso le sbarre, non guardano oltre le gabbie nelle quali ci sentiamo protetti, che sono le nostre trappole. Ciascuno liberamente vede la prigione dell'altro. Ma all'orizzonte non si vede 'casa', luogo protetto, degli affetti sicuri e duraturi. Imprigionati in gabbie che sono le nostre trappole, esposti al pubblico che siamo noi stessi, uno per l'altro ci esibiamo in mostra permanente. E, ritirandoci all'interno della gabbia, ancora meno si vede strada, i segni di un passaggio.


Milano, giovedì 25 agosto, ore 10,10, ci sono 24°, il tempo è grigio, continuo le osservazioni lungo il Naviglio Martesana, dalla parte opposta rispetto al ponte vecchio, verso est, dalla parte dove, molto più in là, il Naviglio nasce dall'Adda.

Lungo la strada c'è ancora poca gente.
Dal ponte vecchio, dalla parte di qua, gli orti lungo la riva si fanno più radi. L'uva nera è già quasi matura. Su un albero ci sono mele. Fioriscono rose. In qualche orto qualcuno raccoglie i pomodori e prepara un pezzetto di terra per l'inverno.
Dall'erba e fra le piante cresciute spontaneamente, emergono macerie e materiali di risulta.
La riva destra si allarga su un parco. Adesso è frequentato da quelli che corrono, dalle madri, dai padri, dalle nonne, dai nonni, dai bambini e dai cani, e dove di domenica ragazzi nordafricani giocano a calcio. Faceva parte della campagna che divideva il 'paese' che sto lasciando (Gorla) e quello verso cui mi dirigo (Crescenzago) che è rimasto comune a sé fino a non molto tempo fa. A lato di un prato c'è un grattacielo di 18 piani a forma di torre, è la traccia di quel progetto di metropoli degli anni '60 che nell'edilizia popolare, e nella città-fabbrica, vedeva la leva della giustizia sociale (e dello sviluppo). Per la posizione isolata, per l' altezza e per la forma insolita è molto visibile. Oggi (nonostante il grigio che riporta alla fabbrica e all'edilizia operaia), anche per il privilegio del suo isolamento in mezzo a un parco, lo si direbbe un elegante complesso abitativo.
Più avanti, tra i palazzi, si ritagliano frammenti della città industriale in parte dismessa, in parte riadattata (sono capannoni in ferro e vetro) e casette.
Poi finiscono gli orti, i capannoni, le casette. Le due rive diventano estremamente dissimili.
Da un lato la riva viene come assorbita da una strada (fino a questo punto correva invisibile e parallela, per contrasto qui appare ancora più ampia), e ci sono i 'palazzoni' degli anni del primo boom edilizio. Mentre dall'altro lato, proprio come si entrasse in un altro mondo, la riva si trasforma in un elegante viottolo dove una villa settecentesca apre una serie di sette ville degli inizi del '900 (che borghesi benestanti si erano fatti costruire per vivere 'fuori porta' o per villeggiatura ad imitazione degli aristocratici dei secoli precedenti). Ma basta la prossima curva e si capisce che la 'terra di nessuno' è vicina, in agguato, come una devastazione che arriva improvvisa.


Il centro del centro

Si è pensato di costruire metropoli. Una crescita 'satellitare'. Pare chiaro che il sogno di un progetto complessivo, o addirittura di uno sviluppo urbano in qualche modo assimilabile a una crescita organica (dal centro, del centro e dei centri), si è infranto contro gli interessi particolari e contro scelte politiche generali (che sono concezioni del vivere, in senso individuale e come collettività).
La metropoli come centro, più che chiusa (difesa), avrebbe dovuto essere attrattiva e creativa. Un sistema di centri avrebbe costituito la città nuova, (che avrebbe compreso, come sua parte, l'antico). Città metropolitana sarebbe state rete, sistema di connessioni, pluralità.
Invece si è formata una città totale.
Non ha veramente un nome, difficile è definirne i confini, quasi impossibile pianificarla. Più che pensata si direbbe risulti. In una prolificazione caotica, ciascun centro centra il centro in un isolamento frenetico.
Si costituisce potremmo dire di parvenze, ossia falsificazioni a ragione delle quali modi vita (intere città), divorati, concorrono a fornire autoinganni: le parvenze di benessere, di civiltà, di sicurezze…
Per la velocità con cui sorgono e si abbattono, le parti di cui si compone (tutte e comunemente trattate in una prospettiva di breve termine) più che edifici si direbbero contenitori. Le costruzioni nuove, in grande parte prefabbricate, sono abbastanza facili da montare e da smontare, quelle più vecchie devono seguire continui aggiornamenti. Se di valore storico-artistico gli edifici possono venire internamente svuotati - rimanendo le facciate, si conservano le parvenze delle case che c'erano, la loro falsificazione fa da fondale per la strada (si tratta di una messa in mostra che nasconde ciò che non deve essere visto, il tempo deve essere riscattato dai segni della decadenza, deve essere reso come nuovo). Si tratta di un processo degenerativo, che si realizza prima di tutto negli USA. Mary MacCarthy lo definisce, in una lettera ad Hanna Arendt del 4 maggio 1961, "un cancro terminale" per il quale non è rilevante "avere un atteggiamento progressista o conservatore (…), fare sogni di 'pianificazione' e di città giardino o voler conservare 'pittoresche' catapecchie e case coloniche primitive", perché "entrambi gli aspetti della questione sono stati di gran lunga superati" (H. Arendt- M. McCarthy, Between friends: the corrispondence of Hanna Arendt and Mary McCarthy 1949-1975 tr. it. Tra amiche - la corrispondenza di Hanna Arendt e Mary McCarthy 1949-1975, Sellerio Edizioni, Palermo, 1999, p. 249).
La città totale cancella le tracce di quel che è avvenuto, distrugge radici. Concorre a costruire intorno al passato falsificazioni formulate per incantare, al fine di 'far sognare', che significativamente rendono falsa la normalità (da frequentare, di cui circondarsi, da esibire come argomentazione). Una specie di legge, un processo complessivo, un nutrimento appagante e mortale allontana "l'appetito del pensare" (H. Harendt, The life of the Mind, Harcourt Brace Jovanovich, New York London, 1978, La vita della mente, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 146), "quelle interrogazioni che è nella natura stessa della ragione sollevare - i problemi del significato - (ibid. p. 143), "le domande senza risposta" (ibid. p. 146), e anche "la capacità di porre tutte le interrogazioni suscettibili di risposta su cui si fonda ogni civiltà" (ibid. p. 146).
Dalle città che diventano sempre più grandi, circondate da fasce periferiche sempre più spesse, partono, come lunghe strisce, le strade di collegamento (da paese a paese) che sono fiancheggiate da abitazioni, negozi, alberghi, ristoranti, bar. La fine di un paese è l'inizio del successivo. La vita personale e la vita collettiva si affaccia e si svolge parallela al movimento delle automobili, dei tir… Il tutto è la città divenuta globale. Un 'nastro' con i caratteri delle periferie che non solo circonda, ampliando e spostando progressivamente le 'terre di nessuno' (i materiali di risulta: le discariche, i depuratori…), ma si allunga lungo le vie di comunicazione in una crescita pressoché illimitata che progressivamente invade (e ingloba) la campagna, dove la misura umana si specchia direttamente e in ogni momento con quella della macchina.
La mancanza di limite e di misura, causa di ogni male dice Platone (Platone, Filebo), rende la città globale partecipe e 'costruttrice' di sempre più estese 'terre di nessuno', luoghi dove la presenza umana si rivela nei suoi aspetti più degradati, una malattia della natura.
Così, paradossalmente, apparteniamo alle strade ma per esserne immersi non riconosciamo la strada sulla quale siamo. Non sappiamo vedere il presente. Ossia non riconosciamo il tempo, che è "la vita dell'anima". E poiché il tempo "è in essa e insieme con essa", l'anima origina il tempo che è generato dall'irrequietudine della mente (Plotino, Enneadi).
Non sentiamo il tempo.
Tempo che, essendo generato dall'esplosione del non-tempo del passato (il ricordo) e del non-tempo del futuro (l'immaginazione), è tempo-istante - infinitamente più limitato rispetto al non-tempo, agisce direttamente sulle cose, per la sua limitatezza in-influente rispetto al fluire del non-tempo, è inizio, segno, incide la strada, che è poi quello spezzone di strada che sta tra il non-tempo e il non-luogo (del passato e del futuro) - e si produce come anima.
Ma se il riconoscimento del tempo come limite e come risultato dello scontro della doppia misura del non-tempo, la consapevolezza dell'irraggiungibilità del non-tempo da parte del tempo che ne è tuttavia un derivato, non avviene, allora il tempo, senza potersi trasformare in non-tempo, si risolve in tempo indefinito e nell'indifferenza. L'attimo (il tempo), perduto come de-cisione (inizio), non partecipa (con la mente) del fluire del non-tempo. L'anima si perde (il tempo fermo-ferma). E con lei l'inquietudine della mente, che è la vita della mente.
Il presente, diventato totalità pervasiva, agisce come tempo e spazio indifferente, divorando spazio e tempo. Si potrebbe dire che con la globalizzazione assistiamo allo spazio e al tempo che hanno divorato gli spazi e il non-tempo del passato e del futuro, che la globalizzazione, come inglobamento e come ridondanza, evidenzia l'impronta di un dominio che, nascondendo (ciò che non si vuole sia visto), si fonda su una soggezione nascosta, impedisce "l'integrazione di contenuti inconsci", "un atto individuale di realizzazione, di comprensione e di valutazione morale", "un compito estremamente arduo, che richiede un alto grado di responsabilità etica" (C. G. Jung, Lotta con l'ombra, in: Opere, vol. X, Torino, Boringhieri, 1986, p. 62); in definitiva ostacola il processo identitario che rivela differenze, si sviluppa e permette al soggetto (singolarmente) di giudicare, di reagire.
Così la cancellazione degli individui (di cui si ostacola il percorso), passando attraverso l'occultamento delle differenze rende ininfluenti il pensiero e la critica, indifferenti individui e popoli. Ne derivano paure cieche, immobilizzanti e regressive, violenze diffuse (per le quali emerge in forme orrende, degradate e degradanti, la questione della morte e la centralità dell'angoscia) che sono il sostituto della parola resa impotente, comportano l'impossibilità di prevedere il futuro, annebbiano il ricordo del passato.

Vista dall'alto la città totale (le sue aree omogenee) corrisponde, nel suo carattere di patina, all'uniformità di cui si direbbero ricoperti gli individui. È proprio la sua indifferenza a ridurre nella percezione le distanze (si può fare molta strada senza aver avuto l'impressione di essersi realmente mossi, questo è il paradosso della 'praticabilità' di luoghi sempre più lontani per la quale, la velocità riduce gli spazi che sfumano nell'indeterminato).
In mezzo si producono centri. Specie di segnali di riconoscimento. Devono colpire (come un manifesto che prende un'intera facciata di casa). Si caratterizzano come un prodotto pubblicizzato. Contribuiscono alla realizzazione della messa in scena e perciò si costituiscono di parti variabili, possono andare dal gigantesco al grazioso, dall'avvenieristico al conservativo (di tradizioni e radici tratte da bagagli insieme convenzionali, scambiabili e sostituibili). Sono posti un po' come monumenti, un po' come cerniere che trattengono il territorio in un tutto, uniformandolo. Sono perciò centri-formatori di consuetudini e di uniformità . Possono sorgere quasi improvvisamente, e possono anche in breve tempo decadere. Sono segnali e definiscono la città totale nella spettacolarità e nel degrado, nella staticità e nella provvisorietà.
Complessivamente appartengono a un compatto caotico e sfuocato, e ne emergono come sua rappresentazione. Alcuni sono molto evidenti. Ci sono i centri sportivi, i grandi complessi ospedalieri… Possono apparire come gigantografie (o gigantomanie) di una parte della città che viene esaltata con una monumentalità che intende impressionare.
Tra quelli più visibili (e invasivi) ci sono i centri commerciali. La loro presenza è ripetutamente segnalata, sono in certo senso il centro dei centri (c'è una pubblicità che dice che c'è un centro nel centro, cioè l'affare che ciascuno potrà fare, centrando il centro: 'ogni giorno mirate il settore e centrate l'affare!'). All'opposto, invisibili e temuti, ci sono quei centri (di detenzione, i campi nomadi, i centri di permanenza temporanea) che sono passaggi stretti, la loro natura occulta è quella delle istituzioni totali.
La moltiplicazione dei centri - che coesistono in un qualche tipo di relazione spaziale - rende indefinito lo spazio tra centro e centro. La rete competitiva 'concentrazionista' sembra divorante. Divorato è lo spazio che si direbbe esibito, messo in mostra con materiale d'esposizione falso. E anche il tempo, insieme esposto (rischioso: gli incidenti …), è nell'impossibilità di oltrepassare il momento: non verso il passato, né verso il futuro, ma dilatato e con i caratteri della ridondanza ma senza risonanze.
I centri a volte appaiono in una provvisorietà indifferente, eppure sono posti in luoghi strategici, servono obbiettivi economici e scelte politiche. Rispondono a uno sviluppo insieme compresso (tendente a raggiungere il centro, che è poi il luogo dove massima è la congestione) e illimitato (per desiderio di appartenere all'influenza del centro, dei luoghi del potere, il centro si allarga), che ha ampliato indefinitamente le città. Ma la superpotenza, che caratterizza l'obbiettivo del presente, sembra impantanata, ha assunto l'aspetto totalitario del mercato (che ha vinto del capitalismo la democrazia, del comunismo la cooperazione, rendendo capitalismo e comunismo ideologie) e vacilla sotto il peso della sua grandezza.
"La grandezza è afflitta da vulnerabilità; le crepe delle strutture di potere (…) si aprono e si allargano". "Mentre nessuno può dire con certezza dove e quando sarà raggiunto il punto di rottura, possiamo osservare, quasi misurare, il modo in cui la forza e la capacità di recupero sono insidiosamente distrutte, colando, per così dire, goccia a goccia dalle nostre istituzioni". Così assistiamo a processi di "declino dei vari sistemi partitici, tutti di origine più o meno recente e destinati a servire i bisogni politici delle massicce concentrazioni di popolazione". I processi di disintegrazione diffusi, di cui l'inquinamento dell'aria, dell'acqua, della terra è solo il più evidente, toccano tutti gli stati dell'esistenza, corrispondono al processo che è degenerativo del "monopolio di potere", che si fonda sull'inafferrabilità, "una delle cause più potenti dell'attuale stato di inquietudine e di rivolta diffuso a livello mondiale, della sua natura caotica e della sua pericolosa tendenza a sfuggire a ogni controllo, scatenandosi in atti di violenza". Il monopolio di potere può essere "la burocrazia o il dominio di un intricato sistema di uffici in cui nessuno, né uno né i migliori, né i pochi né i molti, può essere ritenuto responsabile e che potrebbe giustamente essere definita il dominio da parte di Nessuno". Si regge proprio sulla sua inesistenza, e quindi della impossibilità di avere una vera opposizione - "se, d'accordo col pensiero politico tradizionale, definiamo la tirannide come il governo che non è tenuto a render conto di sé stesso, il dominio da parte di Nessuno è chiaramente il più tirannico di tutti, dato che non è rimasto proprio nessuno che potrebbe essere chiamato a rispondere di quello che si sta facendo" -. Provoca "l'esaurimento se non l'annullamento progressivo di tutte le autentiche fonti di potere", a ragione del quale non solo vediamo "disintegrazione del potere", ma anche parlare di "impotenza del potere non è più uno spiritoso paradosso" (H. Arendt, , On Violence, in: Crisis of the Republic, Harvest Book, San Diego, New York, London, 1969, tr. it. Sulla violenza, in: Politica e menzogna, SugarCo Edizioni, Milano, 1985, pp. 191, 192, 224, 225).

Oggi è l'inafferrabilità a costituire la forza di un potere debole perché non legittimato, che passa attraverso il denaro e nella coincidenza tra potere politico e potere economico - così si dovrebbe leggere l'intervento militare in Iraq, un intervento illegale che mostra il governo degli USA e dei paesi che l'hanno affiancato come governi non forti, non affidabili, innanzi tutto per il fatto di essere intervenuti ponendosi in contraddizione con le proprie stesse leggi e il diritto internazionale, e inoltre per aver innestato e per continuare ad alimentare quello stato di confusione generale che diventa disgregante delle comunità, del vivere insieme, del commun sense, come un tarlo che lavora dall'interno.
Alla città totale, i cui caratteri si riscontrano non solo e non semplicemente nelle grandi città del mondo ma che, si potrebbe dire, si esaltano in esse (come se la loro maggiore forza fosse contemporaneamente aggregante e divorante), corrispondono azioni di massa. È l'immagine stessa della città, la sua spettacolarizzazione, l'azione del nascondere (prodotto di un Si impersonale). Compiuta al fine di costituire un contesto ideologico che si realizza come indistinto e indifferenziato e che governa traduzioni di un pensiero spaesato. Pensiero spaesato dall'agire impersonale, dall'esperienza negata come momento della decisione e del rischio, che perdendo forza critica, perdendosi come conoscenza, si arrende al dato, cioè rinuncia ad esserci.
E poiché si conosce attraverso il pensiero, e non esiste "processo di pensiero senza esperienza personale" (H Arendt in una conversazione alla televisiva con Gunter Gaus, pubblicata poi col titolo: Was Bleibt? Es bleibt die Mutter sprache, in: Gunter Gaus, Zur person, Piper, Munchen, 1965, tr. it. Che cosa resta? Resta la lingua, in: Essays in Understanding 1930-1954, Harcourt Brace & Company, 1994, tr. it. Simona Forti (a cura) Archivio Arendt 1. 1930-1948, Milano, Feltrinelli, 2001, p. 56), potremmo dire che le azioni di massa - che non sono prodotto di esperienze, non derivano da quel commun sense che è il senso dei sensi, la relazione dei sensi che rende possibile l'azione comune diretta da un comune sentire (H. Arendt), né del giudizio che "è un processo davvero misterioso, in cui si manifesta il senso comune" (ibid. p. 57), né della parola che è quella forma di pensiero in comune (dia-logo) che è "una forma di azione" (ibid. p. 55) - sono negazione del pensiero.
Ciò che viene divorato dalla società di massa (della città totale) è il mondo comune (quella parte che abbiamo in comune con gli altri, il discutere, l'affrontare insieme) reso impossibile dal carattere primo della società di massa, di essere società dei privilegi, che evidentemente non possono essere messi in comune. Non potendo esserci obiettivi condivisi, vengono difesi comunemente i propri (alzando barriere che poi producono quella solitudine che separa gli uni e gli altri, l'uno dall'altro) rafforzando quel carattere di società - che con l'abolizione della differenza tra pubblico e privato, "il pubblico essendo divenuto funzione del privato e il privato essendo divenuto l'unico interesse comune rimasto" (H. Arendt, Vita activa, cit. p. 50) - proprio quelle barriere richiede.
Così la società di massa, attraverso quella maschera che è la propaganda che passa attraverso la pubblicità, produce sempre con maggiore evidenza soggetti che (per una sorta di regressione e per la paura diffusa e vaga di una fine imminente) si collocano nell'ambito degli stimoli primari (la paura di perdere, l'ansia divoratrice), e alla ricerca di un padrone a cui affidarsi. Impedisce il rapporto dell' uno con l'altro e tra i molti (l'interrogazione e il giudizio) su cui si fonda la parola (la conoscenza e il pensiero), restringendo i confini attorno a ciascuno, provocando quel senso di soffocamento e di spaesamento che è offuscamento del differente, perdita dell'altro, di sé altro.
L'aspetto rassicurante delle consuetudini, che è povertà di esperienza, denuncia un rapporto spezzato, una censura e, al limite, l'impossibilità di discorso. Così, l'effetto della perdita di "materia prima" (che è costituita da un vissuto "caratterizzato dal sentimento di avere delle cose dentro di sé") porta a "carenza di eventi differenziati" (L. Boccanegra, Paradigma della traduzione ed erosione depersonalizzata del traduttore, in: Il rischio e l'anima dell'Occidente, a cura di S. Maso, Libreria Editrice Cafoscarina, Venezia, 2005, pp. 27, 28). "Privati della facoltà di vedere e di udire gli altri, dell'essere visti e dell'essere uditi da loro", non si "può impedire la distruzione del mondo comune, che è di solito preceduta dalla distruzione della molteplicità prospettica in cui esso si presenta alla pluralità umana", (H. Arendt, The Human Condition, Chicago, 1958, tr. it. Vita activa, Milano, Bompiani, 1964, 2001, p. 43).
Si fa difficile spostarsi dal centro e andare verso il centro, e non per distanza, al contrario per contiguità. Perciò al limite estremo di questo processo di spaesamento 'per compressione' si ha deprivazione di emozioni riconoscibili come proprie. Si produce, al loro posto, una specie di ansia divorante che deriva da un diffuso senso di perdita di sé che si traduce nell'innaturale conformismo della strategia della società di massa che rende il singolo dipendente dai bisogni che induce, mentre il tempo come movimento-mutamento (possibilità) è annullato in una indifferenza che accompagna l'ansia divorante, ne è il sottofondo (il fondo o lo sfondo).
Si potrebbe dire che la società di massa colloca ciascuno nella condizione inevitabile e in un certo senso quotidiana di rischio. Poiché il rischio è scarsamente scelto dal soggetto ma nel rischio piuttosto siamo immersi, ne deriva un'impotenza che porta all'essere agiti, al subire, alla passività, ossia alla banalità del male.
Che è poi perdita di sé (di giudizio, di volontà) quando l'accadere avviene nella inconsapevole accettazione. Il processo di rimozione si manifesta come 'silenzio del pensiero', ossia incapacità di criticare attivamente il presente, cioè cambiarlo. È ciò che circonda quella negazione estrema del dialogo che è la guerra.
"Solo con la violenza della guerra; allora, ma allora soltanto, le parole non decidono più nulla e tutto dipende dalla muta ferocia delle armi" - "la violenza infatti è l'unica specie di azione umana che sia muta per definizione; non è mediata né esplicata col tramite delle parole. In tutte le altre specie di azione, politica o no, noi agiamo nel discorso e il discorso è la nostra azione" - "perciò la propaganda bellica suona di solito sgradevolmente insincera" (H. Arendt, Religione e politica, in: Totalitarismo e cultura, Milano, Ed. Comunità, 1957, p. 59-60).
Opposto, ma chiaramente in stretto legame alle distruzione della guerra, è il dominio del consumo (e del soggetto in quanto consumatore), ed è qualcosa di molto simile a una fame ancestrale. Il centro svuotato, esaltato si è trasformato in un'enorme bocca. Una sorta di dipendenza dall'abbondanza che sembrerebbe ricerca della felicità. Ma poiché dove c'è sovrabbondanza non c'è spazio né tempo la felicità si limita alla variazione delle mode. E appartiene all'ordine delle malattie (della mente e del corpo, ansia e abulimia). Si rivolge indifferentemente verso ogni cosa sia consumabile o sia resa simbolicamente e necessariamente da consumare, rendendo ogni cosa indeterminata (nella sua qualità prima di essere da consumare) e ognuno indeterminato (nella sua qualità prima di essere un consumatore). È uno 'spettro' che va dagli oggetti materiali a quelli immateriali (possono essere i viaggi, i festival, le mostre…) e colpisce ovunque.
Alle emozioni si sostituiscono ideologie, cioè falsificazioni. Si direbbero innocue (decorazioni e non solo in senso figurato: le città sono piene di questi 'abbellimenti'che dovrebbero rendere la vita più gradevole). Sembrerebbe che si propongano di suscitare quel sentimento di melanconia che rende passivi (arrende all'esistente), consola e cancella gli effetti più devastanti che potrebbero anche non essere accettati così supinamente. In questo senso l'autoinganno starebbe a testimoniare di una possibilità residuale, che non sta dentro la finzione ideologicamente proposta ma nello spazio di rottura per un'implicita critica alla realtà data.
Gli autori di queste falsificazioni rimangono nascosti dietro una catena di ingannatori che si sono in una certa misura, anche, autoingannati. Nella loro volontà di occultamento sta l'aspetto ri-velatore, del tornare a velare ciò che loro stessi, senza saperlo, hanno s-velato.
Ma l'autoinganno serve a produrre appartenenza alla società senza responsabilità verso gli altri (la comunità). E specialmente esalta e difende ogni particolare privilegio Così l'isolamento difensivo, essendo proprio del privilegio l'impossibilità di essere condiviso, si traduce in violenza costituzionale della società di massa, e per il privilegiato in illusione di stare in un tempo stabile, di aver vinto il tempo, forse anche la mortalità in un presente dilatato, di poter essere indifferente al futuro del mondo.
Così le forme delle ideologie, che sono sintomi di una malattia, della reazione del corpo a un male che ha colpito l'organismo, sono travestimenti inconsapevoli, mascherature attraverso le quali passa una re-azione alla realtà data, che è però reazione regressiva (segno di impotenza della critica, per cui nel momento stesso in cui viene fatta viene anche nascosta).
Così le mode - che influiscono soggettivamente sulle abitudini, modo di vestire, l'arredamento della casa, ma anche sui i luoghi pubblici, gli arredi urbani, i giardini - determinano la città stessa, cioè fanno il mondo, che non percepiamo come una realtà che esisteva prima di noi e che ci sopravviverà, ma come una realtà transitoria, incerta e priva di fondamento (a cui 'naturalmente' corrispondono masse di persone per le quali precarietà e mobilità sono condizioni inevitabili), si sostituiscono alla vita in comune, garantiscono l' "obbedienza alle norme" che porta gli individui a diventare massa, servono a "provare in modo inconfutabile il (…) legame con la collettività", originalità e appartenenza. La loro diffusione e variabilità costituiscono il paesaggio, ossia un mondo disancorato all'interno del quale non ci sono garanzie né per i singoli, né per le specie. E proprio da questo senso diffuso di pericolo l'individuo (il giudizio, la volontà) finisce per perdersi, "come elemento di una massa (…) prende parte a innumerevoli azioni che risveglierebbero in lui resistenze invincibili se volesse compierle da solo (…). Il senso della vergogna, proprio perché si tratta di un'azione di massa, è soppresso come è soppresso il senso di responsabilità tra coloro che prendono parte a delitti di massa, dai quali il singolo spesso si ritrarrebbe spaventato se fosse posto da solo davanti all'azione" (G. Simmel, La moda, Roma, Ed. Riuniti, 1985, pp. 44, 45, 47).


Passanti

Complessivamente, nello spazio occupato dalla città totale (omogeneo, indifferente), le cose avvengono. Senza che si conosca esattamente chi le fa avvenire, con quali complicità, e quale raggio d'azione comprendono gli interessi che fanno avvenire tali 'cose'.
Anche se "la pluralità è la legge della terra" (H. Arendt, Thinking, New York, 1978, p. 34), il modello è unico, e provoca indifferenti (per apatia, per implicito riconoscimento di impotenza).
È l'occidente a dettare le regole, a parlare solo la propria lingua. E così, paradossalmente l'occidente, credendosi il modello per il mondo, con mentalità coloniale, restringe gli spazi conquistandoli. Negando pluralità, e di conseguenza mettendo ciascuno in un isolamento che è negazione del fare radici (di progettarsi nel futuro), le forme della vita collettiva e individuale si riducono e vanno sfumando in forme sfuggenti e dai caratteri divoranti.
Le persone, rientrando in un compatto-confuso, in quel "vortice più o meno caotico di eventi che noi non mettiamo in atto, ma patiamo (pathein) e che in circostanze di forte intensità possono travolgerci" (H. Arendt, La vita della mente, cit. p. 154), si potrebbe dire che vi corrispondano, come fossero il risultato di passioni in contrasto sempre sul punto di esplodere, appaiono inquiete, e insieme travolte da sovrabbondanza di immagini e da un presente esaltato. Diventano concretamente il motore - nello scontro tra passato e futuro da cui deriva il presente (H. Arendt e W. Benjamin) - della cancellazione del non-tempo del passato e del futuro, in definitiva dell'occultamento del passato (attraverso la falsificazione) e di conseguenza del futuro (inimmaginabile).
Privati del niente, che "è il 'non' dell'ente, quindi l'essere esperito a partire dall'ente" (M. Heidegger, Wegmarken, V. Klostermann, Frankfurt am Main, 1976, Segnavia, Milano, Adelphi, 1987, p. 79), ciascuno compresso nel contrasto tra passato e futuro (che tuttavia non avverte) è immerso nella 'terra di nessuno'. Questo perché il presente - che è il tempo, "che non è altro che la forma del senso interno, cioè dell'intuizione di noi stessi e del nostro stato interno" (I. Kant), è tempo-attimo, è istante-esplosione del non-tempo (del passato e del futuro), il presente risulta nutrirsi del non-tempo (come immaginabile futuro e come memoria) e da una frattura, incide e spezza (è il nientificante 'non' della differenza, è tempo spezzato e che spezza - ha nascosto lo scorrere del non-tempo, vorrebbe cancellare passato e futuro, e tuttavia non può dare al presente il carattere di totalità.
Una sorta di fissità senza stabilità nella quale si conducono vite precarie, immersi in una condizione di rischio si potrebbe dire abituale, dove si parla una sola lingua (che lascia fuori le differenze, non è lingua comune, non deriva da un senso comune (traduzioni, un passare attraverso le differenze, non è parola che attraversa, che avvicina, mette a confronto, interroga), impedisce di vedere la strada. La perdita della ferita (da attraversare perché ci sia movimento, mutamento, tempo), che è anima, è la strada che non si vede. Perciò, "alla luce delle nostre esperienze è forse giunto il momento di scoprire la dignità filosofica dell'esperienza del dolore", e che "questo insopportabile dolore sarebbe del tutto insopportabile (…) se non ci fosse la morte" (H. Arendt, Il futuro alle spalle, cit. p. 189).
Così la città totale, estranea alla vita dei singoli, rende invisibili e stranieri.
Differenti senza differenze. Collocati in terre di nessuno, tutti attraversati da processi di falsificazione, privati delle radici (delle differenze), i singoli provano paura del luogo in cui vivono, delle persone che lo abitano.
Alzano barriere, all'interno delle quali si rifugia "l'interiore soggettività individuale, che era stata riparata e protetta in precedenza dalla sfera privata", che diventano "evasione dal mondo esterno nel suo insieme", in assenza sia di pubblico sia di privato, poiché si è estinta la "differenza tra sfera pubblica e privata", ambedue assorbite nella totalizzante sfera sociale - "il pubblico essendo divenuto funzione del privato e il privato essendo divenuto l'unico interesse comune rimasto" ed essendo stato abolito "nel senso di un luogo concreto, nel mondo, di ciò che è proprio" (H. Arendt, The Human Condition, Chicago, 1958, tr. it. Vita activa, Milano, Bompiani, 1964, 2001, pp. 50, 51).
Ma proprio all'interno delle barriere alzate dal totalizzante sociale, attraverso l'indistinto continuamente in crescita, lungo strade uguali, passano nascostamente i limiti tra l'uno e l'altro, cioè le differenze. Differenze che non sono semplicemente da rispettare, sono da coltivare perché i processi identitari sono l'interrogarsi delle differenze - comprendere "l'enorme varietà delle società indiscutibilmente umane" (H. Arendt, La vita della mente, cit. p. 530) -, sono lo spostarsi dal pensato verso il pensabile, è trovarsi faccia a faccia con l'abisso della libertà.
Perciò capita che la strada che si sta percorrendo sia interrotta per un incidente, una frana, lavori in corso. Possiamo dire che la strada è interrotta a ragione della nostra eredità che sono le macerie, cioè il prodotto della storia da cui deriva la società che porta il segno di quella catastrofe che è l'orma della sua storia.
Se l'interruzione è transitoria ci si trova a un bivio (in una condizione di duplicità e di dubbio, ambigua), si può decidere per l'attesa oppure si cambia strada. Se invece si deve necessariamente prendere una deviazione e seguire percorsi che abitualmente non si fanno, allora bisogna, per orientarsi, necessariamente prestare attenzione. Dal grado di necessità possiamo capire la gravità dell'incidente, ma la consapevolezza del grado di necessità non è necessaria, e perciò si può attendere sprofondando in una sorta di malattia terminale.
L'incidente, la frana, i lavori in corso sono il caso che si è accidentalmente prodotto. Inaspettato è l'incidente di percorso, un'alterazione, la deviazione dal tracciato. Il caso, che si è presentato eccezionalmente (può derivare da un intervento, da errore umano, o anche da un evento catastrofico), altera il luogo, introduce un tempo e uno spazio diverso dal previsto.
Così la decisione di separarsi dalla strada abituale la fa perdere come apparenza, la fa entrare in quel luogo dell'assenza (dove si colloca la morte), la fa cadere nel fondo. E da quel fondo, perdendosi, diventa punto di orientamento per la strada che si sta per imboccare, traccia che incide ma indirettamente, come non-tempo, la strada sconosciuta.
L'evento diventato vento sposta. Ambedue le strade appartengono al pensiero prima della sua traduzione, prima che si perdano all'apparire delle implicazioni materiali, nel momento in cui si ha percezione di una mancanza. È a ragione di quella mancanza che ci si può porre in quel tempo, in quella "fessura tra il passato e il futuro, che è il luogo temporale più appropriato per il pensiero" (H. Arendt, lettera a M. McCarthy, 19-2-1968).
E poiché, dice Socrate, "i venti in sé sono invisibili, tuttavia ciò che essi fanno è manifesto e in un certo modo noi avvertiamo il loro avvicinarsi" (Senofonte, Memorabilia, in Socrate. Tutte le testimonianze: da Aristofane e Senofonte ai Padri cristiani, Bari, 1971, p. 168), il vento è come il pensiero ed è "nella natura di quest'elemento invisibile disfare, disgelare, per così dire, ciò che il linguaggio, il medium del pensiero, ha congelato in parole del pensiero (concetti, proprorzioni, definizioni, dottrine)" (H. Arendt, La vita della mente cit., p. 269).
Il caso si è trasformato in occasione. L'evento si è trasformato in vento. L'elemento tempo-movimento ha reso all'occasione la possibilità che nel caso è potenzialità. Il caso colto, diventato interprete, ha mostrato nell'attenzione la capacità di orientarsi risvegliata. L'atto, che è apparenza, ha tradotto il caso in occasione, ciò che è portato si è tradotto ed è diventato ciò che conduce, cioè il tempo. L'attenzione risvegliata giudica. Si è nella condizione di poter agire, cioè mutare tempo, intervenire sul tempo, diventare tempo. Tradursi.
Ed essendo la forza nella traduzione, la misura di un pensiero (la misura di un'emozione) sta nel movimento che produce (in cui si trasforma), nel trasformarsi dal movente al movimento, al tempo, nel legame del tempo con il movente (occasione) e il movimento (azione).
Il momento della trasformazione, l'occasione, che è tempo - e "il tempo, la sola forma dell'intuizione interna, non ha nulla di permanente" (I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, A 381, tr. it. Critica della ragion pura, Bari, 1966, p. 693) - si è mostrato nell'atto. Ma l'io è nascosto, perché le attività del pensiero sono "manifestazioni di un io che in sé rimane eternamente celato", "non appare agli altri", "non appare a se stesso" e tuttavia "non è nulla" (H. Arendt, The life of the Mind, Harcourt Brace Jovanovich, New York London, 1978, La vita della mente, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 125).
Siamo in quella tensione-tempo che avvertiamo perché mortali, cioè presenti, e perciò comprendiamo il limite, come linea dell'essere, che disegna e trattiene movendo, è separazione, taglio tra essere-non-essere.
Quando il non-tempo del pensare "la facoltà della mente di rendere presente ciò che è assente" (H. Arendt, La vita della mente, cit. p. 159), che sta tra la memoria del non-più e l'attesa del non-ancora, in quella terra di confine dove si può affrontare la propria assenza dal mondo, si può pensare il mondo che rimane dopo di noi, dove non c'è appartenenza, non c'è estraneità.
Prima dell'arrischiarsi, di compiere il salto, di tradursi nel movimento-mutamento, nel presente dell'agire. Prima di trasformarsi cioè nel tempo, diventare e porsi nel corso del tempo, nella "libertà di desiderare" (Derida), nel desiderio di tempo. Quando appare il presente, diventa azione che è la verità del tempo.
E' il momento dell'iniziare, cioè del nascere, venire alla luce, ossia attraversare l'ombra (e l'oscurità della morte). Dove si profila l'esistente nella percezione dei sensi, quando le lingue dei sensi nella percezione diventano lingua comune, e la percezione facendosi si ri-vela come percezione.
Posti in quel luogo del tradursi del pensiero in azione, siamo nell'opportunità di rifiutare appartenenza per cercare nell'esclusione la radice come via verso il mondo, verso quel luogo dell'esperienza imprevedibile che è entrare nel tempo, è comunicazione come ponte fragile e rischioso del presente "con lo sguardo fisso sul volto inesorabile dell'esserci nel mondo" nello "sperimentare l'essere nel naufragio" (K. Jaspers, Philosophie III, Metaphisik, Springer, Berlin, 1956, tr. it. Filosofia III, Metafisica, Mursia, Milano, 1978, pp. 368-369).
Si può cambiare strada, spostarsi dall'indifferenza verso il desiderio.
La forza della necessità fa allontanare dalla strada abituale, l'intenzione traduce la necessità in attenzione, produce occasione. L'attenzione alla strada nuova è un'operazione di pensiero che è richiesto, suscitato dalla strada stessa - che preme perché ciò avvenga, è il caso che ha premuto per tradursi in tempo, perché la volontà di tradurre (tradursi) è forma (possibilità) del tempo.
Poiché il bivio ha imposto una fermata, è un centro. E segnala quella 'malattia' che è il tempo, lo spezzarsi del tempo nei tempi. Coincidenza di inizio-fine. Questa è la strada che altera (e che può anche distruggere), per la quale il genere umano rappresenta il punto più alto e insieme il punto più basso delle metamorfosi della natura. In questo senso l'essere umano è il sintomo più grave e il segnale più significativo della trasformabilità della natura, che è poi la sua malattia. Così la mortalità, che è la trasformabilità, la creatività, l'essere tempo, comprende il vuoto fra i tempi, e arriva fino al limite estremo della possibile autodistruzione.
Ponendo attenzione, la strada si mostra come ferita, ferita da attraversare perché è strada dell'anima, ed è anima che è strada. Così il dolore che forma l'anima ed è anima (è la ferita attraversata) mostra l'uscita: la separazione, allontanarsi dalle cose per tradurle in esperienza (il senso dei sensi), e percorrere l'assenza, quel vuoto che conduce al pensiero ma nel quale il pensiero non si trattiene e, come attratto dalla terra, si traduce, diventa parola, sta tra l'uno e l'altro. Il pensiero diventa metafora (che è un portare attraverso, un trans-portare, metapherein), "passaggio da uno stato esistenziale, quello del pensare, a un altro, quello di apparenza tra le apparenze. E ciò che può essere realizzato solo mediante analogie" (H. Arendt, La vita della mente, cit. p. 189), cioè nella "somiglianza perfetta di due rapporti tra cose del tutto dissimili" (I. Kant, Prolegomena zu einer jeden kunftigen Metaphysik die als Wissenschaft wind auftreten kommen, n. 58, in Werke, Darmstadt, 1963, voll. III, tr. it. Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, Bari, 1979, p. 126) è un ponte tra visibile e invisibile, illumina un'esperienza che non appare.
Re-agendo ci si è spostati. Dove si cela la parte più profonda del desiderio (il dolore per l'assenza, e quella irrimediabile assenza che lega il dolore alla morte) che non appare perché è silenzio, risulta tuttavia, nel movimento dell'apparire come pura possibilità.
Con quella curiosità (verso la strada nuova) "che si nutre del mondo, del nostro desiderio d'investigare ogni cosa che sia data al nostro apparato sensoriale", da cui vengono "le interrogazioni sollevate dalla nostra sete di conoscenza" (H. Arendt, la vita della mente, cit. p. 142). Osservando, lasciando-agire "l'io fondamentale" piuttosto che "l'io sociale" (di H. Bergson, Essais sur les données immédiates de la conscience, 1989, tr. it. Saggio sui dati immediati della coscienza, Torino, 1964), "l'autentico" piuttosto del "Si" (di M. Heidegger, Sein und Zeit cit.), potremmo domandarci se quell'imprevedibile che permette di venire al mondo, è uscire dall'accettazione della realtà data come la sola possibile, è abbandonare le consuetudini, la ripetizione conservativa che non richiede né attenzione né critica, gli inganni e le consolazioni delle ideologie. È provare ad agire, anche se "non si può negare (…) sia la più pericolosa fra tutte le capacità e facoltà umane, come non si può negare che oggi l'umanità si trovi di fronte a rischi creati dall'umanità stessa e mai affrontati in passato" (H. Arendt, Beween Past and Future: Six Exercises in Political Thought, 1954, tr. it. Tra passato e futuro, Garzanti, Milano, 1991, 1999, p. 96). Non sapendo se si troverà una forma originaria (che è coincidenza di idee e fenomeni, il momento in cui ci si gioca il tutto per tutto ed è il punto più alto del gioco, del salto, del rischio, quando si inverte il movimento e perciò il tempo è fermo). Né dove si andrà a finire. Allontanandosi semplicemente da una condizione ordinaria di stasi.

Bibliografia

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