Il concetto di scambio sessuo-economico

Nella Grande Beffa (2004) sono riuniti testi scritti a partire dagli anni ottanta e in cui tu analizzi diverse forme di scambio sessuo-economico, i modi in cui la sessualità delle donne è fatta oggetto di scambio da parte degli uomini e tra gli uomini, e dove mostri che non si può assolutamente limitare l’analisi dello scambio a quella che viene chiamata prostituzione. Oggi i tuoi lavori sono spesso utilizzati per analizzare il sex work nelle diverse forme che può avere attualmente. E tu invece insisti sul fatto che non era questo il loro vero senso.

Sì, il mio lavoro è frequentemente usato ma spesso, secondo me, viene usato in modo un po’ riduttivo, nel senso che a volte è stato adottato quasi più il nome, il termine di scambio sessuo-economico, che il concetto stesso e lo spostamento di campo teorico che questo termine implica. Così il termine «scambio sessuo-economico» diventa semplicemente un nuovo nome per designare i rapporti di sex-work, di prostituzione. Al contrario per me l’idea di scambio sessuo-economico serviva e serve a indicare un fenomeno ben più vasto, ossia l’insieme delle relazioni tra uomini e donne che implicano una transazione economica. Una transazione nella quale sono le donne che forniscono servizi  (variabili ma comprendenti un’accessibilità sessuale, un servizio sessuale) e gli uomini a dare un compenso più o meno esplicito per questi servizi. Il compenso è  di tipo e valore variabile: si va dal nome allo status sociale, o al prestigio, a regali o infine al pagamento diretto in denaro. Abbiamo così un insieme di relazioni che vanno dal matrimonio alla prostituzione, con forme di rapporto assai diverse, comprese tra questi due estremi. Ho cercato, infatti, di mostrare che non vi è un’opposizione binaria tra matrimonio e prostituzione, ma piuttosto una serie complessa di relazioni differenti, e che è possibile mettere in rilievo, stabilire, che vi è un continuum, cioè una serie variabile d’elementi comuni alle diverse relazioni e insieme una serie di elementi che le differenziano. Le variazioni riguardano elementi fondamentali quali la modalità della relazione, la forma di contratto, le persone, la durata, i servizi forniti.
Ora mentre vi è un notevole numero di studi sulla prostituzione, sulle diverse forme di lavoro sessuale in contesti diversi, è più raro trovare lavori che si occupino del continuum nel suo insieme e soprattutto più raro trovare lavori che trattino delle forme di scambio nei rapporti «legittimi». (Un’eccezione, da sottolineare, sono degli studi sulle donne immigrate dove spesso troviamo l’arco completo del continuum). Nei paesi occidentali, infatti, la ricerca più difficile da affrontare è quella sulle relazioni legittime perché si tende a non riconoscere e ammettere la presenza dello scambio in esse. Come Viviana Zelizer mette in rilievo per gli Stati Uniti, lo scambio è persino totalmente negato : transazioni economiche e relazioni intime sono generalmente considerate come incompatibili, farebbero parte di mondi inconciliabili, hostile worlds.
Devo dire che la difficoltà di considerare lo scambio sessuo-economico nelle relazioni «legittime» la ritrovo, in particolare da parte delle donne, quando mi capita di discutere con la gente, per esempio quando faccio conferenze. Questa scissione tra una sessualità legittima (per la quale si nega che esista lo scambio) e le altre relazioni è un dato proprio delle società occidentali attuali. Invece in molte altre società – e, in passato, anche nelle società occidentali – lo  scambio è un dato di fatto riconosciuto. E magari si dice anche, in maniera chiara e netta, che il sesso è il capitale delle donne, la loro terra, e che le donne lo devono ben utilizzare. Ma la differenza importante, essenziale anzi, sta in chi ha diritto a gestire questo «capitale», a gestire lo scambio : è la donna stessa o invece altri da lei? E questo è l’elemento che distingue le relazioni.

Mi sembra che la scelta di lavorare sulla prostituzione non fosse scontata e che in certo qual modo il tuo lavoro sia stato un ribaltamento delle posizioni femministe sulla pornografia. Pensiamo ai lavori di Judith Walkowitz che ha mostrato come il femminismo all’inizio del XX secolo avesse visto in modo problematico la prostituzione… La Grande Beffa propone delle riflessioni che mostrano come il contesto coniugale potesse essere considerato da un certo punto di vista come più oppressivo del lavoro sessuale.

Bè, qui stai dimenticando molte cose.
L’epoca in cui ho cominciato a lavorare su questi temi non era affatto soltanto l’epoca delle femministe antipornografia, o di quelle che vedevano la prostituzione come schiavitù sessuale (Kathy Barry o Andrea Dworkin ad esempio), ma era anche l’epoca delle femministe come Gayle Rubin, Carol Vance, Judith Walkowitz, Joan Nestle ecc. Era piuttosto il periodo delle sex wars, delle grandi raccolte come Pleasure and Danger (Vance 1984) o  Powers of Desire (Snitow. Stansell, Thompson 1984). Nel contesto femminista quindi il mio lavoro era tutt’altro che isolato.
Era proprio anche il periodo delle analisi e ricostruzioni storiche come quella di Walkowitz (1980) sull’Inghilterra vittoriana o di Peiss (1986) sulle « Charity Girls », le ragazze di classe operaia della New York inizio secolo XX. Ricerche dove si vedeva bene come non esistesse un’opposizione totale tra matrimonio e periodi di scambio sessuo-economico esplicito, ma che quest’opposizione viene creata a un dato momento da un insieme di misure legislative che, come lo mostra chiaramente Walkowitz, creano tra le donne « an outcast group », « le prostitute » quasi per un fatto di loro essenza, insomma un vero e proprio gruppo di paria.
Il problema posto nella Grande Beffa non è se il contesto coniugale sia da considerare come più oppressivo del lavoro sessuale. Non si è trattato, lo ripeto, di sottolineare un’opposizione tra matrimonio e sex work. Piuttosto si è trattato di mettere in luce l’esistenza di un continuum dai molteplici aspetti. A tratti il contesto coniugale può essere peggiore o più oppressivo della prostituzione ma mi è sembrato fuorviante vedere la situazione semplicemente come un’opposizione binaria tra matrimonio e sex work. Al contrario sono partita da Walkowitz e ho ripreso ciò che mostra per la Londra vittoriana e che si conosce bene anche per Parigi o New York come per molti altri contesti. Nei quartieri operai di Londra accadeva che le ragazze si prostituissero per periodi relativamente brevi. Quando lasciavano il lavoro sessuale esplicito, entravano nel matrimonio, o come ebbe a dichiarare una « prostituta » durante un processo : « ho mio marito come unico cliente ». Ma, con gli interventi politici dello stato, con le leggi sulla repressione delle malattie veneree e le misure statali connesse, col fatto di essere schedate, controllate e, di fatto, separate dal loro ambiente, le ragazze, che nei periodi precedenti di solito lavoravano come prostitute per periodi di due-tre anni, si trovano invece ad avere ben più di difficoltà ad uscire da questo lavoro.
Non opposizione dunque, ma caratteri diversi : tra essi in primo luogo il fatto che il matrimonio concerne in blocco l’insieme delle capacità di lavoro delle donne, l’insieme del servizio domestico, la procreazione ecc. e, per giunta, in tante società, anche il loro lavoro agricolo. Molti di questi elementi li troviamo anche in varie forme di ciò che viene chiamato prostituzione. E a volte I caratteri comuni alle relazioni sono tanti e tali che alcuni etnologi non sanno più che nome dare a queste diverse relazioni. Tra i  Bakweri  del Camerun (studiati da Ardener, 1962) ad esempio, le donne  vivevano un periodo nel matrimonio, poi magari un periodo in concubinaggio, poi magari davano servizi sessuali a più clienti ai quali davano anche, come nel matrimonio, servizi domestici : preparavano i pasti, il bagno ecc. E’ un continuum chiarissimo e così Ardener, considerando tutti questi periodi come « periodi coniugali », (tra l’altro le donne vi sono sempre esposte al rischio di gravidanza), e considerando che tutte queste relazioni hanno delle « caratteristiche quasi-coniugali » propone di chiamare questa forma di relazione « iperpoliandria ». Ma vediamo la stessa cosa nella Nairobi degli anni trenta e la storica   Luise White (1980)  considera questa forma di relazione un « matrimonio illegale ». E questi fenomeni li ritroviamo un po’ ovunque, con piccoli cambiamenti da una situazione all’altra.
Le forme di lavoro sessuale presentano dunque aspetti assai vari. Così ad esempio  a Kampala, in Uganda, capitava che le ragazze avessero rapporti con più amanti fissi e l’etnologa E. Mandeville (1979) non li considera affatto rapporti di prostituzione: sono rapporti, ci dice, con dei « caratteri di stabilità, di affetto, di selezione e di delicatezza che mancano in una transazione a carattere puramente commerciale ». Si trattava di relazioni con uomini che uno definirebbe dei clienti ma coi quali si trattava un po’ di quello che oggi si trova proposto su Internet come « girl-friend experience », ossia una disponibilità delle ragazze a offrire servire servizi sessuali, psicologici, domestici, e/o affettivi. Un insieme di lavoro emotivo che Hochschild (1983), e  poi, riprendendola, Chapkis (1997) e Bernstein (2007) chiamano « deep acting ». Insomma non solo qualcosa di rapido, di superficie… Sono servizi che però nel caso del Uganda ( e in tanti altri) come è ben chiaro, non erano oggetto di definizione e contrattazione  esplicita  come avviene invece attualmente nei rapporti commerciali offerti in rete.
Di fatto il continuum, la complessità e la varietà degli scambi sessuo-economici ci sfuggono quando non si vede che un’opposizione totale tra matrimonio e prostituzione.

Negli esempi che proponi nel libro si nota che vi è un continuum delle forme di scambio sessuo-economico ma anche, in una stessa vita, un continuo passaggio.

Proprio così. Sono tra gli elementi possibili del continuum, come le variazioni nella durata della relazione : vi è non l’opposizione tra matrimonio a vita e  rapporto rapido di pochi minuti, né l’opposizione  a vita tra sposa e prostituta, ma vi sono invece una serie di relazioni possibili di durata differente e il fatto che una stessa persona, una stessa donna (per un uomo è un dato ben noto e che non fa problema!) può passare da una forma di rapporto, anzi servizio, sessuale (compreso, è chiaro, quello del matrimonio) a un’altra. Era così per le ragazze delle classi popolari a Londra prima delle leggi che, di fatto, trasformarono le prostitute in categoria definitiva e ghettizzata. Per le donne che ho intervistato in Niger era un fatto normale: dopo un matrimonio che hanno lasciato, un divorzio, la partenza o la morte del marito, esse diventano – e vengono chiamate – “femmes libres”, “donne libere”, donne che ricevono uomini e possono ricavarne vantaggi economici di vario genere e importanza.

Una questione che si potrebbe porre: c’è un continuum e tuttavia si fanno sempre distinzioni tra le forme legittime e quelle illegittime. Come spieghi queste distinzioni ?

Una differenza importante, essenziale anzi, sta come dicevo, nel diritto a gestire lo scambio, nelle regole di proprietà sul corpo della donna, cioè a chi la società attribuisce il diritto di gestirlo. E’ la famiglia, il padre, o, al contrario, è la donna a gestire sé stessa e quindi anche tra l’altro lo scambio sessuo-economico? E questo è l’elemento base che distingue le relazioni.
Mantenere le donne nella famiglia, preservare matrimonio e famiglia, significa mantenere la struttura fondamentale dei rapporti sociali tra i sessi. E’ del tutto evidente che tutte le forme di potere, individuali e collettive, sono mobilitate a questo scopo, dalle forme più coercitive alle forme ideologiche fino alla pesante stigmatizzazione delle donne che non seguono la « retta via ». Queste donne si trovano in qualche modo in situazione illegittima in rapporto all’ordine sessuale dominante (pur essendo tuttavia, a loro volta, dentro ai rapporti di potere tra uomini e donne). Il discorso della legittimità, la stigmatizzazione delle « puttane » è assai forte, e ciò contribuisce a tenere le donne nella famiglia e a conservare così la struttura familiare.
 
Il continuum dello scambio sessuo-economico comprende dunque molti casi differenti.

Certo. E si può anche analizzare, a volte viene analizzato lo scambio sessuo-economico, le transazioni sessuali in genere, senza integrarvi i rapporti di potere tra uomini e donne… Si può certo farlo ma non è questo che mi interessa, non era questo il mio problema di partenza : il mio problema è stato infatti lo scambio sessuo-economico come punto centrale dei rapporti di potere tra uomini e donne. Sembra così semplice… Ma spesso vi è una forte resistenza a vedere questa specificità dei rapporti di scambio sessuo-economico, delle transazioni sessuali tra i sessi. Si tende così a usare questa specifica espressione, « scambio sessuo-economico », semplicemente come abbreviazione di « pagamento per un servizio sessuale ». E’ un tipo di utilizzazione che indebolisce questo concetto e lo priva di interesse. E’ prendere un’idea politica e svuotarla della sua dimensione politica. Si elimina la questione dello scambio come rapporto di potere tra i sessi.
E con ciò perde peso o senso anche l’idea di continuum : non si tratta più del continuum che avevo definito dello scambio , dei rapporti di potere, e insieme anche delle forme di resistenza delle donne nella sessualità e nei rapporti sociali tra I sessi. Si tratta di un’altra cosa, di fatto di un altro campo teorico.

Da questo punto di vista si potrebbe dire che il nocciolo del tuo lavoro non è il sex work solitamente inteso, ma più in generale le forme di appropriazione delle donne e della sessualità femminile.

Sì, è un aspetto importante di quello che Colette Guillaumin (1978) chiama « sexage », un rapporto che consiste nell’appropriazione materiale delle donne, appropriazione della persona stessa e non solamente della sua forza-lavoro, qualcosa che va anche oltre l’appropriazione sessuale, il lavoro sessuale, e riguarda l’insieme del lavoro e della vita delle donne : dalla cura dei bambini, degli anziani, degli uomini, ai servizi personali dati a tutta la comunità.

Riprendendo gli esempi che fai nel libro dei percorsi di donne che cambiano di status nel corso della loro vita, tu li vedi in termini di autonomia in confronto alla forma di appropriazione privata.

Si, a volte si tratta di autonomia.  Ma per il Niger ad esempio, come per altri paesi africani (e non solo africani) si tratta di percorsi che di continuo entrano e escono dal matrimonio. L’interesse per me del lavoro sul terreno in Niger ( e questo ha anche reso il mio lavoro di ricerca assai più facile) era proprio il fatto che là si parlava di scambio sessuo-economico esplicitamente e per l’insieme, per tutto l’arco delle relazioni. Insomma in Niger non vi era, a questo riguardo, in particolare rispetto alla possibilità di parlarne, il contrasto, l’opposizione, tra matrimonio da un lato e gli altri rapporti dall’altro, né lo scambio veniva negato come avviene così frequentemente nei paesi occidentali e inoltre non vi erano solo due tipi di situazioni ma al contrario c’era chiaramente tutta una serie di situazioni, un continuum.
Nel caso delle donne che ho intervistato e conosciuto meglio non si tratta per giunta di un’uscita definitiva dal matrimonio, dall’istituzione matrimoniale. Può capitare un matrimonio migliore del precedente; a volte si sposano di nuovo per avere figli (è la sola situazione legittima per avere figli e al di fuori di questa la donna che ha figli è oggetto di pesante stigma).  Non c’è dunque una traiettoria di liberazione dall’uscita dal matrimonio alla prostituzione. Vi è piuttosto un andirivieni delle donne tra matrimonio e vita fuori del matrimonio. Ma ci sono anche gli interventi dei poteri locali, dello Stato e in passato del potere coloniale. E di solito sono interventi contro le « femmes libres » le « free women », le prostitute, ma a volte anche di interventi che favoriscono  la prostituzione. Un esempio : in Kenia negli anni 30, come ci mostra Louise White (1990), l’amministrazione coloniale inglese favorisce l’insediamento a Nairobi di prostitute per i lavoratori delle varie etnie che vi giungono o piuttosto vi sono portati per costruire la città, la ferrovia ecc. E’ ben più pratico per l’amministrazione coloniale che vi sia una prostituta che serve cinque o dieci uomini che una moglie che ne serve uno solo. Più pratico per le questioni di alloggio, meno stanze da costruire e così via. Dunque vi sono anche interventi, che si potrebbero dire cinici in rapporto alle ideologie professate, che tendono a favorire la prostituzione. E d’altra parte si conosce bene la pratica di trasferire (o deportare) donne per servire gruppi di uomini, che si tratti di soldati o di lavoratori nelle colonie  (basta pensare al romanzo di Vargas Llosa Pantaleon y las visitadoras, o al testo di Stoler (1991) sulle colonie olandesi): i « bisogni sessuali » degli uomini  sono certo oggetto di considerazione.
Per prendere un esempio assai diverso, quello che ho trovato di grande interesse nel lavoro di Elizabeth Bernstein (2007) è la correlazione a San Francisco tra la politica urbana che svuota e « risana » i quartieri della prostituzione di strada e la politica che favorisce la creazione di grandi centri di sex work nelle sue varie forme, peep-show, strip-tease... A San Francisco si punivano e si obbligavano  a frequentare corsi di rieducazione I clienti delle prostitute di strada, ma non si proponevano analoghi corsi ai clienti dei grandi eros center. Le politiche statali dunque sono assai varie. Non vi è una linea unica: vi può essere la repressione totale in alcuni momenti o zone o verso specifici gruppi di donne: così per esempio ci saranno politiche diverse nei riguardi delle prostitute locali o delle immigrate come diverse modalità di organizzazione o gestione della prostituzione in momenti diversi. Una cosa è chiara: tutto ciò non è fatto nell’interesse delle donne stesse.

Vuoi dire che in ogni caso quello che è in gioco è l’oppressione delle donne : ad esempio quando parlavi di cinismo ?

E’ cinismo, si potrebbe chiamarla una forma di cinismo rispetto all’ideologia dichiarata e professata e dichiarata. Come è che si fa una scuola per i clienti, si perseguitano le prostitute di strada e nello stesso tempo si favoriscono, di fatto, situazioni che non sono esattamente quelle della prostituzione di strada ma… Penso alle situazioni dei centri erotici con le loro diverse forme di spettacolo, dal lap-dance ai peep-shows, con I loro luoghi d’incontro, frequentati da uomini di classe media, bianchi. Siamo di fronte a una politica razzista e classista, una politica contro i poveri, una politica al tempo stesso a favore della classe media o meglio degli uomini di questa classe, bianchi... E ad ogni modo si sbandiera una morale di facciata, un’ideologia. E in ciascun caso si ha un’utilizzazione delle donne con politiche che magari sono diverse. Nel Medioevo nella Francia del Sud-Est per fare un esempio (Rossiaud 1984), i  bordelli erano municipali. Il bordello era considerato “un’istituzione di pace”, aveva infatti obiettivi di ordine pubblico: poteva aiutare a evitare disordini sociali. Perciò occorreva reclutare le prostitute, e delle ragazze povere, prive di sostegno familiare, erano portate al bordello anche a forza, spesso dopo essere state violentate (giacché come donne violentate erano puttane).
Abbiamo dunque un quadro complesso. E vi sono diversi livelli di utilizzazione delle donne : c’è la forma privata ma se serve , se è pratico, può essere o diventare una forma pubblica.

Da quando hai cominciato a lavorare su quello che sarebbe diventata il problema dello scambio sessuo-economico ?
Quale è stato il punto di partenza ?  E’ stato subito dopo aver finito il saggio sulla riproduzione… Si... non mi riesce ricostruire completamente il percorso… Nel testo sulla riproduzione avevo cercato di considerare quello che l’imposizione della riproduzione, (cioè l’organizzazione di una riproduzione imposta, addirittura forzata) poteva implicare per la sessualità. Mi ero posta il problema della « domesticazione della sessualità delle donne », della sua canalizzazione forzata nella procreazione.  Ma non mi ero posta il problema – importante e che richiede ancora riflessione e ricerca – di ciò che la canalizzazione nel servizio sessuale per gli uomini ha voluto dire e ancora implica per la sessualità delle donne: in effetti, la questione di come lo scambio sessuo-economico, (o meglio ciò che in seguito avrei chiamato “scambio sessuo-economico” ) costruisca la sessualità delle donne. Una questione che è insieme connessa e separata da quella della riproduzione forzata.
Avevo cominciato a riflettere sulle forme di divisione delle donne in donne perbene, le mogli e madri, e donne stigmatizzate, le puttane, le “donne di piacere”. Su quella divisione che nella società greca antica era così definita dalle parole di Demostene : “Le cortigiane le abbiamo per il piacere, le concubine per le cure quotidiane (del corpo), le mogli per avere figli legittimi e come guardiane fedeli delle cose domestiche”. Parole del potere, parole di totale arroganza ma precisa descrizione di come la parte dominante vedeva i rapporti tra i sessi.
E tuttavia qualcosa di quello che avevo scritto nel saggio sulla riproduzione non mi andava, era persino una fonte di fastidio, di disagio. In qualche modo avevo accettato l’opposizione moglie/prostituta e la visione – un po’ alla Kathy Barry – della prostituzione come schiavitù delle donne. E invece la letteratura africanistica in particolare, ma anche tanti altri testi di antropologia sociale che avevo usato per la ricerca sulla riproduzione, e inoltre quelli di Walkowitz e altri che avevo letto in seguito, mostravano chiaramente che questa divisione, questa opposizione totale, non reggeva assolutamente. Quindi ho sentito la necessità di riflettere più a fondo su tutto questo. E ho cominciato a porre la questione in modo diverso e a trovare al posto dell’opposizione classica tra matrimonio e prostituzione, tutta una serie di rapporti che implicavano un compenso, rapporti che tra loro presentavano variazioni riguardo a molti elementi. E soprattutto è emerso che tra le diverse culture e società non vi era neppure un consenso su cosa è o non è una puttana o prostituta, che per così dire non vi era neppure un minimo comune denominatore, cioè neppure un singolo elemento concreto e universale che permetta di dire ovunque: “Ecco una puttana è questo, ecco la prostituzione è questo”. Non è ad esempio “the many and the money” (“i molti e i soldi” come recita una definizione corrente inglese), ad essere ciò che definisce certi rapporti come prostituzione e a permettere di definire e distinguere universalmente la puttana. Lo scambio economico (in denaro o altro) può esplicitamente segnare tutti i rapporti, compreso il matrimonio e dunque non è un elemento che permetta di distinguerli e stabilire la differenza: ciò vale ad  esempio per l’Inghilterra del medioevo (si veda lo studio di Karras Mazo 1996). E per andare in altre zone, in questo caso in Uganda, tra gli Hima (Elam 1973), una donna, una moglie ha l’obbligo – pena il divorzio – di avere rapporti sessuali con chi le viene designato dal marito (in primo luogo gli uomini della parentela di lui) ma è considerata donna di malaffare se invece ha anche un solo rapporto di sua scelta e fuori della giurisdizione del marito. Dunque neppure il numero dei partner sessuali costituisce un elemento adeguato per una definizione universale, che cioè sia valida per tutte le società.
E tuttavia (come scrivevo in “Dal dono alla tariffa”) vi sono una logica e una coerenza soggiacenti a questa varietà e incoerenza apparente. Una logica e coerenza che uniscono casi peraltro assolutamente eterogenei e giustificano la loro denominazione con gli stessi termini. La categoria “puttana, prostituta, prostituzione” infatti, non si distingue per tratti specifici, né per un contenuto concreto ; è una categoria definita da una relazione : questa categoria è una funzione delle regole di proprietà sulla persona delle donne nelle differenti società. E più precisamente essa è la rottura, la trasgressione di queste regole. E appare come scandalo proprio perché si tratta delle regole fondamentali su cui si basa la famiglia, la riproduzione, i pilastri dei rapporti sociali tra i sessi.
Si tratta dunque di definizioni politiche. Sono discorsi emananti dal rapporto sociale di potere degli uomini sulle donne, discorsi sull’uso legittimo o illegittimo che può essere fatto del corpo delle donne. Sono insieme un’enunciazione dei rapporti di potere e strumento di condizionamento e di imposizione di tale potere.
Sbarazzato dunque il terreno dalle definizioni locali di cosa è o non è una puttana, restava però da costruire un altro campo. Un campo, quello dello scambio sessuo-economico, un insieme che non corrisponde o meglio non corrisponde che in parte alle definizioni date dalle diverse società. Si tratta di un insieme assai complesso giacché comprende tutte le relazioni in cui è presente uno scambio economico, tanto quelle considerate « regolari » che quelle « irregolari » (al di fuori o contro le regole sociali). Un campo che dunque comprende insieme le relazioni « legittime » come il matrimonio e una serie di altre relazioni considerate anche esse legittime (come ad esempio il treating americano ) e relazioni « non legittime » e più o meno stigmatizzate (ad esempio le varie forme di concubinaggio) per arrivare alle forme più  esplicite e stigmatizzate di scambio, ai servizi sessuali a pagamento dove le prestazioni, la durata del servizio, la misura del pagamento sono oggetto di contratto (come nella attuale prostituzione di strada o casa o in quella dei bordelli, forme storicamente ben note e assai diffuse).
Viceversa non mi ero occupata né avevo trattato, se non occasionalmente per il loro interesse comparativo, né delle relazioni omosessuali di scambio sessuo-economico, né delle relazioni in cui la transazione non avviene nella direzione indicata (gli uomini danno il compenso, le donne il servizio) ma dove è la donna che paga, e l’uomo che fornisce il servizio sessuale, come nelle relazioni con dei « gigolò » o in quelle delle turiste con i « beach boys » nei luoghi di turismo sessuale.


 

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Continua : Rapporti di genere e eterosessualità


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