L’emancipazione malata

Sguardi femministi sul lavoro che cambia

di Alessandra Vincenti


Questo libro nasce da una discussione sui molti aspetti che compongono il rapporto tra donne e lavoro per individuare continuità, rotture e resistenze in quello spazio pubblico che appare pacificato nella sua ricomposizione di genere e nell’attribuire alla donne, secondo i precetti della womeneconomics, quella capacità salvifica che ci condurrà fuori dalla crisi.

Ma questa strada di emancipazione è malata, come scrive sotto forma di domanda Lidia Cirillo, perché sta aprendo le vie ad un regresso e ristabilendo un ordine di genere che occulta la volontà maggioritaria delle donne di entrare nel mondo del lavoro superando il principio dell’adattabilità ad un destino “di conciliazione dei tempi” (anche se nella realtà solo una donna su due lavora).

Dopo il dibattito che si è aperto lo scorso anno sugli streotipi di genere (che trova spazio anche in questo libro tramite l’analisi di Daniela Pastor della tv delle grandi sorelle), sentiamo il bisogno di una discussione approfondita e pluralista sul lavoro, anche perché quell’ordine sociale di genere costruito sugli stereotipi si fonda su relazioni di potere tra i sessi basate sulla materialità delle condizioni lavorative. Come affermano le donne indiane della SEWA, nel saggio di Rosa Calderazzi, è attraverso il raggiungimento di una base materiale che si possono sviluppare riflessioni su altri temi. La rappresentazione del corpo è quindi una specificazione dell’uso della forza lavoro praticato da un sistema di mercato sempre più libero dai vincoli dei diritti.

Si tratta di un bisogno sentito in particolar modo dalle trentenni - quarantenni di oggi che si sono trovate schiacciate tra le aspettative di un lavoro espressivo (avevano studiato con passione e brillanti risultati!) e gli oltre quaranta contratti previsti oramai dalla nostra legislazione sul lavoro: quante di queste donne hanno iniziato in un luogo di lavoro con un contratto a tempo determinato – vissuto come la messa alla prova per il passaggio al contratto a tempo indeterminato – trasformato invece in collaborazione e infine nell’obbligo di apertura di una partita IVA? Intanto le più giovani sembrano lanciare uno sguardo che va oltre la sorelle maggiori alla ricerca delle madri. La spesso citata autoimprenditorialità delle donne che lascia maggior spazio di libertà è privilegio di poche, mentre per altre rappresenta una risposta all’espulsione: anche le operaie disoccupate del film Louise Michel si riuniscono per decidere che cosa fare insieme, ma ad una pizzeria preferiscono un killer per uccidere il proprietario della fabbrica. Se i killer pagassero le tasse sulle prestazioni, forse registreremmo diversi transiti da operaie a socie di cooperativa!

Ogni contributo alla discussione sul lavoro che dia visibilità alle donne è quindi benvenuto. Perché il lavoro a mio avviso è stato troppo a lungo trascurato, e intanto i cattivi lavori sono aumentati, così come sono peggiorate le condizioni di lavoro anche per chi ha la fortuna di trovare un lavoro coerente con la sua istruzione (ma guai ad ammalarsi!). Tanto che la conoscenza dei propri diritti è così poco diffusa anche in quegli ambienti (penso a quello universitario) in cui non solo è venuta meno la pratica del conflitto, ma si conoscono troppo poco strumenti e modalità di confronto e rivendicazione dei diritti.

Come scrive Lea Melandri i femminismi hanno prodotto molto materiale e da lì occorre ripartire, per evitare di ricominciare daccapo. Si può fare a patto di non opporre al vittimismo di alcune il trionfalismo di altre, bensì sottolineando che parlare di vittima significa parlare di una condizione individuale, mentre è il concetto di oppressione a far luce sui rapporti di genere.

Sullo sfondo della vertenza aperta a Pomigliano, parlare di nuovo di lavoro significa non far scivolar via la notizia che dopo il voto favorevole all’accordo, 80 operaie hanno chiesto la mobilità (e Campari ci ricorda la difficile lotta delle donne per entrare a Pomigliano). Che le donne non riescano a conciliare un’organizzazione a turni con la cura di famiglia e figli non è una novità. Ma che la scelta della mobilità venga letta solo come un problema di conciliazione, e non di intersezione tra genere e classe, rischia di accelerare quel regresso che cancella il conflitto e riattribuisce ai due sessi precisi compiti e spazi. Così il massimo che si può fare è cercare di alleggerire il lavoro di cura o agevolare la fuoriuscita delle donne dal mercato: del resto il vero problema, nel senso comune, è una crisi che colpisce l’occupazione maschile.
Bene fa Campari a sottolineare che la crisi colpisce maggiormente le donne. Se così non fosse, perché la disoccupazione femminile continua ad essere stabilmente maggiore di quella maschile? Le operaie della Omsa che improvvisano uno spettacolo in strada e già due anni fa lo spogliarello delle ex centraliniste dell'ospedale di Legnano non hanno lasciato un segno nell’immaginario di questa crisi come gli operai sul tetto della Innse. E allora perché lentamente e inesorabilmente il tasso di occupazione delle donne sta scendendo dal misero 47,2% raggiunto a fine 2008 fino al recente 46%? L’Unione Europea ci aveva abituati a guardare al tasso di occupazione come indicatore dell’andamento del mercato del lavoro fino a quando la crisi ci ha riportato a disquisire sul tasso di disoccupazione, che sappiamo rispondere ad una definizione statistica (è disoccupato chi è senza lavoro, lo sta cercando attivamente ed è disponibile a iniziare a lavorare entro due settimane) più che essere lo specchio di quella parte di offerta di lavoro che non trova o non crede sia possibile trovare un impiego.

Ripartire dalle ristrutturazioni degli anni Ottanta ci permette di vedere quanto il conflitto di genere fosse precedente a quel fenomeno di femminilizzazione che corrisponde ad un modello di partecipazione al lavoro che coinvolge le giovani generazioni senza che questo significhi una più equa distribuzione tra uomini e donne, bensì la diffusione di condizioni di lavoro tipiche della partecipazione femminile al mercato anche tra gli uomini.

Esprimo invece scetticismo sulla continuità tra cura e lavoro nel presente. La cura è un agire relazionale attribuito storicamente alle donne, ma gli studi di genere tanto hanno prodotto per dimostrare che non esistono caratteristiche maschili e femminili, bensì un simbolico del maschile e del femminile (costruito e non innato). Rivendicare la cura come specificità delle donne (e non del femminile) è un modo per evitare il conflitto e risolvere la questione con un agire adattivo. In questo modo la cura, scrive Paola Melchiori, si trasforma in strumento di segregazione: le donne non verranno meno al loro ruolo e allora può andar bene valorizzarlo. Se invece, afferma Liliana Moro, le donne rivendicassero la cura come valore culturale collettivo, si metterebbe in discussione l’ordine di genere.

Occorre quindi una ripoliticizzazione dell’intersezione tra classe e genere, che se da una parte è stato problematizzato dalle studiose attente a rilevare i dati sulle discriminazioni, dall’altro permette di allargare lo sguardo verso le molte differenze così che la badante, come scrive Manuela Cartosio, diventa specchio di un processo che ha ingrossato le fila del lavoro servile, oltre che precario.

Melchiori invita a ripartire dalle conferenze ONU, ma in un’epoca segnata dall’elogio della comunità e del territorio (quanti chilometri quadrati definiscono un territorio?) in cui l’azione europea sembra smarrita ed è più forte la rivendicazione degli interessi nazionali, l’orizzonte internazionale si fa sempre più sfocato.
Concordo con Melchiori che c’è bisogno di un lavoro teorico enorme, di uno sforzo per fuoriuscire dalla palude della burocratizzazione in cui sono finite molte politiche per le donne e che riesca a pensare ad un quadro diverso in termini di valori e pratiche. Perché, come scrive Calderazzi, si è presa coscienza oramai che questa società è ingiusta per le donne ma anche per gli uomini.


L’emancipazione malata
Sguardi femministi sul lavoro che cambia

Edizioni LUD, Milano, 2010, pagg. 209

pubblicato anche su Gli altri del 1 ottobre 2010

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