Violenza, femminismo e convivenza
di Bianca M. Pomeranzi


Tra i numerosi motivi di approfondimento e di analisi politica che questa estate dolorosa ci ha portato, molti attengono a quella “libertà del vivere e del convivere” che è stata oggetto di una dichiarazione politica in occasione delle due manifestazioni del 14 gennaio 2006.

Infatti, non si tratta solo della polemica sui Pacs per le quali il meeting ciellino, fischiando Paola Binetti, ha dimostrato tutta la propria vocazione ideologica al fondamentalismo e al tentativo di schiacciare ogni possibile nuova forma di convivenza. Si tratta piuttosto della ormai manifesta evidenza di come non si possano comprendere le condizioni materiali dell’esistenza senza “mettere al lavoro” le esperienze acquisite dalle donne nel loro faticoso processo di liberazione dalle “pratiche di dominio” patriarcale. Processo che le cronache ci dimostrano ancora incompiuto a livello globale, ma talmente ricco da fornire chiavi interpretative essenziali per la nostra contemporaneità.

Con buona pace di Francesco Merlo (Repubblica 24 agosto) che, non unico in questo esercizio, cerca di addossare alle femministe colpe che proprio non hanno in materia di un supposto “stupro etnico”, sottraendo alle donne italiane il merito innegabile di avere condotto una lunghissima battaglia per fare della violenza sessuale un reato non contro la morale, ma contro la persona, valido quindi universalmente.

Probabilmente, se il signor Merlo si fosse confrontato da vicino con una donna sulle paure di stupro e di violenza sessuale e se fin dalla sua infanzia non avesse dovuto fare i conti con l’“orda selvaggia”, non direbbe un simile ammasso di banalità sui marocchini e la verginità delle nostre fanciulle. Forse anche lui aprirebbe gli occhi sui famelici padri di famiglia che nelle periferie delle nostre città consumano “sesso etnico” a pochi euro. Forse si fermerebbe ad ascoltare, un poco, le esperienze del femminismo, non solo occidentale. Ma il femminismo è apparentemente passato di moda e si può facilmente biasimare oppure, in modo più “soft”, semplicemente dimenticare. Non è difficile, soprattutto in tempi di guerra globale, dove conta solo il diritto del più forte.

In questo clima generale, il documento sulla famiglia che la ministra Rosy Bindi ha presentato alla Camera dei Deputati, dotato di una indubbia capacità di articolazione programmatica, soprattutto a livello legislativo, appare un tentativo onesto di avviare una nuova fase politica in cui la politica possa svolgere «…la sua funzione elettiva di mediazione … e a sottrarre questa tematica a scontri e divisioni ideologiche…».

Tuttavia anche lì manca, come ha scritto in un recente articolo Lea Meandri, la capacità di riconoscere lo spessore dell’esperienza femminile e la solidità delle critiche femministe alla famiglia intesa come «società naturale, fondata sul matrimonio». Una mancanza che genera inesorabilmente la “naturale” superiorità di questa forma di convivenza su altri sistemi di relazione: sentimentale, assistenziale e di solidarietà per i quali può valere solo la difesa del diritto individuale e non della relazione stessa. Ma proprio questo distinguo, basato nella lettura forse un po’ ideologica di un articolo della Costituzione, piuttosto che sulle condizioni materiali di vita, fa scivolare il documento in una forma di “tolleranza culturale” che, diversamente dalla soluzione politica proposta, è inaccettabile perché nutre quella stessa ideologia patriarcale spesso all’origine di conflitti, traumi e violenze nei confronti di ogni manifestazione di “differenza” di sesso e di cultura.

Insomma, uno strano documento, che pur utilizzando a tratti soluzioni derivanti dall’esperienza politica del movimento delle donne, non le nomina mai, compiendo un’opera di “neutralizzazione” delle diverse soggettività sotto il cappello quasi “sacrale” della famiglia a cui fanno da corollario solo “i minori”, prodotto biologico della “società naturale”, anche essi senza nessuna distinzione di sesso, che tuttavia sono come dice il documento stesso «inspiegabilmente» oggetto e vittime di sfruttamento sessuale.

Chissà se il signor Merlo pensa che anche in quel caso si tratti di orde di marocchini. Chissà se questo interroga in qualche modo le assemblee del meeting di Rimini. Chissà se la ministra Bindi, a cui va riconosciuto di avere lavorato velocemente per l’attuazione del programma dell’Unione, sarà disponibile a avviare un dialogo non solo con le associazioni che rappresentano le famiglie, ma con tutti coloro che condividono la difficile battaglia per forme nuove di convivenza e, soprattutto con il movimento delle donne che partendo dalla rivendicazione del privato/politico, ha consentito una maggiore comprensione dei processi relazionali nella sfera famigliare.

Quell’analisi potrebbe contribuire al salto di civiltà ormai necessario per tutta l’umanità. Si tratta solo di riconoscere che la libertà delle donne genera violenza da parte dei fondamentalismi patriarcali, tenacemente impegnati a impedire il mutamento degli stili di vita, delle convivenze e della stessa politica. Spetta a noi femministe mantenere viva l’importanza di quella libertà.
 

questo articolo è apparso su Liberazione del 26  agosto  2006