Quando la "differenza" indossa l' uni-forme…

Paola Zaretti


Oikos-bios Centro Filosofico di Psicanalisi di Genere Antiviolenza

 

Le donne saranno sempre divise le une dalle altre? Non formeranno mai un corpo unico? (Olympe de Gouges)

Ecco due domande formulate, con largo anticipo sui tempi, da Olympe de Gouges a proposito di un tema d'importanza capitale: l'impossibile declinazione di unità e diversità, un nodo che affliggele relazioni - quelle tra donne incluse - temporaneamente dissoltosi, per magia, in occasione della Manifestazione del 13.
Della difficoltà a declinare unità e differenza e dei suoi risvolti negativi sulla capacità di incidenza sociale e politica delle donne e sulle loro relazioni, credo ci sia ancora di che riflettere, di che dire, di che scrivere.
Nelle occasioni in cui capita di farlo, la tendenza a navigare in superficie, al largo dalle asperità inerenti la complessità del problema, domina sovrana liquidando, a fasi alterne, uno dei due poli del bipolarsmo (l'unità), a favore dell' ipervalutazione dell'altro (la differenza), con il risultato, inevitabile, di restare dentro la logica - rovesciata ma pur sempre oppositiva ed escludente - rimproverata, a ragione, al pensiero maschile patriarcale e ai danni che non cessano di derivarne per entrambe i sessi.
Se il rischio dell'eclissi della differenza a favore dell'unità - del Singolo a favore del Generale - avrebbe detto Kierkegaard - provoca lo scatenamento di un'angoscia da "divoramento" dell'individualità, il rischio di oscuramento dell'unità a favore della differenza, comporta la rinuncia a costituire, come donne, un insieme e a coltivare l' illusione che la divisione dei gruppi in tanti corpi separati - complice il narcisismo delle piccole differenze - sia indice di  una "differenza" intesa come conquista di reciproca autonomia, di libertà, di non appartenenza a quell'Uno, tanto inviso alle donne quanto caro al pensiero unico.

Di questa difficoltà delle donne a costituire un insieme e della rassegnazione-depressione che spesso le fa compagnia, c'è persino chi, dall'empireo di una "formazione" psicanalitica neutra e dunque impermeabile alle discriminazioni di genere, ne ha approfittato: per coltivarla, rinforzarla, esaltarla e per piantarci sopra la bandiera di una teoria che trasformerebbe spaccature, distinzioni e lacerazioni in valore femminile aggiunto….  
Si tratta di un errore dicotomico e sintonico, d'altronde, con una teoria maschia che attraverso l'esaltazione del primato del paterno, ha fatto del suo meglio per dividere madre da figlia, donna da donna. In realtà, la costante divisione e frammentazione dei gruppi - così come oggi si mostra in alcune realtà italiane - lungi dall'essere un segnale di autonomia, di libertà e di ricchezza, testimonia, piuttosto, sul piano simbolico - il solo che conta - di un progressivo indebolimento delle capacità di incidenza delle donne sul corpo politico e sociale, rendendo stagnante una condizione psichica di frustrazione e d' impotenza determinate, in buona sostanza, dalla non consapevolezza o da una sottovalutazione di quanto ciascuna, mettendoci del proprio, possa contribuire, di fatto, all'eternizzazione della logica patriarcale di cui, vittima, si lamenta.


Che cosa impedisce alle donne di fare un passo oltre il binarismo e le opposizioni? Che cosa le trattiene dal liberarsi dalle sbarre di questa prigione e dal mettere in atto delle azioni politiche davvero incisive, per fermare la deriva verso cui stiamo andando? Non basterebbero  meno di tre giorni di sottrazione totale alle funzioni decisive che normalmente svolgono, giorno dopo giorno, nelle case e nei luoghi di lavoro, per far valere sul piatto della bilancia il peso enorme che hanno nel contribuire, con la loro schiavitù e i loro sacrifici, a sostenere, legittimare, autorizzare il governo di un mondo diretto da uomini che, dopo averle escluse da tutti i luoghi in cui si decide, si servono di loro per meglio funzionare?
Possiamo immaginare che cosa succederebbe, sì, ma l'azione Politica - quella che mette al primo posto la straordinarietà dell'evento della nascita, del nostro venire al mondo e la necessità di esporsi al rischio della sfera pubblica esige, come Arendt insegna, qualcosa che va oltre l'immaginazione.
Inutile dire che se la consapevolezza delle enormi potenzialità femminili fosse per le donne un patrimonio coscientemente acquisito, non sarebbe stato necessario, il 13 Febbraio, un appello istituzionale per risvegliare e dare fiato nello spazio pubblico a chi da tempo l'aveva smarrito o più non lo trovava o pensava soltanto, sbagliandosi, d'averlo perduto - senza neppure sapere, forse, né come, né quando, né dove tanta vitalità femminile capace di terremotare l'assetto socio-simbolico fosse andata a finire, né perché a quel modo, proprio a quel modo dovesse andare a finire…

Che l' impedimento, da parte delle donne, a far valere sul piano umano, sociale e politico il peso della propria forza possa derivare, fra l'altro, anche da una resistenza ad affrontare il nodo unità-differenza, in modo risolutivo, è plausibile. Certo è che, in assenza di questa fatica, se gli appelli all'unità - quando non cadono nel vuoto - finiscono per aizzare fantasmi di sparizione della propria individualità "inghiottita" all'interno di un "corpo unico" di donne (con l'angoscia che ne consegue), la rivendicazione alla "differenza" contro "l'appartenenza", incentiva, sul versante opposto, continui "agiti" di separazione fra i gruppi dando luogo a pericolosi processi di scissione e di frantumazione.
Perché non raccogliere allora l' invito di De Gouges a riconfrontarsi con l' antichissima storia del rapporto fra Uno e molteplice, Essere e divenire, sulla cui compatibilità - inconcepibile per una mente occidentale - filosofi di epoche diverse, da Parmenide in avanti, si sono rotti il capo senza riuscire a venirne a capo?

Potremmo farlo ripercorrendo e riarticolando diversamente il dilemma di Olympe, domandandoci non già se le donne, diversamente dagli uomini, saranno sempre diviseo se invece, come gli uomini,sapranno formare un "corpo unico", ma se le donne, diversa-mente dagli uomini, saranno in grado di formare un corpo unico restando differenti.
L'urgenza nasce dall'esperienza viva, dall'osservazione e dall'analisi delle modalità con cui si sono mossi in questi anni molti gruppi di donne (il riferimento non vuole essere, ovviamente, onnicomprensivo ma riguarda unicamente la realtà circoscritta in cui mi trovo ad operare), la cui divisione non ha mai facilitato le condizioni preliminari e indispensabili - incontri, confronti e, se necessario, conflitti - per la costruzione di quel "corpo unico" auspicato da Olympe, senza che ciò comporti l'azzeramento delle differenze.
Nonostante lo straordinario lavoro teorico prodotto da molte donne in Italia e all'estero soprattutto negli ultimi anni, la strada da percorrere è ancora lunga.

Ad approfittare dello spazio simbolico lasciato vuoto dalle donne per tanto tempo, ci ha pensato il deus ex machina dell'istituzione con l'inimmaginabile successo di una manifestazione il cui merito - duole ammetterlo - non ci appartiene, non è, se non in minima parte, roba nostra. Ci siamo perse per strada ed è per strada, oltre che nel chiuso delle Accademie, che dobbiamo ritrovarci per non essere espropriate, per riprenderci quel patrimonio di saperi e di desideri comuni rubati o svenduti, e un' auto-nomia che, per definizione, non può in alcun m modo dipendere né essere ad altri/e delegata a fini propagandistici ed elettorali.


Yara, Lei sì è "roba nostra" - la morte reale anche di una sola donna per mano di un uomo, è l'uccisione simbolica, la morte di tutte. Sono roba nostra Sarah, le gemelline di Irina, uccise, forse, da un padre amoroso esemplare, come lo sono tutte le figlie stuprate, strangolate e rubate alle madri, i figli strappati in nome della "patria" da guerre insensate. Sono roba nostra anche tutte le donne assassinate da mariti e compagni e tutte le prostitute massacrate.
Di violenza contro le donne si parla, indignate, da anni, ma non è venuto in mente a nessuno/a di indire né dall'alto del Palazzo né dal basso di un movimento che, smarrita la strada, non avrebbe mai avuto la forza sufficiente per farlo, una manifestazione nazionale della portata di quella del 13 contro tutte queste stragi.
Eppure questa forza c'è , anche se appare più segnata dalla "reattività" che dalla "attività".Viene allora da chiedersi se un' interpretazione riduttiva, fuorviante e un malinteso senso di quella Difference - su cui Irigaray ha costruito, per prima, la sua teoria - possano aver contribuito, in qualche misura, ad alimentare questa reattività impedendo quell'azione Politica efficace che la divisione e il progressivo logoramento delle relazioni fra donne all'interno dei gruppi non può di certo facilitare.
Comunque siano andate le cose e quali che siano le ragioni dell'abbandono dello spazio pubblico da parte delle donne, una cosa è certa: il pensiero della Difference di Irigaray non è neppure lontano parente del narcisismo delle piccole differenze che caratterizza molti gruppi "femministi" e che mina la grande aspirazione di Arendt alla felicità collettiva.
Non si può non concordare con Ida Dominjanni, quando "legge" la Difference di Irigaray come "espressione della differenza pensante", prendendo le giuste distanze sia dal rischio di pensarla come "un'essenza della femminilità" che come "la costruzione di un modello di femminilità". Se la politica della differenza sessuale è ciò che

mira a spezzare la saldatura fra ordine simbolico patriarcale e ordine politico, con la presa di parola femminile che fa uscire la differenza dall'irrappresentato, con le relazioni fra donne che rendono visibile e rafforzano la genealogia femminile…

ciò significa che questa politica - che punta al rafforzamento della genealogia femminile - è del tutto incompatibile con il settarismo autistico di gruppi non comunicanti.
Tutto ciò che incentiva la divisione fra i gruppi, tutto ciò che porta alla frantumazione delle relazioni tra donne e all'indebolimento della genealogia femminile istigando dinamiche competitive ed egemoniche di stampo maschile, lavora, sapendolo o no, per l'uni-formità e contro  il pensiero della Difference, la politica della Difference.  
Occorre dunque distinguere nettamente la politica della Difference dal narcisismo delle piccole differenze - il cui esito paradossale è l'uni-formità, l'azzeramento di tutte le differenze. Che l'uni-forme poi non sia una - come nel caso di quella indossata dal patriarcato - ma  tante… beh!  è assai poco esaltante e non fa dormire sonni tranquilli…Cui prodest ?  
Non avrà ragione per caso Gabriella Turnaturi quando scrive che Freud, nel caratterizzare l'invidia femminile come "invidia del pene":

Poco aveva guardato al mondo delle relazioni femminili per accorgersi di quanto l'invidia sia una passione che le donne si giocano e praticano soprattutto fra loro.

Ma noi invece che, meno distratte di Freud, ce ne siamo accorte da tempo, perché continuiamo a occuparci della violenza insita nella relazione uomo-donna e a rimuovere un problema che ci riguarda?
Non sarà che bisogna ricominciare proprio da qui per evitare che il rimosso ritorni sotto forma di sintomo?

 

 30-03-2011

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