Ritrovare il senso di un'antica alleanza
Per una psicanalisi dell'avvenire

Paola Zaretti

 

Come morì il nostro mucchio selvaggio? Trasformandosi in gruppi ordinati? O frantumandosi in mille schegge che continuano a vivere da sole? (1) Daniela, Il mucchio selvaggio, Riflessioni scritte in Una visceralità indicibile. La pratica dell'inconscio nel movimento delle donne anni '70)

Se il femminismo, quel "mucchio selvaggio", ha avvicinato le donne alla psicanalisi e alla Politica, la psicanalisi ha allontanato le donne dal femminismo e dalla Politica. Esiste dunque un'incompatibilità fra femminismo e psicanalisi?
E come parlare di incompatibilità se l'invenzione freudiana è nata proprio grazie alle donne e se il "pensiero della differenza" di Irigaray, psicanalista e filosofa, si è sviluppato attraverso un fecondo rapporto di scambio con la politica delle donne contribuendo in modo decisivo a una svolta teorica nel femminismo europeo e in quello anglo-statunitense? Perché questo pensiero è stato accolto in Italia dalle filosofe mentre non ha avuto seguito presso le psicanaliste?
Il libro di Lea Melandri Una visceralità indicibile. La pratica dell'inconscio nel movimento delle donne negli anni '70, mi suggerisce di ritornare, a distanza di dieci anni dalla sua pubblicazione, sull'origine e sulla natura del complesso rapporto fra femminismo e psicanalisi passando per la porta principale della Politica:

L'analisi è uno strumento unico per andare in profondità nella conoscenza e nella modificazione di sé, ma non ha ancora una dimensione politica.

Della ricerca di questa dimensione testimoniano l'esistenza del gruppo parigino Politique et psycanalyse e i temi proposti alla discussione durante un incontro organizzato nel '72 nei dintorni di Rouen: Critica dell'ideologia freudiana, La psicanalisi: arma rivoluzionaria, Critica dell'attuale pratica psicanalitica in Francia.
Sulla stessa linea di pensiero, incentrato sul rapporto psicanalisi-politica, si muove il commento di alcune femministe milanesi ai testi prodotti in quegli anni sulla Pratica dell'inconscio: fare i conti con la psicanalisi è "inevitabile" - si dice - è una "scelta politica". (L'erba voglio,'74-75).
"Quanta forza hanno oggi di parlare all'oggi questi testi?". Riformulo così,  riguardo al libro di Melandri Una visceralità indicibile, la stessa domanda da lei posta negli anni 1996-'97, in riferimento ai documenti prodotti dalla "pratica dell'inconscio" e raccolti in questo libro durante il Corso di lezioni tenute presso la Libera Università delle donne.
Inutile dire che nel mio interesse per il materiale prezioso offerto dal testo sulla storia del femminismo milanese, c'è tutto di personale e tutto di politico. C'è tutto quanto è stato indispensabile alla nascita e alla costruzione ex novo, alcuni anni fa, assieme ad altre donne - psicanaliste, psicologhe, psicoterapeute di formazioni diverse e ad alcuni uomini - non già di "una scuola psicanalitica femminista" ma di un Luogo, una Casa per tutte/i e per nessuna/o (Oikos-bios-Centro Filosofico di Psicanalisi di Genere Antiviolenza), in cui esercitare una "pratica attraverso cui "rileggere" il materiale offerto dalla tradizione psicanalitica e inventare modi per una ricerca teorica fondata sull'esperienza".
Parte essenziale di questa "rilettura", già viva negli anni '70, è il ripensamento della categoria di "malattia" e della sua collocazione nel quadro epistemico della vicenda storica dei sessi, dell'analisi di tale vicenda, dei suoi effetti deleteri sulla salute di donne e uomini e sulla relazione fra i sessi.

Il rapporto tra femminismo e psicanalisi - ho avuto modo di dirne anche di recente (Se psicanalisi non si può dire psicanalista femminista si può?, La psicanalisi è donna?, Una contro tutte. In difesa di papà Lacan. La psicanalisi sfida il femminismo) - è tema ricchissimo, complesso e contraddittorio che non può essere esaurito in poche righe, di qui la necessità di considerarne, per ora, solo alcuni aspetti. Si tratta, a ben vedere, di un rapporto mai indagato a fondo nelle sue origini, nei suoi sviluppi e molteplici risvolti e, ancor meno, nei suoi esiti finali in cui la mancanza di relazione - quasi un'inimicizia - fra due esperienze un tempo legate, appare evidente.  
Uno sguardo distratto e un'attenzione insufficiente sulle vicende inerenti questo rapporto, potrebbero anche passare inosservati, se non fosse che oggi come ieri - benché in misura ridotta - la maggior prossimità delle donne all'inconscio (reale) fa sì che siano loro, in larghissima maggioranza, a formulare agli "esperti dell'inconscio" delle richieste di "cura".
Il libro di Melandri - una "rilettura di quel patrimonio di sapere" prodotto dalla pratica dei "gruppi di autocoscienza e dell'inconscio" negli anni '70, ci offre l'occasione e  gli attrezzi indispensabili per riaprire, ad anni di distanza, un capitolo dimenticato sul rapporto fra queste due esperienze, a cominciare dalla sua genealogia, individuabile in due momenti distinti ma connessi: la fase  dell' "autocoscienza" e il passaggio alla "pratica dell'inconscio" condotta nei gruppi femministi milanesi i cui effetti, ricordati e abbondantemente documentati da Melandri, evocano una realtà vissuta che ricorda quella dimensione di immediatezza carnale, quella "ragione delle viscere" (entrãna) - come suggerito dal titolo del libro - quel "pensare-con-la-vita", quel "grano di sapere" cresciuto dalla vita, che Maria Zambrano - che femminista dichiarò di non essere - accosta alla sfera del "subconscio" ritenendo la prossimità delle donne a tale sfera una peculiarità tutta femminile preclusa all'uomo:

…si temeva "l'abisso" dei rapporti sconosciuti con le altre donne. La pratica dell'inconscio voleva dire entrare in una specie di seconda natura, in una zona che non aveva parametri di certezze storiche, era come 'affondare in un imbuto da cui non sai se riuscirai a risalire'.

La necessità di una ricostruzione storica del rapporto fra femminismo e psicanalisi, nasce da un'esigenza forte, già avvertita da Melandri con grande anticipo sui tempi, nella Prefazione al suo libro:

Talvolta forse è necessario, per procedere utilmente in avanti, arretrare di qualche passo, o rifare il cammino all'indietro per vedere se qualcosa che abbiamo tralasciato non sia invece essenziale al proseguimento.

Retrocedere per avanzare: forse è giunto nuovamente il momento di farlo per indagare sul come, sul quando e sul perché questo rapporto si è interrotto e sulla inevitabilità o meno di questa frattura.
Che nell'approccio a tale rapporto, alla sua evoluzione e ai suoi esiti, sia stato trascurato (rimosso?) pi ù di qualche aspetto - un'analisi puntuale sulle ragioni del fallito tentativo delle donne di "portare la psicanalisi dentro il femminismo", un'analisi sulle ragioni del rovesciamento di questo progetto iniziale in una direzione che ha finito per portare molte donne fuori dal movimento e dalla politica e dentro la psicanalisi istituzionale, l'incapacità di superare la dicotomia personale-politico - è fuori dubbio.
A fallire, insomma,  è stato l'audace tentativo delle donne di pensare, sull'onda del "pensiero della differenza" di Irigaray - un'altra psicanalisi, di fondare, teorizzare e praticare un'esperienza psicanalitica a misura di donne - e di uomini - irriducibile a una biografia privata individuale e svincolata dai "meccanismi di potere e di prestigio propri di un'istituzione gerarchica, come quella della tradizione psicanalitica".
Che cosa non ha funzionato o non poteva funzionare?

 
un grosso nodo della nostra pratica, il fatto che in questi anni molte compagne hanno dovuto ricorrere all'analisi individuale. Si diceva che la nostra pratica solleva delle ansie, e che queste ansie sono tali che, quando non si intravede la possibilità di (…) risolverle all'interno del gruppo con le altre donne, si ricorre all'analista. Per un movimento che parte dall'esperienza personale, dalla vita affettiva, questa è una grossa contraddizione: la modificazione  cioè chenoi ci aspettiamo dalla nostra pratica politica avviene altrove, in parte con dei grossi rischi; per esempio quello di nascondere dietro un discorso politico con le donne le proprie fantasie personali e di analizzare invece quello che è un problema legato alla nostra condizione di donne solo come nevrosi e malattia personale. In altre parole, il rischio di invertire le cose (…). Ricorrere all'analista è una contraddizione ma è anche un dato di cui dobbiamo tener conto. Se per "normalità" si intende l'accettazione di modi di esistenza alienati, allora è vero che conformarsi alla "normalità significa dichiarare la propria inesistenza, la propria morte.

Inutile rilevare, per inciso, che nel rischio di questa "inversione"-  portare in politica ciò che è personale e in analisi ciò che è politico - l' idea di una scissione fra personale e politico è già all'opera.
Ciò di cui Una visceralità indicibile testimonia, è dunque la necessità di un cammino a ritroso alla ricerca di quegli arnesi sepolti e necessari alle donne - sempre più  "frantumate in mille schegge che continuano a vivere da sole" - per la costruzione di un Gesto Politico diverso che "recuperi alla politica la vita personale nei suoi risvolti".
Un cammino a rovescio per dissotterrare quegli attrezzi, rivitalizzarli e conoscere un po' più a fondo non solo le intricate vicende inerenti il rapporto tra femminismo psicanalisi e politica che si andava faticosamente costruendo in quegli anni - fra terremoti, assestamenti  e  sforzi titanici nel tenere insieme pubblico e privato, individuale e sociale - ma anche l' evoluzione di tali vicende e il peso determinante che esse hanno avuto nel concorrere a disegnare il quadro attuale in cui, a fronte di una perdita di legami fra le esperienze indicate e dei processi di frammentazione che ne sono seguiti, il solo legame che oggi accomuna psicanalisi, femminismo e politica è un' avvenuta separazione a rischio della loro progressiva estinzione.
Ad aver contribuito in larga misura a dis-fare le relazioni faticosamente costruite da un movimento di donne decise ad avviare un dialogo e un raffronto fra esperienze diverse, ha concorso in modo sostanziale una politica fondata sull'esercizio del controllo attraverso la messa in atto di forme legalizzate di cannibalismo istituzionale.
Se sul versante psicanalitico, il progetto politico femminista - forse ingenuo, forse immaturo ma quanto mai ardito e lungimirante - di "portare la psicanalisi dentro il movimento delle donne, è stato inghiottito dalla psicanalisi istituzionale che ha finito invece per portare dentro la psicanalisi molte donne del movimento senza restituirle quasi mai alla politica, sul versante del femminismo, parte del movimento nato e cresciuto in quegli anni in molte città italiane, è stato progressivamente inghiottito dal "femminismo di Stato" mentre la psicanalisi, nell'oblio più totale delle sue origini, è oggi tristemente "trapassata" al rango di "terapia di Stato".
Tali accadimenti suggeriscono di tenere alta l'attenzione per sfuggire alla seduzione di certe amenità "scientifiche rivoluzionarie": "Oncologia di genere", "Medicina di genere". I discorsi sul "genere", moltiplicatisi grazie alle continue iniziative promosse in Italia in questi ultimi anni, si è ormai infiltrato dappertutto: nelle istituzioni, nella stampa, nelle parrocchie, nelle aziende, nelle scuole, e persino nelle farmacie e già si intravede, nell'uso soverchio e spesso osceno che se ne fa, il pericolo di un'offerta ideologica di surrogati e di risposte puramente emendative a un problema macroscopico che si vuole evitare: il primato di un ordine simbolico maschile, unisessuato, eretto a fondamento normativo e regolamentazione  della nostra cultura, del nostro modo di vivere, di pensare, di stare al mondo.
Conosciamo bene il potere performativo delle parole su cui Butler insiste: nominare qualcosa è farla esistere…Che cosa significa, in concreto, spalancare le porte alla differenza di genere in medicina e oncologia? Significa differenziare i farmaci assegnati per la cura in un'ottica che guarda ai corpi come corpi scissi e ridotti alle loro differenze anatomiche, significa alimentare una prospettiva "di genere" biologista e riduzionista da spacciare per una rivoluzione scientifica "di genere" ad opera dei potentati istituzionali e  delle baronie accademiche?

Leggere Una visceralità indicibile non è facile, c'è il rischio di lasciarsi travolgere dall'"oscenità" di un femminile "portato allo scoperto" nei gruppi di autocoscienza, dall'omosessualità che segna, dall'inizio, la relazione madre-figlia, dall'aria densa che a tratti si respira per l'insistente presenza di una parola ingombrante che ritorna, coinvolge e sconvolge  - Angoscia - a dirci di un'avvenuta trasformazione dell'affetto all'interno di gruppi formati da sole donne ma a raccontarci, anche, di tante fughe di donne, apparentemente inspiegabili, dal "mucchio selvaggio" alla fine degli anni '70.

Con il rapporto analitico ci mettiamo in condizione di sopportare tutto quello che di terribile, di pesante, di negativo, di autodistruttivo c'è nel modo in cui una donna vede le proprie simili e se stessa.

Frequentare i gruppi di autocoscienza e di pratica dell'inconscio non era una passeggiata, era vivere un'esperienza profonda e scardinante, era misurarsi con "l'orrore" suscitato dal corpo femminile, sui cui riflessi all'interno dei gruppi  Melandri si interroga in un confronto corpo a corpo con il maschile:
 
Se la comunità storica degli uomini risponde al bisogno di prendere distanza e differenziarsi dal corpo femminile da cui si nasce, identificato con la natura, con la riproduzione della specie, con le cure necessarie alla crescita dell'individuo, la nascita di una "generazione femminile - o meglio di una socialità tra donne, che si pensa per la prima volta all'interno della convivenza civile - da che cosa aveva bisogno di staccarsi così violentemente, alla fine degli anni Settanta? Che cosa aveva intravisto di così minaccioso affiorare dall'autocoscienza o dalla pratica dell'inconscio, per cancellare anche la memoria di quel suo breve inizio?

Di quale minaccia si trattava? Che cosa ha indotto quella "generazione femminile" ad avvertire, nei riguardi delle proprie "compagne di genere" e del corpo femminile da cui si nasce, un bisogno di distanziarsi così forte e persino più radicale, se possibile, di quello messo in atto dalla "comunità storica degli uomini"? Che cosa ha indotto tante donne ad allontanarsi da un'esperienza vissuta e costruita a partire dalla felice riscoperta iniziale di una "socialità tra donne"?
A questa domanda - una vera insidia per la psicanalisi - Freud ha risposto in modo lucidissimo nel '37, un anno prima di morire, in Analisi terminabile e interminabile, formulando implicitamente una diagnosi troppo onesta sullo statuto dell'ordinamento simbolico patriarcale - di cui pure era vittima e fautore - per non correre il rischio di disintegrare la fede dei suoi discepoli nei poteri curativi della sua  invenzione.
Dall'orrore e dal rifiuto del femminile non si guarisce: è questa l'ultima parola di Freud. Ma - ecco il nodo su cui riflettere - il rifiuto della femminilità, la necessità di distanziarsi e differenziarsi dal corpo di donna da cui si viene al mondo, riguarda, in modo  indifferenziato, uomini e donne.  C'è dunque, nel rigetto del femminile da parte di entrambe i sessi, dell'incurabile, c'è qualcosa, una "roccia", di fronte alla quale la "cura" si arresta e non può essere diversamente
perché "la malattia" da curare - il rifiuto di cui si tratta - ha origine Altrove: non già, se non per gli effetti, nell'uomo e nella donna presi nella loro singolare individualità, ma nel presupposto fondante che regge, affligge e governa un intero sistema di pensiero, un ordine simbolico patriarcale in cui, in assenza di un simbolo femminile equi-valente, c'è UN solo simbolo - il fallo - a rappresentare DUE sessi.
Il rifiuto del femminile - e con esso la messa a morte di ogni possibile relazione fra i sessi - è dunque già inscritto in tale ordine e l'accettazione della femminilità, stante il primato di tale ordine,  comporterebbe, per uomini e donne, la rinuncia alla propria rappresentabilità al suo interno.
Come dire che in un ordine simbolico a soggetto unico e maschile, per esistere e contare come soggetti, si è "costretti/e" a occupare, quale che sia il sesso d'appartenenza, una posizione virile con gli inevitabili effetti collaterali: impotenza, nei casi estremi, e impossibilità di relazione nei casi "normali" per i maschi, alienazione garantita per le donne. A dire di questa costrizione e di una condizione femminile situabile, a tutti gli effetti, sul registro del tragico, è l'affermazione di Lacan secondo cui per la donna la "via più facile" resta la via dell'identificazione all'uomo (al padre) e cioè la via dell'"isteria".

A proposito di questa tendenza-costrizione delle donne a identificarsi con l'uomo e a rifiutare il femminile, fra i moltissimi interrogativi offerti dal testo, c'è una domanda che scotta: in che misura tale tendenza ha contribuito a provocare, alla fine degli anni, '70, il declino del femminismo come movimento, il suo massiccio ingresso nelle istituzioni maschili della politica, della cultura, della psicanalisi, e l'avvento, parallelo, della più grande stagione d'oro della psicanalisi tradizionale?
Dalla piega presa dagli avvenimenti, è verosimile affermare che le donne, singolarmente o in gruppo, nel personale come nel politico, volendolo o no, sapendolo o no, non hanno mai cessato, loro malgrado, di lavorare per l'Altro, per la conservazione di quel simbolico costruito dall'uomo che da sempre le esclude ma al quale, pur sentendosi estranee -  proprio per questo e quale che sia il prezzo da pagare - aspirano. L'uscita di molte donne dal movimento femminista e il loro passaggio dall'esperienza dei gruppi di autocoscienza e di pratica dell'inconscio al setting psicanalitico tradizionale è rivelatore di una tendenza-preferenza a dare credito e ad affidarsi a istituzioni di stampo paterno cui delegare la raccolta e la capitalizzazione dei frutti del loro lavoro?
 

Nel rapporto analitico avviene un accaparramento, da parte dell'analista, di ciò che il paziente produce una "capitalizzazione del sapere.

Si legge così fra gli argomenti a favore de Il Progetto proposto dal "Gruppo analisi", nato a Milano nel 1974  e deciso a "portare il rapporto analitico dentro il movimento delle donne".
Perché affidare storie di dolore, di marginalità, di violenza, di cancellazione, nelle mani di uomini (e di donne) che, formati da "Maestri" di  Scuole complici del sistema di pensiero patriarcale, continuano a edificare sulle donne teorie improbabili e "cure" conformi al mantenimento di quello stesso paradigma di pensiero che tanta parte ha avuto  nel discriminarle e nel generare i loro disagi?
A che cosa è dovuto l'esito fallimentare di un Progetto politico proposto da donne ben consapevoli, peraltro, che il rapporto analitico tradizionale e l'elaborazione del sapere che lì si produce, passano attraverso i meccanismi di potere e di prestigio propri di un'istituzione gerarchica? E' forse dovuto al fatto che a formulare quel Progetto erano state delle donne?
Quando Melandri riconosce l'incapacità delle donne di esistere senza un "riferimento fisso all'uomo" e al di fuori delle strutture esistenti da lui costruite, è al deficit di un ordine simbolico centrato sul fallo e incapace, come tale, di rappresentare le donne ciò a cui fa, come Freud, giustamente riferimento:

…Mi rendevo conto che capire l'oppressione delle donne era capire fino in fondo perché le donne non riescono ad esistere senza questo riferimento fisso all'uomo. Che poi è l'uomo in carne ed ossa con cui hai un rapporto, ma è anche il mondo maschile, è tutto ciò che l'uomo ha costruito, è la cultura, è la politica, il lavoro, cioè tutte le strutture esistenti. Tentare un passo a lato, uscire da questa garanzia vuol dire fare l'esperienza dell'abbandono.

Questo rifiuto delle donne del femminile e il loro "riferimento fisso" all'uomo vengono  sintetizzati, come meglio non si potrebbe, da una donna:

Lo stare tra donne sviluppa angoscia, perché manca qualcosa tra donne, manca l'uomo, manca il fallo; l'angoscia di castrazione diventa sempre più forte; se in più c'è incapacità di elaborarla collettivamente, allora si moltiplicano le domande di analisi e andiamo ad arricchire gli psicanalisti.

Il "passo a lato" auspicato da Melandri, arrischiante, certo, ma necessario per liberarsi dalle supposte garanzie che "l'uomo in carne e ossa", il "mondo maschile", "la cultura" "la "politica" - e con essi le istituzioni psicanalitiche in quanto partecipi di un medesimo e comune orizzonte fallico - assicurerebbero, non è mai stato fatto, a quanto risulta e per delle comprensibili ragioni, né da quelle donne che pur facendo parte del movimento erano in quel momento personalmente impegnate nel setting tradizionale:

Molte donne, dopo gli anni Settanta, hanno fatto analisi personale, ma quello che hanno imparato non è più diventata acquisizione politica: ha forse cambiato le loro vite, almeno spero, le avrà rese più felici, ma non ha più dentro l'idea che sia un patrimonio che appartiene alla cultura e alla storia, e non solo alla sfera intima.

né da parte di altre donne che, impegnate in un'analisi didattica, una volta diventate psicanaliste "di professione", avrebbero avuto l'opportunità di fare quel passo.  Non vorrei essere irreverente nell'affermare che in questo secondo caso, le ragioni, pur comprensibili, appaiono difficilmente condivisibili se si considera che nulla avrebbe impedito alle psicanaliste che erano parte di quel movimento - se non loro stesse - di fondare, in seguito, anche ad anni di distanza, dei Luoghi di formazione differenti da quelle Scuole di stampo maschile da loro giustamente contestate. Tengo a precisare che nulla è più lontano dalle mie intenzioni e dalle considerazioni che seguono, da intenti di tipo pedagogico: "ciò che mi preme è comprendere" - scriveva Arendt. "Per me scrivere significa cercare di comprendere (…) e se altri comprendono - nello stesso senso in cui io ho compreso - allora provo un senso di appagamento, come quando ci si sente a casa in un luogo". Posso sottoscrivere e far mie queste parole.
Il fatto che questi Luoghi di formazione, diversamente impostati, non siano mai nati, assume un notevole rilievo soprattutto in relazione al fatto che Irigaray, nella sua determinazione a mettere sottosopra i fondamenti teorici fallocentrici della tradizione psicanalitica e filosofica - al punto da essere cacciata dall' Ecole freudienne - aveva dato vita a un pensiero che avrebbe potuto-dovuto spalancare le porte proprio a quel "genere" dipsicanalisi che il femminismo, sia pure in modo talvolta goffo ingenuo e un po' maldestro, aveva cercato, voluto e tentato di portare "dentro il movimento".
Quello che sul versante psicanalitico si è rivelato dunque uno scacco - il pensiero teorico di Irigaray, pur avendo rappresentato una svolta importante nel femminismo europeo e anglo statunitense, non è mai diventato per le psicanaliste italiane un reale punto di riferimento alternativo alla psicanalisi tradizionale - ha registrato invece, sul versante filosofico, un grande successo dando luogo in Italia, grazie a un gruppo di filosofe, alla diffusione del "pensiero della differenza".
Non c'è forse già, in quel curioso fenomeno, qualcosa che dà da pensare? Perché il "pensiero della differenza" di una psicanalista-filosofa viene accolto e diffuso da alcune filosofe italiane diventando fondamentale per il lavoro di una Comunità (Diotima, 1983), mentre per le psicanaliste non ha funzionato da stimolo per la costruzione teorica e pratica di un'altra psicanalisi, attraverso la fondazione di strutture simboliche diversamente impostate rispetto alle Chiese psicanalitiche e alle teorie trasmesse dai Padri?
Perché in Italia, dal movimento femminista di quegli anni, nascono e fioriscono, sul piano simbolico, realtà importanti come la Libreria delle donne (1975), la  Comunità filosofica di Diotima (1983) la Libera Università delle donne (1987), mentre non hanno mai preso forma, ad opera delle psicanaliste femministe, dei Luoghi di ascolto del disagio femminile e maschile all'altezza di quel patrimonio di sapere prodotto dal movimento ai fini a una nuova formazione "di genere" e a una nuova impostazione di "cura" di donne e uomini?
Sono davvero tanti, troppi i perché…e se in Italia ci sono le freudiane, le junghiane, le lacaniane, le reichiane, e qualche kleiniana e mancano all'appello le Irigarayane…una ragione certo c'è, e bisognerebbe darne conto interrogandosi: a) sulla formazione unisex degli psicanalisti; b) sull'impostazione e sugli effetti delle loro "cure" su donne e uomini; c) sulla funzione conservatrice della psicanalisi nel sociale e nel politico.
A informarci della difficoltà delle donne analiste a liberarsi dai vincoli delle istituzioni e dalle teorie  dei Padri e a imboccare a loro volta, rispetto alla psicanalisi, la via indicata dalle filosofe nel loro lavoro di decostruzione del pensiero filosofico occidentale, sono le parole, significative, di una psicanalista che faceva parte dei gruppi femministi di allora:

Era difficile tenere conto del sapere psicanalitico ortodosso, così come l'avevo imparato. Avevo fatto analisi didattica, supervisioni a non finire, e quel bagaglio di verità che riguardava appunto la femminilità, il rapporto con la madre, il rapporto con l'uomo, entrava in conflitto con la possibilità di esprimermi come donna. Pensavo di non essere più in grado di conciliare questi due saperi, quello istituzionale e quello che veniva dal femminismo; ho avuto un attimo di panico. Allora sono andata via per due anni e poi sono ritornata; da quel momento ho tentato e tento tuttora di mettere assieme entrambe le esperienze, altrimenti non saprei come lavorare; si creerebbe una lacerazione insostenibile.

Inutile dire, che se dal punto di vista personale e professionale la scelta di "conciliare" due esperienze così diverse va compresa e rispettata, da punto di vista simbolico non è tuttavia da una posizione come questa che il sogno femminista di una politica delle donne, di un salto necessario a "ricollocare la pratica dell'inconscio dentro una problematica politica più ampia" realizzando "la scommessa di recuperare alla politica la vita personale (…) per una politica diversa da quella (…) maschile", potrà mai diventare realtà.
Questo salto - come si legge in un importante passaggio di Sottosopra del Gennaio  1996 - esige dalle donne ben altro: l'effettiva disponibilità della differenza femminile a "esporsi", a "significarsi", a farsi valere per sé", al di là di ogni prevaricazione maschile:

C'è molta prevaricazione maschile, certo, nella storia umana che sembra una storia di soli uomini, ma c'è anche una parte forse non piccola di resistenza femminile alla significazione della differenza (…).

Ma che cos'è questa "resistenza femminile alla significazione della differenza" -  che si riscontra così di frequente nelle donne e che le accomuna nel desiderio e nel modo di stare dentro i partiti, dentro le scuole di psicanalisi, dentro le istituzioni in genere, - se non il rifiuto del femminile di cui scrive Freud, quel rifiuto che le "costringe" a prendere la via più facile dell'identificazione all'uomo? Credo che nessun enunciato possa esprimere meglio del passo che segue l'orizzonte tragico e desolante proprio della condizione femminile e la difficoltà a uscirne:

Strana esistenza sociale la nostra, di esseri che non sono uomini ma non possono risultare donne. (Sottosopra, Gennaio '83)

E' possibile per la donnauscire dal dilemma fra la "costrizione" dell'emancipazione alienante a "fare l'uomo"e l'inesistenza? C'è chi ha pensato, a suo tempo, che sì, che sia possibile facendo del riferimento alle donne un "riferimento primario":

Dal dilemma dell'inesistenza siamo uscite nel momento in cui il riferimento alle donne è diventato primario rispetto agli altri riferimenti sociali. (Sottosopra, Un filo di felicità, gennaio 1989)
 

Questo "riferimento primario" alle donne - essenziale per ricostruire un ponte tra psicanalisi e femminismo, "tra chi ha vissuto così intensamente quella fase del femminismo e l'oggi" - può concretarsi solo attraverso degli atti simbolici, attraverso la costruzione, la crescita e la diffusione, da parte delle donne, di nuove strutture psicanalitiche che mettano al centro delle teoria e della pratica il "pensiero della differenza" e una formazione, per uomini e donne, adeguata a tale pensiero.  

Possono le donne gettare sempre il biasimo sugli uomini e salvare la propria coscienza? [...]. (Gandhi)

Gandhi si riferiva alla lotta delle donne per il suffragio…Ma noi possiamo imparare a lottare - per averla finalmente riconosciuta - con quella parte di noi  stesse che lotta contro di noi e concorre a impedire, fra le tante azioni, anche quell'atto fondamentale per la nascita, la crescita e la diffusione di questi luoghi. E…se per caso, sparse qua e là per l'Italia, ci fossero delle psicanaliste, psicologhe e/o psicoterapeute, educatrici, femministe e non femministe, donne impegnate in altre discipline che versano in stato di "sofferenza istituzionale", sensibili all'argomento trattato e interessate a intraprendere con noi una strada tutta in salita ma ricca di sorprese, siamo a loro  disposizione.

 

Paola Zaretti  Oikos-Bios Centro Filosofico di Psicanalisi di Genere Antiviolenza
segreteria@oikos-bios.org
paola.zaretti@libero.it
049 651223
348 9525292

 

9-07-2011

 

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