La vittoria italiana ai mondiali tra sogno e real politik

di Lea Melandri

 

I vapori dell’oppio calcistico - ha scritto Mark Lazar - fanno presto a dissiparsi, e, insieme ad essi, svanisce anche l’illusione che sembra voler fare del calcio l’“ultimo collante sociale”: «I grandi abbracci di folla possono regalare brividi, ma non generare solidi legami» (da La Repubblica, 11/7/06). Il sogno è senza dubbio una grande forza riequilibratrice della vita personale, riserva di memorie e di futuro di cui la quotidianità non può fare a meno. Ma se a sognare è un popolo intero e chi lo governa, c’è ragione di allarmarsi e di chiedere che, a fari spenti, dopo la sbornia della smisurata “gioia di massa”, non si volti pagina troppo in fretta.

Sappiamo bene quanto il regime della notizia, la sua comparsa o sparizione, la sua ampiezza, la sua collocazione, contribuiscano a mantenere o modificare priorità, gerarchie di valore, tra un fatto e l’altro. La quantità abnorme di pagine che i nostri maggiori quotidiani hanno dedicato ai mondiali di calcio, intervallate solo da un profluvio di spot pubblicitari all’insegna degli “azzurri” o del “tricolore”, hanno fatto credere effettivamente che il mondo fosse diventato per magia l’immenso Bar Sport dove si celebrano gioie “candide”, vittorie inoffensive, palingenesi e riti di purificazione, dove i “Franti” che il mondo detesta si prendono la loro rivincita.

Sulle ali della favola bella volano gli stracci dell’Italia degli intrighi, delle contrapposizioni politiche, della crisi morale, degli egoismi devastanti; dialettiche improbabili di hegeliana memoria si travestono da senso comune, cambiano come abili giocolieri le carte in tavola. «Diamo sempre il meglio quando siamo alle corde, scandali, processi, meschinità... la passione vince sull’imbroglio, i puri di cuore sono più efficienti dei furbi». Per i campioni di tanta potenza trasformistica, la tracotanza viene, per così dire, “naturale”: «Abbiamo vinto con la grinta, la sorte e i difetti nazionali e nel Bar del mondo abbiamo diritto di sfottò su tutti i bleus di Francia, i carioca do Brasil, i bianchi di Germania, i malmostosi argentini» (Gianni Riotta, Corriere della Sera 10/7/06).

Aperta una breccia nelle ultime consumate difese della razionalità, l’immaginario dilaga inarrestabile, sproloquiante, involontario rivelatore del cinismo che l’accompagna: «Siamo campioni perché italiani... il calcio siamo noi dello Stivale, fantastica terra di mezzo sospesa tra i mondi... noi sappiamo che ci sono cose vere, che la vita sta da un’altra parte, a Gaza, a Baghdad, ma arriva un momento in cui il calcio porta via con sé, strappa da tutto, spezza la vita e ne costruisce un’altra. Fa diventare campioni del mondo. E il resto, onestamente, sinceramente, chissenefrega» (Mario Sconcerti, Corriere della Sera 10/7/06).

Stando alle grida che si sono levate da ogni parte la grande onda dell’emozione collettiva sarebbe partita dal basso, da un popolo che «si riprende la sua bandiera» strappandola a un’ufficialità sempre più separata. Ma l’ingresso al Circo Massimo della squadra italiana, le celebrazioni solenni della vittoria hanno evocato, non a caso, ben altri scenari: i grandi condottieri della Roma imperiale, l’esaltazione del dominio e della guerra, i gladiatori, panem et circenses.

Dove sta la verità? Un risveglio di slancio partecipativo o una politica che, come ha scritto lucidamente Filippo Ceccarelli, va a cercare nei campi di calcio, negli spogliatoi, nelle partite in tv, nei talk show che ne sviscerano il senso, quello che ha perso: «il boato dell’entusiasmo, lo sforzo delle moltitudini, le loro eterne speranze, le nuove identità, le residue appartenenze?» (Repubblica 10/7/06). Il calcio è senza dubbio lo sport più universale, metafora della comunità maschile che ha vinto prima di tutto la partita con l’“altro” sesso, figura perfetta di combinazione di opposti eternamente in guerra: testa e piedi, forza e astuzia, fratellanza e ostilità, abilità individuale e sforzo collettivo, competizione virile e femminili abbandoni alla gioia, omosessualità e omofobia. Sulla scena sono solo uomini, ma tra la folla che plaude i suoi “campioni”, le donne sono sempre più numerose, colorate, danzanti o piangenti, generose nell’inscrivere sulla loro pelle gli slogan della nazione o della squadra.

Detto questo, però, sorge un altro dubbio, che solo pochi commentatori hanno sollevato: perché il calcio ha assunto un peso così rilevante? Perché viene da pensare maliziosamente che il governo Prodi abbia realizzato quello che è stato il grande sogno di Berlusconi: fare del calcio una “questione di interesse nazionale”, unire e confondere nel nome “Forza Italia” agonismo calcistico e competizione politica?

Il conformismo, il consenso acritico, l’unanimismo di folle in delirio, che hanno fatto temere del precedente governo rigurgiti totalitari, hanno avuto, seppur in forme istituzionalmente composte, un sostegno inaspettato da parte delle attuali massime autorità pubbliche. Il presidente della Repubblica Napolitano e il capo del governo Prodi, con la loro presenza, le interviste rilasciate ai giornali, le dichiarazioni ufficiali, hanno contribuito ad alimentare un’idea di nazione, di democrazia, di identità, di unione di intenti, di crescita collettiva assai discutibili.

La “lezione della Coppa”, come l’ha definita Prodi nell’intervista a Ezio Mauro (Repubblica 12/7/06), non sembra davvero il miglior rimedio per “disincagliare” l’Italia dalle sue “mille sfide” e “farla ripartire”. Al direttore di Repubblica, che gli chiedeva se ritenesse il calcio «una metafora del Paese», Prodi ha risposto che nello sport vedeva «qualcosa di diverso ma altrettanto forte»: «il campionato del mondo di calcio è ormai l’unico grande caso in cui non conta l’individualismo, la performance del singolo, ma la squadra prevale su tutto, la bandiera è finalmente unica, la passione è in divisa».

E’ difficile non collegare queste affermazioni al discorso che ha tenuto Benedetto XVI a Valencia di fronte ad un milione di fedeli: l’esaltazione della famiglia e dei suoi valori, l’argine che essa è chiamata a rappresentare per una società che esalta l’individuo e i desideri soggettivi contro l’“unica verità oggettiva”, “naturale” e voluta da Dio.

L’individuo, la coscienza della singolarità di ogni essere, il “fastidioso obbligo di vivere per sé”, che l’Aleramo si augurava come fine del “lungo sonno” che ha legato nella sottomissione, nella dipendenza, nel tragico connubio di amore odio, gli uomini e le donne, è divenuto oggi il fantasma più temibile, condannato, per quell’ “ismo” che gli si aggiunge in fondo, segno di caos, incomunicabilità, interessi privatistici e depravazione.

La crisi della famiglia, delle patrie, delle appartenenze di ogni tipo, delle identità tradizionali, dei destini “naturali”, l’incrinarsi, soprattutto, della complementarietà millenaria dei sessi - dei loro ruoli, poteri, gerarchie - sembra averne evocato i fantasmi e favorito la loro ricostruzione in chiave mitica, onnipotente. Cancellata ogni ombra di violenza, di conflitti, di mutamenti che l’attraversano, il matrimonio diventa, nelle parole del papa, la “meravigliosa realtà” per “crescere in modo integrale”.

Non diversamente, dimentico di quanta “unicità”, “spirito nazionale”, “amor di patria”, “bandiere”, “desiderio di vittoria”, “feste di popolo”, abbiano contraddistinto le peggiori sciagure della storia, quanto sia temibile oggi il loro riaffiorare nei fondamentalismi etnici e religiosi, Prodi indica nella squadra che ha vinto i mondiali di calcio il modello di un “soggetto unico”, di uno “spirito nazionale” indiviso, accomunato dal simbolo di una bandiera vittoriosa, “un ottimo passaporto per un Paese che vuole farsi strada”. Salita l’Italia coi suoi campioni sportivi “sul tetto del mondo”, niente sembra più impossibile, neanche sposare cultura e marketing, passione e economia, rinascita economica e valori morali, sogno e real politik.

Ma all’apoteosi di famiglia e patria non poteva mancare il collante primo, originario: il femminile nella figura di madri e sorelle. Dopo la festa di popolo al Circo Massimo, le pagine dei giornali si sono riempite dei commenti al caso Zidane, il campione della squadra francese espulso per aver dato una testata in pieno petto a Materazzi. Sul contenuto dell’offesa che ha provocato una reazione così violenta si è concentrata non a caso l’attenzione dei media: l’insulto, la denigrazione dell’avversario, i simboli violenti di ogni forma di contrapposizione amico-nemico, accompagnano da sempre il calcio, metafora della guerra, del conflitto tra popoli, gruppi, culture, e a volte lo sormontano eclissandone l’aspetto di gioco.

E’ toccato a Zidane, simbolo massimo del valore calcistico, oltrepassare quella soglia che scopre la materia ibrida, melmosa, inquietante di ideologie, pregiudizi arcaici di cui è impastato il calcio. Attraverso il suo gesto è come se il margine, le “curve” urlanti, trasgressive, violente, degli stadi, fossero scese nel centro campo e avessero rivelato gerarchie, poteri, valori che parlano della società, della storia, della politica, molto poco del calcio e dello sport in generale.

Razzismo, nazionalismo, omofobia, misoginia, come ha scritto Angela Azzaro su Liberazione, hanno attraversato e nutrito ampiamente la grande enfasi collettiva, ma è solo in questo ultimo strascico dei mondiali che hanno mostrato in che ordine si siano tradizionalmente disposti: «Per giustificare un premio ingiustificabile, ci si è messi a pesare il banalissimo insulto di Materazzi: la famiglia, la sorella, la mamma... durante una partita quando c’è il contatto fisico, l’insulto alle mogli e alle sorelle è scontato, anche se nessuno conosce davvero le mogli e le sorelle dei giocatori o degli arbitri, che mai si ritengono offese, mai si ribellano, mai querelano» (Francesco Merlo, Repubblica 13/7/06).

E’ vero, purtroppo, i “campioni” incantano ancora troppe donne!

 

questo articolo è apparso su Liberazione del 15  luglio  2006