20 settembre 2014
Cura, tempo di vita e lavoro extradomestico: quali cambiamenti nel rapporto tra i sessi e tra le generazioni?

 

Tra le generazioni
di Liliana Moro

il tempo delle donne


Marisa Ombra (vicepresidente dell'ANPI, tra le fondatrici dei Gruppi di Difesa della Donna) scrive in un suo testo recente a proposito del vivere in montagna nelle formazioni partigiane:

“Non voglio dire che, di punto in bianco, tutti si siano fatti una ragione del vivere insieme giorno e notte. Un partigiano, abituato a come andavano prima le cose, trovò per esempio naturale chiedere a una ragazza di cucirgli un bottone. Ma la ragazza reagì male. La maggior parte capì che non si era andate lì per fare le stesse cose di sempre, che si dovevano fare i conti con ragazze diverse, o diventate diverse, che andavano trattate con rispetto e gentilezza.” (Marisa Ombra, Libertà in D.Gallo e I.Poma (cura), Storie della resistenza, Sellerio, 2013)


Già le partigiane, alcune almeno, rifiutarono comportamenti tradizionali, uscirono dallo schema classico di divisione dei lavori, in quanto affermavano una loro scelta politica, una propria dimensione politica che le poneva su un piano differente, in un ruolo da cittadine e non da casalinghe.
(Noto per inciso che sovente della partecipazione femminile alla Resistenza si è fatta una lettura riduttiva : le donne sono ricordate come staffette, portaordini e non combattenti. Del resto si è fatta una narrazione riduttiva anche della resistenza, presentandola come puro evento militare e cancellando tutte le forme di resistenza civile, di cui sono state protagoniste le donne.)
Si trattò, dunque, di una generazione che aveva ricevuto un'educazione tradizionale, aveva respirato il clima culturale fascista fortemente connotato da rigide distinzioni di genere, ma non poche rifiutarono il classico ruolo femminile.

Veniamo alla mia generazione. Negli anni '70 si usava molto l'espressione “uscire dai ruoli” non volevamo essere casalinghe, e nemmeno mogli di... madri di...
Alle manifestazioni si gridava “maschietto represso non stare lì a guardare, a casa ci sono i piatti da lavare”. E in effetti nessuno li lavava.
Eravamo anche la prima generazione di ragazze italiane che frequentava in massa l'università e investiva molto sul piano del sapere, della conoscenza e anche del lavoro fuori casa. Ciò che ci appassionava non era tanto – o non solo- il far carriera, ma piuttosto l'impegno nella società, nel pubblico, nel politico (inteso allora nel senso di passione disinteressata per la cosa pubblica). Ed era sorprendente e piacevole ammettere -anche a se stesse- di volersi realizzare, provare il desiderio di mettere alla prova le proprie capacità.
Era una spinta forte a uscire dalle case e ad allargare la trama dei rapporti oltre la famiglia. Anzi si negava proprio la famiglia con la F maiuscola.


Solo in anni successivi abbiamo visto quanto le donne sono affezionate ai loro ruoli e lavori di cura, alla loro funzione accudente, da cui traggono grande conforto e gratificazione. Come ha ben detto Nicoletta nel suo intervento. Le donne si sentono potenti sul piano degli affetti.
La cura rappresenta un tratto identitario, abbiamo scritto nel libro Pensare la cura curare il pensiero. Nel lavoro di riflessione sfociato in questo libro è uscita però un'istanza forte: che la cura esca dal privato e diventi una priorità sociale. Non portata avanti dalle donne, salvatrici del mondo e del pianeta, ma divenuta una priorità per tutti, fatta propria anche dagli uomini.

Se vogliamo davvero affrontare la questione, deve saltare non solo la dicotomia dei ruoli nella divisione dei carichi domestici, così come l'attribuzione di diverse sfere di intervento a “maschi” e “femmine”, ma devono cambiare le logiche stesse del pubblico e del privato. Non si sposta nulla se anche le donne fanno il soldato o il ministro della difesa. Bisogna che gli uomini smettano di fare la guerra e la finanza (che mi sembra la prosecuzione della guerra con altri mezzi) e le donne smettano di prendersi cura. Perché le due cose sono speculari.
Per arrivare a questo bisogna tutti imparare a confliggere non in modo distruttivo ma costruttivo. Vista la riduzione del conflitto a scontro armato. Noi donne abbiamo, in genere, una gran paura del conflitto, del dissenso, del contrasto. Temiamo di cadere nel caos, nel baratro della distruzione totale e allora pur di evitare lo scontro accettiamo tutto in silenzio, rodendoci il fegato.

Questo l'ho capito con la prosecuzione del lavoro del gruppo 'scrittura d'esperienza' che dopo la cura si è occupato di conflitto e ha prodotto un altro librino In punta di piedi nel conflitto.
Non si tratta di imparare a sparare, usare le armi, per essere all'altezza dei “maschi”, anzi si tratta di reggere il conflitto, sia con uomini che con donne, e riuscire ad affermare la propria diversità in modo sereno ma deciso, sicuro.
Cosa che è possibile solo se si sviluppa la solidarietà femminile, un fiore raro.

 

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