20 settembre 2014
Cura, tempo di vita e lavoro extradomestico: quali cambiamenti nel rapporto tra i sessi e tra le generazioni?

 

La cura

di Nicoletta Buonapace

il tempo delle donne

Per due anni, come gruppo scrittura della Libera Università delle Donne, ci siamo interrogate sulla questione della cura. Un tema scottante per molte di noi, impegnate prima magari con i figli, le figlie, i mariti, familiari, poi con i genitori anziani, che ha suscitato perciò pensieri, domande, conflitti.

Una questione difficile da dipanare, proprio perché abbiamo visto quanto profondamente intrecci dimensioni diverse del vivere: il sé e il mondo, la necessità e la libertà, l’affettività, l’intimità, e la dimensione politica quando abbiamo visto chiaramente che lo Stato demanda massimamente alla famiglia la cura dei soggetti in difficoltà, ma il termine “famiglia”, in realtà, sappiamo per esperienza, è incarnato soprattutto dalle donne. Per questo motivo non abbiamo potuto che dare soltanto uno scorcio di paesaggio, nello sforzo di un minimo di limpidezza. Ancora adesso, mi rendo conto, mi è difficile proporre un discorso articolato, che tenga conto di tutta l’ambiguità, le contraddizioni, le difficoltà che sono uscite dai nostri scritti e conversazioni e che hanno reso arduo il pensare il concetto di cura.

Per certi versi la concretezza e l’urgenza del prendersi cura impediscono di pensarla, per le tante implicazioni che mette in gioco. Molte di noi ne hanno parlato, a partire da un’esperienza che rivelava un’estrema fatica, spossessamento, ma sorprendentemente anche la possibilità di uno scambio che sembrava ripagare di tutta quella fatica, un ricevere nel dare, qualcosa che portava a riconoscere certe qualità come intrinsecamente femminili: empatia, attenzione, dono (con tutta quella carica tuttavia ambigua che questa “bontà intrinseca” porta con sé). A volte ho sentito chiaramente la volontà di dare un valore morale e fondante all’essere per l’altro/a, ma insieme, e questo è inquietante, a una tentazione: quella di una via di fuga da un sé ritenuto ingombrante, “poca cosa, non importante”, ha scritto una di noi, una fatica e un’angoscia nell’occuparsi di sé, oppure altrove, il chiedersi attraverso quale modo la cura di se stesse possa non divenire una forma di egoismo e questo non può non apparirmi come un retaggio e un condizionamento culturale. Mi piace a questo punto citare Elena Pulcini che abbiamo letto durante il gruppo: “Per chi voglia riflettere oggi sull’identità femminile, è inevitabile il confronto con l’immagine simbolica radicata, forse più d’ogni altra, nella coscienza occidentale e moderna: vale a dire l’immagine della donna come colei che incarna le qualità della cura e dell’amore per l’altro, della dedizione e dell’accudimento, (…) la cui peculiarità affettiva consiste “più nell’amare che nell’essere amati” come dice Aristotele”. (Elena Pulcini, Il potere di unire. Femminile, desiderio, cura, Bollati Boringhieri, 2003) E’ un’immagine potente, dalla quale in fondo è difficile staccarsi, perché ha qualcosa di gratificante, qualcosa che va ad appoggiarsi su un sentimento di indispensabilità e grandezza, a volte ai limiti del sentimento di onnipotenza, e che rischia di lasciare un vuoto nel momento in cui viene meno. Quel vuoto appunto in cui il sé diventa “ingombrante”, privo di fondamento, improvvisamente “inutile”. La domanda perciò legata all’egoismo mi pare che nasconda la fatica di legittimarsi alla cura di sé, alla conquista di tempo e spazio per sé, alla decostruzione di un modello per un’identità più libera. C’è un giudizio di valore sulla cura, buono se rivolto ad altri/e, confusamente discutibile se rivolto a sé. Diventa allora chiaro come mai è così facile sentirsi in colpa quando decidiamo di essere “più importanti”, di non farsi annullare dai bisogni altrui.

Ora, sappiamo quanto sia radicato questo simbolico costruito intorno alla donna cui fa da contraltare , cito ancora Pulcini, “un oscuro e pesante risvolto di esclusione, disuguaglianza, subalternità”, il quale è poi all’origine di desideri di risarcimento, rabbie, rivendicazioni, che tanto ci infastidiscono, tranne poi, in alcuni casi, riprodurle inconsapevolmente. Pulcini si chiede se sia possibile sottrarre il concetto di dono (così profondamente legato, nell’immaginario, alla cura) alla schiavitù da cui è nato per farne azione liberamente scelta, per non buttare via il bambino insieme all’acqua sporca, poiché, dice, questa capacità di dono potrebbe svolgere nel mondo una funzione etica, essere alla base di nuove relazioni, fondare modalità che facciano ricchezza di qualità femminili come l’empatia, l’attenzione, l’accoglienza e si risponde che sì, è possibile, a patto tuttavia di uscire dalla logica sacrificale del dono tenendone insieme dice “la feconda ambivalenza capace di coniugare in sé autonomia e consapevolezza della dipendenza, autenticità e ospitalità, autorealizzazione e solidarietà”, sostanzialmente trasformando tale “tradizionale qualità donativa da attributo naturale passivamente subito e portatore di rinuncia e di esclusione, in strumento attivo di ridefinizione di sé come soggetto eminentemente relazionale e ospitale”. Credo che questo possa essere auspicabile, ma credo che dovrebbe essere integrato, perché possa divenire autentico, anche dagli uomini, così come diceva, in un suo scritto Liliana Moro: “Se le donne rivendicassero la cura come valore culturale collettivo, invece di farsene carico privatamente nella pratica, sarebbe possibile toglierla dalla dicotomia di genere e rendere la sua positività una carica energetica valida per tutti, attivabile anche dagli uomini e dalla società”. (Donne e scrittura, Pensare la cura, curare il pensiero , LUD, 2011)

Da questo punto di vista sono molti i desideri, i pensieri, che vanno in questa direzione.

Si tratta di riappropriarsi di sé attraverso la costruzione di una relazione di libertà e non di potere (quel potere soffocante che può investire il soggetto che cura e inchiodare l’altro/a a una passività egualmente soffocante). Imparare ad avere consapevolezza delle distanze e dei confini, nella rinuncia alla nostra pretesa d’assoluto, indispensabilità, rinunciare a un “dover essere” per essere se stesse è qualcosa di generativo, non solo di un sé più autentico, in una prospettiva di libertà, ma anche di un nuovo modello di relazione. Credo perciò che si debba spostare l’idea di cura dai soggetti alla cura della relazione, come luogo terzo. L’idea di una relazione che dia spazio anche all’”imperfezione”, la ricerca di un modo di stare all’interno di essa che contempli quella che molti definiscono “interdipendenza”, che sta a indicare la consapevolezza di un certo reciproco grado di dipendenza, ma anche la capacità di vederla e accoglierla perché credo sia vero che il prendersi cura di sé non può eludere il tipo di rapporto che abbiamo con chi ci è prossimo e il mondo.

Spostare il fuoco sulla relazione più che sui soggetti della relazione, mantenendo attenzione al proprio sentire, mi sembra sia una delle sfide più grandi, così come il riconoscere che non ha senso attribuire l’empatia e la capacità di cura al genere femminile, ma rendere queste qualità valori in una prospettiva etica e sociale, da assumere insieme a quelli di solidarietà e integrazione, in un compito che spetta congiuntamente agli uomini e alle donne.

 

 

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