Liliana Moro, Andar pensando

Donne, maternità, guerra, scuola, storia e scienza

 


La vita è un cammino che non tutti percorrono pensando.
Si tratta di vivere, semplicemente vivere, ma tenendo aperti gli spazi del pensiero, spalancando le finestre della mente e le porte del cuore, perché il pensiero cresce nella relazione, nel confronto.
Diventa così possibile per l'autrice indagare esperienze come la maternità, la cura e il femminismo, guardare al mondo della scuola, alla storia e inoltre alla guerra e alla scienza con quell'autonomia di pensiero che è consentita dall'incontro e dalla pratica collettiva con altre donne.

Recensioni

Barbara Mapelli

Valeria Fieramonte

Rosaura Galbiati

Luciana Percovich

Video presentazioni in Youtube

alla Lud

alla Casa delle donne

 


Introduzione

Per sette vie

La mia è stata una vita come tante, ma anche unica, se la guardo attentamente, sempre più unica e sempre più comune almeno a una generazione: la generazione nata alla fine della seconda guerra mondiale che ha vissuto il Sessantotto in anni giovanili.

Ciò che ho scritto ed è stato pubblicato in diverse situazioni, dal 1994 al 2019, risulta qui raccolto attorno a sette nuclei tematici: la maternità, il mondo della scuola, la storia, il femminismo e la cura, la guerra, la scienza.

Come si vedrà sono temi su cui torno ciclicamente in modi diversi, mi hanno accompagnato con una interrogazione su di me, sui tratti della mia identità, fonte di dubbi, stupori e incertezze. Essere donna, madre, figlia, insegnante... li ho sottoposti a una indagine che è stata sollecitata e accompagnata dall'incontro e dalla pratica collettiva con altre donne che ho incontrato negli anni '70 e non ho più voluto, meglio non ho potuto, abbandonare.

Prima compagna di cammino Sara Sesti, che mi ha introdotto nel gruppo della Cooperativa “Gervasia Broxon” con Paola Melchiori e Lea Melandri. Poi con le stesse amiche ed altre, tra cui Maria Nadotti, Paola Redaelli, Silvana Sgarioto e Maria Attanasio, c'è stata l'avventura della rivista “Lapis” per cui ho iniziato una delle attività che più mi divertono e appagano: leggere e scrivere recensioni. Ne ho riportate alcune, essendo letture che hanno accompagnato il mio percorso e che ritengo ancora interessanti.

Altra tappa la collaborazione con la Libera Università delle Donne (Lud), avviata dall'inizio degli anni '90 mentre continuavo il lavoro d'insegnamento nella scuola superiore. Mi ha profondamente coinvolto la frequentazione del gruppo di lettura e scrittura d'esperienza, qui documentato con scritti sulla cura e sulla guerra.

Negli stessi anni il tuffo nel mondo della scienza in compagnia di Sara Sesti. Le due esperienze sono state accompagnate e documentate nella gestione del sito della Lud, anche questa condotta insieme a Sara a partire dai primi anni Duemila.

Nell'arco di questi anni la scrittura fu strumento di analisi anche prima di essere strumento di comunicazione: gli scritti nascevano dal confronto, dagli scambi con altre donne, a volte erano rivolti ad occasioni di incontro, sempre pensati per un 'pubblico' femminile. Il mio lettore è stato una lettrice, sovente reale, le donne con cui facevo attività femminista o le/i giovani e le insegnanti a cui si proponeva la ricerca sulle scienziate.

Questa particolarità si riflette nel linguaggio, denso, forse insolito, come un aratro che avanzi lentamente in un terreno pesante, e reca le tracce del diverso contesto in cui questi scritti sono nati.

Nel tempo il referente si è allargato, il maschile non è stato più un ostacolo da superare, nel senso del pensiero patriarcale interiorizzato, è divenuto un interlocutore a cui proporre uno sguardo nuovo, per un futuro, di uomini e donne, più umano.

 

In apertura uno scritto che raccoglie in sintesi le tappe del mio percorso: la passione per la storia, la riflessione sulla famiglia, la cura e il conflitto, il femminismo. Era il mio intervento ad un incontro del 2014 organizzato dalla Lud con il Blog 27esimaora del Corriere della sera sul tema “Cura, tempo di vita e lavoro extradomestico: generazioni a confronto”. Vi parteciparono donne di diverse età, tra cui anche mia figlia. Il mio più grande problema, quello della maternità, vi era dunque rappresentato, per così dire, dal vivo.

 

Tra le generazioni



Marisa Ombra (1925-2019 vicepresidente dell'ANPI, tra le fondatrici dei Gruppi di Difesa della Donna, dirigente UDI) scrive a proposito del vivere in montagna nelle formazioni partigiane:

“Non voglio dire che, di punto in bianco, tutti si siano fatti una ragione del vivere insieme giorno e notte. Un partigiano, abituato a come andavano prima le cose, trovò per esempio naturale chiedere a una ragazza di cucirgli un bottone. Ma la ragazza reagì male. La maggior parte capì che non si era andate lì per fare le stesse cose di sempre, che si dovevano fare i conti con ragazze diverse, o diventate diverse, che andavano trattate con rispetto e gentilezza.”

Le partigiane, alcune almeno, rifiutarono comportamenti tradizionali, uscirono dallo schema classico di divisione dei lavori, in quanto affermavano una loro scelta precisa, una propria dimensione politica che le poneva su un piano differente, in un ruolo da cittadine e non da casalinghe.

Noto per inciso che sovente della partecipazione femminile alla Resistenza si è fatta una lettura riduttiva: le donne sono ricordate come staffette, portaordini e non come combattenti. Del resto si è fatta una narrazione riduttiva anche della Resistenza, presentandola come puro evento militare e cancellando tutte le forme di resistenza civile, di cui sono state protagoniste soprattutto le donne.

Si trattò, dunque, di una generazione che aveva ricevuto un'educazione tradizionale, aveva respirato il clima culturale fascista, fortemente connotato da rigide distinzioni di genere, ma non poche rifiutarono il classico ruolo femminile.

Veniamo alla mia generazione. Negli anni '70 si usava molto l'espressione “uscire dai ruoli” non volevamo essere casalinghe, e nemmeno mogli di... madri di...

Alle manifestazioni si gridava “maschietto represso non stare lì a guardare, a casa ci sono i piatti da lavare”. E in effetti nessuno li lavava.

Eravamo anche la prima generazione di ragazze italiane che frequentava in massa l'università e investiva molto sul piano del sapere, della conoscenza e del lavoro fuori casa. Ciò che ci appassionava non era tanto – o non solo- il far carriera, ma piuttosto l'impegno nella società, nel pubblico, nel politico (inteso allora nel senso di passione disinteressata per la cosa pubblica). Ed era sorprendente e piacevole ammettere -anche a se stesse- di volersi realizzare, provare il desiderio di mettere alla prova le proprie capacità.

Era una spinta forte a uscire dalle case e ad allargare la trama dei rapporti oltre la famiglia. Anzi si negava proprio “la Famiglia” al singolare e con la maiuscola.

Solo in anni successivi abbiamo visto quanto le donne sono affezionate ai loro ruoli e lavori di cura, alla loro funzione accudente, da cui traggono grande conforto e gratificazione. Le donne si sentono potenti sul piano degli affetti. La cura rappresenta un tratto identitario, abbiamo scritto nel libro “Pensare la cura curare il pensiero”. Nel lavoro di riflessione sfociato in questo libro è uscita però un'istanza forte: che la cura esca dal privato e diventi una priorità sociale. Non portata avanti dalle donne, salvatrici del mondo e del pianeta, ma divenuta una priorità per tutti, fatta propria anche dagli uomini.

Se vogliamo davvero affrontare la questione, deve saltare non solo la dicotomia dei ruoli nella divisione dei carichi domestici, così come l'attribuzione di diverse sfere di intervento a 'maschi' e 'femmine', ma devono cambiare le logiche stesse del pubblico e del privato. Non si sposta nulla se anche le donne fanno il soldato o il ministro della difesa. Bisogna che gli uomini smettano di fare la guerra e la finanza (che mi sembra la prosecuzione della guerra con altri mezzi) e le donne smettano di prendersi cura. Perché le due cose sono speculari.

Per arrivare a questo è necessario per tutti imparare a confliggere non in modo distruttivo ma costruttivo. Vista la riduzione del conflitto a scontro armato, noi donne abbiamo, in genere, una gran paura di ogni conflitto, del dissenso, del contrasto. Temiamo di cadere nel caos, nel baratro della distruzione totale e allora pur di evitare lo scontro accettiamo tutto in silenzio... rodendoci il fegato. Questo l'ho capito con la prosecuzione del lavoro nel gruppo 'scrittura d'esperienza' che dopo la cura si è occupato di conflitto. Non si tratta di imparare a sparare, di saper usare le armi per essere all'altezza dei 'maschi'.

Serve invece per tutti sviluppare la capacità di reggere il conflitto e riuscire ad affermare la propria diversità in modo sereno ma deciso, sicuro.

Cosa che per una donna è possibile solo se si sviluppa la solidarietà femminile, un fiore raro.

 

 

Liliana Moro, Andar pensando
Ledizioni, Milano, 2020
pagg. 223
cartaceo € 14,90
e-book €6,99

Può essere ordinato online sul sito dell'editore a questo link: Andar pensando

e sulle principali librerie virtuali

 

 

15-11-2020

 

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