Femminismo della differenza e donne nell'Islam: una risposta a Monica Lanfranco

La libertà femminile non si esporta

di Imma Barbarossa


Marina Abramovic


Io non so chi siano gli «illustri intellettuali e attivisti di sinistra» (di cui parla Monica Lanfranco su Liberazione del 1° febbraio) a cui non importerebbe nulla se in Medio Oriente, in special modo in Iraq e Palestina, prevalgano regimi fondamentalisti. Non lo so e non mi importa nemmeno molto di saperlo. Mi importa invece molto ricordare, a me stessa e a quante hanno a cuore le sorti del femminismo, quale sia la posta in gioco oggi per le donne.

Si rischia di pensare alle donne come a persone da liberare in nome dei diritti umani (e della concezione occidentale della democrazia), o esclusivamente come vittime di guerra e occupazione o del fondamentalismo islamico. Le soldate, le torturatrici di Abu Ghraib sarebbero delle eccezioni o una nefasta conseguenza dell'emancipazionismo; le attentatrici suicide sarebbero delle martiri o delle "irregolari" che riscattano con il martirio il loro onore. Il punto di vista forte, autonomo delle donne su guerra e terrorismo, che ha segnato la cultura, la pratica, il simbolico degli ultimi venti anni, sembra oscurato, costretto nei parametri degli schieramenti di campo, o annegato in una sorta di esaltazione mitica e naturalistica della bontà femminile.


A volte alle femministe, che fanno riferimento alla differenza di genere come ad un parametro fondativo di lettura del mondo e di interpretazione della storia del genere umano, è stata rivolta l'accusa di sposare un differenzialismo postmoderno, postilluministico e postkantiano e di azzerare l'uguaglianza, grande conquista del marxismo, di un Marx a cui si attribuiva in maniera dogmatica l'aver capito tutto e l'aver compreso nella rivoluzione degli uomini anche la liberazione delle donne. Questa della "differenza usata e abusata dall'estrema destra" francamente da Monica non me lo aspettavo.

Ma andiamo al cuore del problema. La III Conferenza dell'Onu sulle donne a Nairobi (1985) vide una situazione di pesante scontro tra le donne del sud del mondo e le donne del nord: queste ultime venivano accusate di colonizzare e di pretendere di imporre il femminismo bianco occidentale alle donne del resto del mondo. Si era intanto sviluppato tra le intellettuali afro-americane il femminismo postcoloniale che chiedeva a noi "emancipate" di tener conto delle differenze nella differenza di genere: non solo donna, ma donna, nera, lesbica, povera. Ebbene, da Nairobi prendemmo coscienza in primo luogo che la libertà femminile non è un fiore di serra, in secondo luogo che essa non si impone, non si predica, non la si esibisce. È stato un lavoro duro, di scavo, di confronto, di grande dibattito. C'erano tra noi occidentali a cavallo degli anni 90 posizioni di differenzialismo e di relativismo etnico-culturale (del tipo "rispettare culture e tradizioni", persino sulle mutilazioni genitali), ma si è sempre trattato di riflessioni a partire da noi, poche volte di posizioni "giustificazioniste" dell'oppressione maschile in nome delle lotte dei popoli oppressi.

Sono passati anni di riflessione e di ascolto reciproco; abbiamo discusso molto delle donne migranti che chiedevano ai "nostri" ospedali la pratica dell'infibulazione per le loro bambine perché - ci dicevano - non avrebbero potuto sposare uomini delle loro comunità, senza quella pratica. Il dibattito fu complesso poiché - si diceva - l'alternativa era la pratica del "fai da te" con le inevitabili conseguenze da un punto di vista igienico-sanitario, giacché da noi non ci sono nemmeno le erbe guaritrici.

Era una discussione forte che metteva in crisi le nostre certezze, l'universalismo omologante e l'idea che i diritti umani vanno anche imposti. Ma è così?

Arrivammo dopo dieci anni a Pechino nel 1995, dove partecipavano in massa donne africane e del sud del mondo e dove trovammo delle mediazioni altissime: a) i diritti delle donne sono diritti umani e tra i diritti c'è l'integrità del proprio corpo e il rispetto della propria identità; b) e soprattutto la libertà femminile non si esporta, nasce da uno scambio in cui tutte ci mettiamo in discussione.

Alla luce di questa breve storia ci sentiamo di prendere parola contro le mutilazioni genitali, comprese quella volgarmente detta "leggera", proposta da un medico non occidentale di una Asl toscana, contro cui sono insorte le donne di "Punto di partenza". A partire da qui condanniamo il codice di famiglia algerino e tutte le leggi contro le donne in ogni paese del mondo, compresa la nostra legge 40 (Pma) contro la quale dobbiamo prepararci ai referendum nella prossima primavera.


Ed è a partire da questa storia che prendiamo parola, con altre, contro una sorta di rivisitazione del movimento delle donne degli anni 70 (Anna Bravo) come un coacervo di violenza e di orrori. Mai abbiamo considerato l'aborto una gloriosa conquista del movimento delle donne, anzi abbiamo inserito la riflessione sulla maternità all'interno di un difficile equilibrio tra desiderio e sofferenza. Ma abbiamo fatto dell'autodeterminazione delle donne un principio da cui non si torna indietro. Forse le militanti della doppia militanza ne facevano una questione "anticapitalistica". Certo non tante di noi.

Ma che c'entra il velo? Una legge come quella francese che proibisce il velo nei luoghi pubblici è sbagliata e offensiva, perché lo Stato non può imporre il modo di vestire. Le donne delle banlieux mettono il velo perché costrette dagli uomini delle loro comunità? Può essere, ma la libertà in tal caso deve maturare dentro di loro e/o nella relazione con altre. Quello che ci tocca fare - e che da anni facciamo - è protestare e manifestare contro i diritti violati, le persecuzioni, le violenze, la povertà, l'esclusione sociale delle "altre" donne, come pure mettere a tema riflessioni teoriche e pratiche politiche di attraversamento di confini e frontiere, di critica delle gabbie identitarie (loro e nostre) e dell'appartenenza neutra (all'etnia, al popolo, allo stato-nazione), anche qui loro e nostra.

E che c'entra il velo con le lapidazioni, le mutilazioni, le punizioni col vetriolo? Vogliamo forse avallare la tesi di chi fa la guerra per liberare le donne dal burqa? La soggettività femminile è una questione che ha molte sfaccettature e non si presta facilmente ad essere tagliata con l'accetta e ad essere illuminata dalle nostre luci al neon, che finiscono con l'essere politically correct ma rischiano di diventare altrettanto fondamentaliste e in più autoreferenziali.
 


Forum delle donne

 

questo articolo è apparso su Liberazione del 15 febbraio 2005

 

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