PRENDIAMOCI  CURA  DEL  MONDO:  dalla casa alla città al pianeta
di Maria Carla Baroni


il lavoro delle donne non finisce mai
 


Contributo del Gruppo Donna Ambiente Città
della Marcia Mondiale delle Donne Italiana  al 
Forum  Sociale  Europeo  di  Parigi     12 - 16  novembre  2003

 

         In tutto il pianeta sono le donne a generare la vita e, con il loro lavoro di cura, a rigenerarla, ma sono gli uomini, dominanti nell’economia, nella politica e nell’informazione, a decidere “come” si vive.

         Il risultato di questo predominio maschile, basato sul sistema economico capitalistico e ormai, sotto forma di globalizzazione neoliberista, esteso a tutto il pianeta, è evidente da tempo:

-         predominio del mercato e del profitto in ogni settore (sempre più anche nei servizi sociali, sanitari, educativi e nella gestione dell’acqua, elemento fondamentale della vita e per la vita); predominio che si estende anche sui comportamenti e sui desideri;

-         impoverimento progressivo di interi paesi e regioni e delle fasce deboli degli stessi paesi del Nord del mondo, che colpisce in particolare le donne: se nel ’95 erano donne il 70% delle persone povere, nel 2000 lo erano l’80% dei poveri;

-         imperare della violenza in tutte le sue forme: dalla competitività ossessiva, dallo sfruttamento crescente e dalla precarizzazione crescente del lavoro alla guerra pressoché continua, divenuta il mezzo principale per procurarsi le risorse e controllarne il prezzo;

-         distruzione sistematica della vita: dai bambini e dalle bambine del Sud del mondo lasciati morire di fame e di malattie evitabili, agli incidentati sul lavoro e agli aborti bianchi nelle fabbriche; dalle morti in età adulta e dalle nascite di creature handicappate e/o malformate a causa degli incidenti industriali e dalle varie forme di inquinamento dell’aria, delle acque e del suolo, alla sparizione progressiva di specie animali e vegetali; dalla distruzione crescente delle risorse del pianeta (aria ,acque, foreste, boschi, interi ecosistemi) alle alterazioni del clima al dissesto idrogeologico; dai periodi di siccità e dalla desertificazione a inondazioni sempre più gravi  e ai fiumi trasformati in collettori dell’inquinamento industriale, all’eccessiva cementificazione del suolo; dalla diffusione delle sementi geneticamente modificate e rese sterili e dalla distruzione delle agricolture tradizionali alle manipolazioni  nell’allevamento e nell’alimentazione degli animali.

         La stessa Europa è continuamente colpita da questi disastri  e ben in pochi sembrano accorgersi che il predominio maschile occidentale assomiglia sempre più all’apprendista stregone che non riesce più a controllare lo sconquasso che ha messo in moto (Cernobyl, Seveso, Tolosa, le inondazioni provocate dai fiumi tedeschi, l’inquinamento pauroso del Danubio e del Volga, le superpetroliere affondate vicino alle coste, le piogge acide, la mucca pazza…).

         Non possiamo lavarcene le mani, anche perché, se vogliamo  ottenere un mondo diverso, che è possibile e sempre più  necessario, diventa fondamentale costruire, nella prospettiva di un mondo multipolare,  una Europa sociale, economica e politica anch’essa diversa, possibile e necessaria.

         Molto si discute di questi tempi sulle radici dell’identità europea: per un’Europa diversa  noi vogliamo ricordare che alle radici di questa identità  vi è la Grande Dea degli umani, degli animali, delle piante, delle acque e della terra, signora della vita nella sua ciclicità perenne di nascita trasformazione morte e rinascita, riconosciuta dal Paleolitico all’Età del Ferro  nell’ Europa mediterranea e continentale, come riferimento di società che privilegiavano la rigenerazione della vita e che non avevano al loro interno né il predominio di un genere sull’altro, né gerarchie.

         E vi è continuità ideale tra le antichissime società  che si riconoscevano nella Grande Dea, Dea Madre, e le affermazioni dell’ecofemminismo del xx secolo, in particolare il pensiero di Vandana Shiva, fondamento perennemente riarticolato e contaminato da nuovi contributi, anche di donne europee, che ha alzato il velo su una concezione della natura introdotta dalla rivoluzione scientifica nata nel XVII secolo in Inghilterra e poi rapidamente estesasi all’intera Europa e via via, sull’onda del capitalismo, del colonialismo e della globalizzazione neoliberista,  all’intero pianeta.

         Secondo tale concezione la natura, femmina e imprevedibile, doveva essere controllata, dominata, sottomessa, in base a una razionalità scientifica che mirava a conoscere i fenomeni naturali per poterli poi prevedere, controllare e utilizzare, in sintonia con il capitalismo nascente.         Questa concezione, che pure ha portato anche a risultati positivi, ha però ingenerato la convinzione disastrosa secondo cui l’uomo sarà  capace, con le sue attività, di modificare illimitatamente la natura e, nello stesso tempo, sarà capace di consentire la permanenza degli organismi viventi sul pianeta mediante tecnologie sempre nuove in grado di riparare tutti i guasti ambientali via via prodotti. 

         Questa concezione è stata poi affiancata da quella, assai simile, secondo cui la terra è sterile, inerte e improduttiva, concetto che va a pennello ai grandi gruppi transnazionali dell’agroindustria, i quali, per aumentare indefinitamente i propri profitti, oltre a introdursi quanto più possibile nelle agricolture industrializzate,  mirano a soppiantare  le agricolture di sussistenza del Sud del mondo, affidate alle donne e ai loro saperi tradizionali , che per millenni avevano assicurato condizioni vitali in armonia con l’ambiente e con la rigenerazione naturale delle risorse.

         I grandi gruppi dicono di volere, con sementi rese sterili e quindi forzatamente riacquistabili a ogni semina, rendere la terra “produttiva” e aumentare così la quantità di cibo a disposizione dell’umanità. Come se il problema della fame nel mondo fosse dovuto a una scarsità oggettiva e non a una distribuzione del cibo profondamente iniqua, dettata dalle esigenze di un mercato globalizzato. Le conseguenze di questi comportamenti hanno ormai reso evidente il circolo vizioso tra impoverimento (in particolare delle donne), perdita di biodiversità e distruzione dell’ambiente.

         Vandana Shiva ci ha mostrato che una concezione della natura e della terra fatta passare per oggettiva, e quindi valida per ogni tempo e paese, è invece frutto (avvelenato) di un pensiero maschile e occidentale, storicamente datato ed economicamente funzionale agli interessi dei grandi gruppi transnazionali.

         In Europa sono nati: il capitalismo; il colonialismo; l’industrialismo come metodo di produzione standardizzata di massa, che annulla le differenze nei bisogni e nelle persone e la qualità nei prodotti, e che dall’industria è stato trasferito all’agricoltura e all’organizzazione delle grandi strutture di servizio alle persone; e la rivoluzione scientifica, che ha significato la “morte” della natura e della terra, un tempo sentita come feconda, madre e nutrice degli umani. Ne segue   l’importanza delle lotte anche delle donne europee, sul piano culturale, politico e pratico, l’importanza di farci carico  di contribuire a cambiare sistemi, comportamenti e metodi contrari alla salute e alla vita. In sintonia con tutte le donne del mondo.

         Le donne delle aree rurali del Sud sono a diretto contatto con l’acqua, con gli alberi e con la vegetazione in genere, con il cibo e con la terra da cui lo raccolgono o da cui lo fanno germinare e fruttare: l’agricoltura è compito delle donne per l’80% in Africa, per il 60% in America Latina e per il 40% in Asia. Per loro è più facile, partendo da sé e dalla propria esperienza quotidiana, prendere coscienza della distruzione ambientale causata da industrie chimiche, estrattive e del legname, dall’estrazione del petrolio, da oleodotti e dighe, e lottare per difendere fiumi, foreste e pianure. E’ la loro stessa dipendenza immediata dalle risorse ambientali a costringerle a farsi carico di arrestare il degrado e di invertire la tendenza.  E infatti sono sempre più numerose, in Asia, Africa e America Latina, le donne impegnate a difesa della vita e dell’ambiente e in progetti locali di ecosviluppo.

         Ma nelle aree urbane europee, cementificate, infrastrutturate, tecnologizzate, il nostro rapporto di donne con il cibo (acquistato al supermercato) e con la terra (coltivata con i pesticidi cancerogeni) è fortemente mediato da barriere materiali e culturali, da scelte e comportamenti maschili. E infatti in Europa il ruolo delle donne in quanto tali è un po’ defilato sui temi dell’ambiente, sia nei movimenti sia nelle istituzioni, eccettuate alcune figure e alcune situazioni.

         Partiamo dunque anche noi, come le donne del Sud del mondo, dalla nostra esperienza quotidiana: il lavoro di cura, che, in aggiunta ad altre forme di attività o da solo, ci riguarda tutte, e dal luogo in cui svolgiamo questo lavoro: la casa.

         Riappropriamoci  dell’approccio della cura, trasformandolo, da ruolo rigido e ghettizzante imposto alle donne da una società patriarcale e confinato in uno spazio ristretto e privato (privato di tutto ciò che riguarda la vita pubblica e collettiva),  a risorsa per contrastare il degrado ambientale e per disegnare orizzonti progettuali alternativi; valorizziamolo come “sapienza della cura” e come “etica della cura”; e reiventiamolo come  approccio complessivo  e pubblico, che non coinvolge solo la razionalità, ma anche i desideri,le emozioni e i sentimenti, progetti di vita e obiettivi  e priorità diverse da quelle dominanti.

          Estendiamo quindi l’approccio di cura dalla casa individuale o familiare (di nuclei familiari comunque composti) alla città, intesa come casa collettiva, come insieme di luoghi in cui si abita in forma privata e di luoghi, da diffondere ovunque, in cui si costruisce la vita collettiva (i luoghi della cultura, della politica, i servizi pubblici alle persone, i luoghi di incontro e di aggregazione) e in cui gli spazi aperti della città ( piazze e vie) costituiscano le parti comuni della casa urbana, la rete di connessione tra i vari luoghi dell’abitare e, appena il clima lo consente, costituiscano essi stessi luoghi di incontro, agibili a tutti e a tutte, portatori di handicap compresi,  a misura di bambine e bambini, donne e uomini, vecchie e vecchi; alla città da trasformare in policentrica, in cui le disuguaglianze qualitative tra centro e periferie vengano annullate, o quanto meno fortemente attenuate, mediante la trasformazione delle periferie in “nuovi centri”.

         Contemporaneamente riportiamo alla luce  il significato originario della parola “politica”, che i significa “tutto ciò che riguarda la polis”, la città, la città-Stato, intesa non solo come insieme di spazi e di funzioni, ma di persone e di relazioni e di capacità di autogoverno.

         Estendiamo poi l’approccio di cura dalla casa e dalla città al territorio e all’ambiente complessivamente intesi, all’intero pianeta, come casa comune della specie umana e delle altre specie viventi.

         Conseguentemente riportiamo alla luce il significato originario anche della parola “economia”, che significa “governo della casa”, intendendo come casa il pianeta, luogo che accoglie le specie viventi e che, per la loro stessa sopravvivenza, deve continuare a essere accogliente. Contribuiamo così a fondare una nuova economia, concepita non più come sistema principale di cui la natura è un sottosistema, ma, viceversa, lottiamo perché il sistema produttivo mirato al profitto (causa di ogni forma di inquinamento, delle alterazioni del clima, delle manipolazioni della vita animale e vegetale) sia considerato e agito come sottosistema del mondo naturale. O anche: lottiamo per mettere l’ecologia, in quanto “scienza della casa” , della casa-pianeta, al primo posto rispetto all’economia, perché solo una conoscenza rispettosa dei bisogni vitali degli esseri viventi e del pianeta, nei suoi equilibri viventi e dinamici, può legittimare il governo della casa-pianeta stessa.

         Tutte noi sappiano che il lavoro di cura è stato la principale forma di dominio che il patriarcato, volendo controllare il potere delle donne di generare, ha messo in atto contro di noi, segregandoci in casa a “riprodurre” la specie e a occuparci della famiglia.

         Ma oggi, per merito delle mutate condizioni generali (istruzione di massa, lavoro extradomestico diffuso, potere di controllo sulla fecondità) e delle lotte di emancipazione sostenute dalle donne delle generazioni precedenti, noi abbiamo la possibilità, ideale e concreta, di guardare alla cura non più come a qualcosa da rifiutare, come a una condanna da cui liberarci, ma, per quanto riguarda la nostra vita individuale, come a un’attività fondamentale da condividere con gli uomini (quando viviamo con  uomini) e, per quanto riguarda la vita collettiva, come a una ricchezza di capacità, intelligenza, creatività, sensibilità e forza da riversare sul mondo per rigenerarlo.

         Che significa cura? Interessamento, attenzione, impegno, attaccamento, coinvolgimento, tensione interiore, processo avviato per ottenere una guarigione; responsabilità ma anche progetto per il futuro, aiuto a un’evoluzione positiva: si cura una persona, una cosa, uno spazio, un ambiente perché non vengano danneggiati e distrutti ma continuino nel tempo e si evolvano nel modo migliore possibile.  Nella cura c’è il pensare e il desiderare e il fare.

         Nell’antica Grecia, la cui cultura, per molti aspetti sublime, ha modellato quella dell’Europa e dell’occidente, il lavoro di cura era considerato svilente, in quanto riguardava i bisogni fisici degli esseri umani, e quindi era estromesso dalla “polis”, affidato ai non cittadini e cioè alle donne e agli schiavi. Da allora il lavoro di cura è stato il “privato”, il “non politico” per eccellenza.

         Ora cominciano a esserci le condizioni perché, come donne, poniamo la cura nei confronti di ciò che non solo ci circonda ma in cui abitiamo attivamente (la casa, la città, il pianeta), come l’approccio politico per eccellenza, come l’essenza della politica.  

         Analogamente,ora che possiamo scegliere se e quando e quanto essere madri, non siamo più  macchine per produrre (riprodurre) la specie, la forza lavoro, gli eredi legittimi della proprietà privata : possiamo finalmente sentire e concepire il nostro ruolo non più come “riproduzione” della vita, ma come “rigenerazione” della vita, con molteplici valenze biologiche, culturali, politiche; possiamo parlare della rigenerazione della vita come fine della politica.

         Ora possiamo prenderci cura del mondo ed  è fondamentale che lo facciamo.

         Le possibilità di iniziativa  sono molteplici e dipendono dagli ambienti in cui abitiamo.

         Curare uno spazio o un ambiente amorfo e insignificante, o addirittura nocivo, significa – a seconda dei casi - non solo manutenerlo e conservarlo, ma anche modificarlo e abbellirlo, dargli (o recuperargli) caratterizzazione e identità, attribuirgli  segni e significati,  forma e bellezza; significa trasformarlo in luogo, renderlo adatto alla nostra salute psicofisica e al nostro ben-essere, renderlo accogliente in modo che  ci si abiti volentieri e in modo che renda più facili le relazioni tra le persone.

         Per  quelle di noi che abitano vicino a fabbriche inquinanti, a elettrodotti dell’alta tensione, a impianti di incenerimento dei rifiuti ecc,. l’obiettivo della mobilitazione e della lotta per far prevalere la cura non è semplicemente quello di far spostare tali impianti lontano dagli abitati, perché aria e acque sono mobili e connesse, ritornano a far ammalare, uccidere, distruggere; l’obiettivo è far introdurre sostanze testate come non dannose e tecnologie non inquinanti, è modificare i processi di produzione delle merci, di produzione e distribuzione dell’energia, di riuso e smaltimento dei residui industriali e urbani ovunque gli impianti siano localizzati.

         Per quelle che abitano vicino ad aree industriali dismesse e a discariche incontrollate esaurite, dopo decenni di inquinamento, l’obiettivo non può che essere la bonifica completa e profonda prima che le aree vengano riusate per abitazioni, scuole, parchi.

         Per quelle che abitano in zone agricole dovrebbe essere naturale mobilitarsi a tutela dei prodotti alimentari tipici e dei saperi  agricoli tradizionali; dell’agricoltura biologica o quanto meno liberata da pesticidi e da sementi geneticamente modificate; a tutela dei filari di alberi e siepi anche se sottraggono spazio all’agricoltura industrializzata; per l’agriturismo collegato al recupero, al restauro e all’uso sociale dei beni storico-artistici, comprese le vecchie fabbriche, le vecchie fornaci e le vecchie strutture agricole; perché vengano rinaturati gli argini dei fiumi e rispettati i loro alvei; perché vengano creati nuovi parchi (naturali e agricoli) ed estesi quelli esistenti.

         Per quelle che abitano nelle città: in città progettate, costruite e infrastrutturate da uomini in modo funzionale alla produzione per il mercato, che hanno i centri di potere economico e politico,  le abitazioni dell’alta borghesia, i monumenti, la cultura e i servizi pregiati raggruppati in aree centrali ad alta qualità  e che hanno, intorno,  grandi periferie più o meno degradate che alloggiano gli impianti produttivi e di servizio,  i ceti subalterni, gli immigrati, gli emarginati; in città inquinate, congestionate, rumorose, insicure e violente (criminalità organizzata; violenze sulle donne, sui minori, sugli immigrati, sui senzacasa; incidenti stradali); in città accettabili solo per persone sane di pelle bianca, di età compresa tra i 25 e i 65 anni, stabilmente inserite nel lavoro, con un reddito alto e la casa in proprietà (tra cui sono molto più numerosi gli uomini); in queste città le possibilità di iniziativa sono tantissime.    

         Fondamentali sono le fasi in cui si ridiscute il piano urbanistico generale, che , anche se  rivestito di forme e linguaggi fortemente tecnici, è l’atto più politico di una amministrazione comunale: determinando come si usa il suolo urbano, esso determina “come “ si vive in una città, dove e come e per chi si fanno le case e i luoghi di lavoro, come  e in quanto tempo ci si sposta, come si respira, se è facile o no incontrare altre persone, se siamo oppresse da un ambiente brutto o rallegrate da uno bello, come facciamo la spesa e gli altri acquisti, se riusciamo a curarci o no, se è facile o no andare a scuola e così via.

         Bisogna quindi smontare la corazza tecnica del piano, capire e far capire che la città è un patrimonio sociale, una risorsa di tutte e di tutti che deve essere usata secondo un progetto di vita associata che tenga conto dei bisogni, dei desideri e dei punti di vista di tutti i soggetti che la abitano; che favorisca le relazioni, accolga e valorizzi le differenze; che riconosca il valore sociale del lavoro di cura ampliando gli spazi in cui si esplica,   migliorandone le norme d’uso e rendendone partecipata la gestione; che ridisegni i tempi della città in funzione della qualità dell’abitare per tutte e per tutti. Nel conflitto tra crescita economica, profitto e rendita da una parte e qualità dell’abitare dall’altra, dobbiamo ottenere strategie e strumenti per il controllo pubblico   del valore dei suoli e dell’agire degli operatori economici.

         La città che vogliamo deve accogliere e valorizzare le differenze: quella di genere, ma anche di età, di culture e di provenienze. L’appartenenza di una persona, ovunque sia nata, a un determinato luogo, a una determinata collettività, nasce nel momento in cui quella persona abita quello spazio fisico, quel luogo simbolico, e intreccia relazioni con quella specifica collettività. E noi, proprio dall’incontro con altre donne e altre soggettività, in città multiculturali, possiamo sperimentare e costruire  altre forme dell’abitare.

         Sono importantissime però, e offrono occasioni più frequenti, anche le mobilitazioni e le lotte su piani e progetti  urbanistici parziali o attuativi del piano generale; contro opere viarie inutili o che isolano interi quartieri; contro i centri commerciali che fanno chiudere i negozi, che sono raggiungibili a piedi e costituiscono una rete di punti di incontro soprattutto per anziane e anziani; per il diritto alla casa; per la riqualificazione dei quartieri popolari e dei comuni dormitorio intorno alle città maggiori; contro il traffico e l’inquinamento;  per i bilanci comunali e l’assegnazione delle risorse pubbliche ai servizi di cura e alla riqualificazione urbana.

         Ciò che vale per le grandi città e i suoi quartieri vale anche per qualsiasi contesto (sponde dei fiumi, spiagge, luoghi storici isolati, territori agricoli, parchi…) in cui vi sia conflitto tra uso per la speculazione e per il profitto di pochi e uso per il ben-essere di molte e di molti.

         Come forme di lotta tutte sono utili: sia quelle tradizionali (manifestazioni, occupazioni di case ed edifici pubblici, ecc.), sia quelle nuove inventate dalle donne, come ad es. quella di “segnare” fisicamente e visivamente, secondo i nostri desideri, il contesto ambientale di cui vogliamo prenderci cura, dandogli forma e bellezza secondo i nostri desideri.

         Prenderci cura del mondo, della città, del territorio extraurbano, dell’ambiente, del pianeta, non significa solo portare avanti iniziative e lotte che in parte abbiamo in comune con le sedi miste della politica; significa trasformare, a poco a poco, queste esperienze (di donne, di uomini, miste) da isolate  ad approccio prevalente al vivere sociale, a senso comune della politica, a priorità assolute nell’assegnazione delle risorse pubbliche e degli interventi pubblici.

         Significa arrivare a ribaltare le priorità maschili, incentrate sulla produzione delle merci concepita come potenzialmente illimitata, sullo sfruttamento crescente del lavoro umano, sulla distruzione dell’ambiente e sulla finanziarizzazione dell’economia, verso le priorità delle donne, che ruotano intorno alla rigenerazione e alla qualità della vita per tutte e per tutti.

         Per ottenere ciò non basta partire da noi stesse: occorre andare oltre; sperimentare e impegnarci in tutte le forme della politica;  incontrarci/scontrarci anche con la  politica istituzionale; entrare in forma paritaria nelle istituzioni a ogni livello, dal nostro comune al parlamento europeo.

        Per portare i nostri contenuti, le nostre priorità e le nostre modalità di azione, per contribuire in modo paritario a decidere come si formano e come si usano i beni comuni e le risorse finanziarie pubbliche, per condividere il governo del mondo, per decidere “come” si vive, perché il governo del mondo  coincida con il prendersi cura del mondo.


Per contatti:
Maria Carla Baroni      Milano         mariacarla.baroni@tiscalinet.it      

che invita a partecipare all'autoinchiesta