Biotec, dominio sulla vita individuale

di Maria Schiavo


Maria Izquierdo


Il recente dibattito sull'aborto e sul lavoro diverso che il femminismo autonomo ha svolto negli anni 70, rispetto al partito radicale e agli altri gruppi politici che si muovevano esclusivamente per la sua legalizzazione, ha riproposto una pratica di riflessione del movimento delle donne, oggi di particolare attualità davanti alle prospettive biotecnologiche.
Luisa Muraro, sul sito della Libreria delle donne di Milano, sottolinea che da quel lavoro collettivo di riflessione venne fuori un criterio di fondamentale importanza per cui «la vita umana, vita di un essere senziente ma anche parlante arriva a questo mondo passando necessariamente attraverso l'accettazione di una donna che l'accoglie, lo coltiva per consegnarla al resto dell'umanità». Questa mediazione femminile non significa, nel mio sentire, un potere da opporre a un altro - del padre e della società che lo sorregge - che pure esiste ancora, è esistito in modo ancora più pesante in passato, ma significa soprattutto il passaggio su un altro piano, quello biologico. Evidenzia il legame strettissimo che unisce il corpo materno alla creatura concepita, alla vita prepersonale, al suo farsi o non farsi persona e la consapevolezza della donna del legame che unisce entrambi alla natura, che il maschio della specie - bianco, occidentale, soprattutto - rischia invece di dimenticare nel suo inarrestabile progetto di dominio su questa stessa natura.

Ida Dominjanni (il manifesto 1/3/2005) pensa con Muraro che questo criterio di mediazione femminile possa essere valido anche per la procreazione assistita. Riprendendo due interventi di Rusconi e Sartori, che nella polemica in corso si schierano dalla parte di chi sostiene che lo status del concepito e dell'embrione (e quindi i loro diritti) non possono essere equiparati a quelli del già nato, Dominjanni si dichiara d'accordo con loro sull'utilizzazione degli embrioni per la ricerca scientifica, ma solo a condizione che il criterio «della mediazione femminile fra la promessa di vita e la vita, fra l'embrione e la persona» ne sia il presupposto.

Ora, ciò è impossibile, è negato dalla modalità stessa delle applicazioni della biotecnologia che permettono oggi - se vogliamo rimanere solamente nell'ambito della legge 40 per la procreazione assistita - la fusione in vitro dell'ovulo e dello spermatozoo e, previa diagnosi di preimpianto, il successivo impianto dell'embrione nel corpo della madre.

Anche se a tutto questo viene dato il consenso materno, esso riguarda, da una parte, l'impianto nel suo corpo degli embrioni che saranno risultati più idonei allo sviluppo, cioè del prodotto di un intervento esterno a lei e, dall'altra, l'utilizzo a scopi terapeutici degli embrioni soprannumerari. Quel legame naturale che lega il corpo materno al concepito, nelle applicazioni biotecnologiche non esiste: il corpo femminile rischia di divenire un vas selectionis, il contenitore di una selezione di prodotti di laboratorio, e cioè degli embrioni risultati più idonei, più sani.

Non potendo in questa sede approfondire gli interrogativi morali, etici, sollevati da più parti, citerò solo alcuni dubbi espressi su queste pagine (15/1/2005) da Maddalena Gasparini, oltre che sulla proposta di sottoporre solo pochi articoli della legge 40 al referendum, anche su alcuni aspetti di natura etica. A proposito della diagnosi di preimpianto afferma autorevolmente che «la contiguità fra l'eliminazione di embrioni portatori di geni in grado di sviluppare malattie incurabili e la scelta di embrioni con alcune caratteristiche (per esempio il sesso) attualizza i timori di un ritorno all'eugenetica, seppure sotto altra forma e obbliga a definire i limiti di applicazione di questa tecnica». E riferendosi alla commercializzazione degli embrioni a scopo terapeutico, non solo parla di «enormi interessi economici» nascosti ovunque dietro a ragioni spesso solo apparentemente etiche, ma della difficoltà del reperimento del materiale embrionale terapeutico. Ricorda infatti che «per avere una sola linea di cellule staminali embrionali un'équipe sud-coreana ha avuto bisogno di 16 donne che hanno donato 242 ovociti».

Mi pare che - a differenza che negli anni 70 - non abbiamo riflettuto abbastanza dal punto di vista etico-politico sulle applicazioni della biogenetica, che s'introduce sin dall'inizio fra i due, corpo materno e nascituro, interviene artificialmente in un processo naturale, modificandolo profondamente o soppiantandolo. Non bisogna sottovalutare il sogno scientifico di sostituirsi sempre di più alla natura. Né l'indeterminatezza dei suoi orizzonti.

Anche se è un caso diverso, di morte e non di nascita, Terri Schiavo è l'esempio più pauroso dei marchingegni coercitivi che possono dominare la vita individuale soprattutto quando essa è sottratta alla propria volontà, alla coscienza.

 

questo articolo è apparso su Liberazione del 7 aprile 2005