ANNI '70
Il taglio
dimenticato
di Ida Dominijanni

Marianne von Werefkin
questo articolo
è stato pubblicato su
il manifesto del 7 marzo 2005
Fra i molti paradossi che la storia repubblicana ci consegna ce n'è uno
che negli ultimi anni si rinnova puntualmente ad ogni 8 marzo, e consiste
nella beatificazione delle donne pagata al prezzo della dannazione del
femminismo. E' il filtro che la storia e la politica ufficiale impongono
alla rivoluzione femminile per spuntarne gli elementi originali e
irriducibili: la modernizzazione sì, la critica della politica no; la
parità di diritti sì, la voce della differenza sessuale no.
Si aggiunge a questo il revisionismo
spontaneo che parte dall'interno del femminismo come di tutti i movimenti
degli anni `70 per consegnare quella stagione alla vulgata del «decennio
maledetto», e ne rinfocola la memoria solo per deformarla e addomesticarla
a uso del mercato, o mercatino, politico di oggi. Le donne contro il
femminismo? La storia delle donne contro il punto di vista della
differenza nella storia? Il paradosso è in atto.
Vorrei rileggere in questa chiave il
dibattito suscitato nell'ultimo mese da un saggio di Anna Bravo,
Noi e la violenza. Trent'anni per pensarci, pubblicato sulla
rivista della società italiana delle storiche Genesis e
rilanciato con clamore da un'intervista di Simonetta
Fiori all'autrice su Repubblica del 2 febbraio. Replicando a una serie
di successivi interventi polemici, Anna Bravo ha rimproverato alle sue
interlocutrici di non avere ben letto e ponderato il suo saggio. Giuro che
per parte mia l'ho letto e riletto, e non per questo mi ha convinto più
dell'intervista, anzi. Si tratta, come ormai le/gli interessati sanno, di
una lunga perorazione della tesi per cui «le tante che negli anni 70 si
sono sentite continuativamente, a tratti, in una sola occasione parte del
femminismo» avrebbero, anzi avremmo, perso la bellezza di trent'anni senza
nominare e rielaborare il nodo del rapporto fra donne e violenza, su un
doppio versante: la violenza verso il feto implicata nell'aborto, e la
violenza verso terzi implicata in alcune pratiche politiche della nuova
sinistra, dell'estremismo e del terrorismo. La ricostruzione dell'autrice
parte dalla «autoricerca» di un gruppo di 13 ex-sessantottini durata tre
anni, usata dall'autrice per quel che sulla violenza dice e per quel che
tace. Il rovello di fondo è che il femminismo - «rivoluzione pacifica,
sostanzialmente vittoriosa, durevole»-, vissuto dalle sue protagoniste
come una «seconda nascita», abbia fatto tabula rasa sulle «responsabilità
precedenti» delle militanti della nuova sinistra e dell'estremismo, e non
sia riuscito a smontare «le categorie correnti sul nodo della violenza e
della sofferenza».
Dell'aborto, Bravo dice che c'era fra le femministe «fatica a districarsi
fra la consapevolezza di essere vittime e quella di non essere solo
vittime, e non le sole»: era ed è vittima anche il feto, della cui «sensorialità»
non ci saremmo mai occupate, questione che riporta a interrogativi di
bioetica e biopolitica che oggi, in tempi di procreazione assistita e
ricerca sulle staminali, diventano ancor più decisivi, primo fra tutti
quello della «responsabilità anche verso chi non è persona, chi non lo è
ancora e non lo diventerà, chi neppure sa di esserci». Della violenza
politica dei gruppi della nuova sinistra, Bravo denuncia la mancanza - che
in verità non colma - di un pensiero originale che andasse oltre «l'idea
che la violenza sia un dato costitutivo della politica» o «la vecchia
distinzione fra azioni difensive e offensive»; il confronto mancato con le
pratiche di non violenza che pure nel `68 c'erano; l'identificazione
vincente nel «combattentismo maschile». Alle donne che prima della o
contemporaneamente alla pratica femminista condivisero la militanza
nell'estrema sinistra, rimprovera il silenzio sulla violenza allora e
oggi. Alle donne di Lotta Continua, organizzazione da cui proviene, Bravo
rimprovera - par di capire - un «esercizio di equilibrismo» fra fedeltà
all'organizzazione e scoperta femminista, malcompensato dalla pur
eclatante rottura nel congresso di Rimini del `76.
Nel merito di queste due tesi, entrambe a dir poco sorprendenti, molto è
già stato contestato da quante sono
intervenute su Repubblica, Liberazione, l'Unità, contrapponendo alla
versione di Anna Bravo non solo altre memorie, ma documenti (il sito della
Libreria di
Milano sta ripubblicando i più significativi sull'aborto), testi e
bibliografia che lei non considera (Paola Di Cori,
su Liberazione, è stata particolarmente severa sul punto) o considera
senza crederci.
Sull'aborto, l'immagine del
femminismo come un esercito incosciente all'assalto di un diritto facile e
gaudente urta la memoria sia delle emancipazioniste, che tornano a mettere
l'accento sui meriti della battaglia contro la «piaga sociale» dell'aborto
clandestino, sia delle femministe, che lo mettono - lo mettiamo - sulla
piega autocoscienziale che l'analisi dell'aborto prese nei collettivi,
costruendo un discorso diverso da quello del diritto d'aborto di matrice
radicale, e basato piuttosto sull'analisi del desiderio di essere-non
essere madre, delle fantasie legate alla gravidanza, dei lapsus
dell'inconscio che portavano a gravidanze indesiderate in anni di uso di
massa della pillola, dei sensi di colpa verso il non-nato, delle fantasie
sui destini dell'embrione, della distanza fra il vissuto femminile
dell'aborto e la disinvoltura dell'intervento medico: potrei raccontare ad
Anna Bravo, che evidentemente nel frattempo faceva altro, centinaia di ore
di autocoscienza in materia. Sulla violenza politica, è stato fatto
presente all'autrice che la sua esperienza all'interno di Lotta continua a
Torino, e il suo occhio puntato più sul femminismo della «doppia
militanza» che sul femminismo separatista, le confonde la mappa facendole
sovrapporre quelle che condividevano le pratiche violente con quelle che
le rifiutavano (Maria Schiavo, su Liberazione).
Condivido e sottoscrivo; e tuttavia non credo che la contestazione possa
limitarsi a uno scontro fra memorie diverse, la parola di una contro
quella dell'altra affogate in una plurale equivalenza in cui i media
possono pescare a piacimento secondo i capricci del momento. Sul
femminismo degli anni '70 siamo ancora davvero a questo grado zero
dell'acquisizione condivisa? Il conflitto - inevitabile e potenzialmente
perfino fecondo - fra memorie diverse non trova argine in alcuna
tradizione sedimentata? Detto altrimenti: qual è il criterio - politico,
prima che storiografico - con cui trent'anni dopo si guarda a quell'inizio,
e con quale fine?
Più che l'enormità delle sue tesi sull'aborto e sulla violenza politica
distintamente prese, colpisce nel saggio di Bravo la mancanza di un nesso
fra loro, salvo quello della presunta insensibilità femminile per il
dolore del feto e per il dolore delle vittime. Che è molto, ma non è
abbastanza, se si tiene conto della ricchezza di nessi che, al contrario,
il discorso femminista fu capace di costruire in quegli anni fra la
critica della sessualità e la critica della politica, tracciando
un'analitica della violenza in verità un po' più spessa del «siamo tutti
responsabili» di Erri De Luca che Anna Bravo porta ad esempio di un «lavorìo»
ancora da fare. C'era un nesso eccome, fra la domanda «per il piacere di
chi abortiamo?» e la domanda «per il piacere di chi dovremmo fare politica
come la fanno i nostri compagni?». C'era un nesso eccome, fra l'esercizio
microfisico della violenza nei rapporti quotidiani e il ricorso alle forme
violente di lotta nella vita pubblica; fra il godimento maschile
nell'aderenza ai modelli della forza e del potere, e il senso di
estraneità (o viceversa il mimetismo) femminile nei loro confronti. Che
altro voleva dire «il personale è politico» se non questo taglio del
discorso? E a che cosa rispondeva, se non a questo taglio del discorso, il
taglio politico operato con la scelta di separarci dai compagni e
inventarci un'altra politica?
Il vero problema del saggio di Anna Bravo, a mio avviso, è che a questo
taglio non dà alcun valore, e non ne fa principio di interpretazione
storica. Si spiega così la mappatura approssimativa - sorprendentemente
approssimativa, per una storica riconosciuta come lei - del «noi» a cui fa
riferimento, accomunando nella colpevole responsabilità del silenzio sulla
violenza «le militanti dei gruppi extraparlamentari, che hanno sfilato in
corteo scandendo slogan truci, partecipato a scontri di piazza e in
qualche caso alle azioni dei servizi d'ordine, le donne dei sindacati, dei
consultori, della vecchia sinistra, le senza partito», nonché «le
femministe storiche autonome dai gruppi», comprese «quante avevano
denunciato il nucleo guerresco della politica maschile scegliendo di
comunicare solo con donne»; e sostenendo che ogni distinzione storica e
biografica cade di fronte all'«atmosfera di cui siamo state partecipi in
varie forme» e da cui nessuna può «chiamarsi fuori».
Chiamarsi fuori? E da quale atmosfera? Qui siamo al punto. Evidentemente
presa dal vecchio equivoco del separatismo come estraneità femminile,
Bravo non riesce a vedere nella nascita del femminismo «storico» e
«autonomo» quello che fu, cioè - rubo l'espressione a Lia Cigarini - un
taglio che spaccò la sfera pubblica, dimostrando che un'altra politica,
basata sulla relazione e non sullo scontro di piazza, sul conflitto e non
sulla guerra, sul rapporto fra personale e politico e non sulla loro
scissione, sulle pratiche discorsive e non sui muscoli e la violenza, era
- è - pensabile e possibile. Non fu un gesto di estraniazione: fu un gesto
di lotta politica, pacifico in superficie ma a sua volta non poco
«violento» sul piano simbolico e psicologico. Il che rende la «seconda
nascita» femminista, e per fortuna, molto meno innocente e naïve di quanto
Bravo la dipinga; ma esente dalla dipendenza, dai sensi di colpa, dai
pentimenti nonché dai moralismi rispetto all'«atmosfera» di quegli anni
che Bravo manifesta. Non abbiamo di che pentirci in verità: né in parole
né in opere né in omissioni. E nemmeno di che immunizzarci da quell'atmosfera,
che non fu solo violenta e luttuosa ma feconda e felice.
Non è per mettere i puntini sulle i del «noi» e delle sue interne
differenziazioni che questo punto va ribadito. Il fatto è che senza quel
taglio, che ha creato ex novo il luogo di enunciazione per la presa di
parola di tutte, non ci sarebbe stato allora né oggi nessun «noi» di
donne, e nessuna politica della differenza. Ma c'è di più. Quel taglio
fece venire alla luce per il passato, e rese praticabile per il futuro,
l'imprescindibile asimmetria della posizione femminile rispetto alla
politica e del femminismo rispetto agli altri movimenti: dopo quel taglio,
è impossibile ricostruire gli anni `70, nonché gli `80 e i `90,
continuando a vedere nelle donne il femminile della politica maschile, nel
femminismo un derivato del `68, nella parola femminile un'aggiunta o un
correttivo di quella maschile (da questo punto di vista si può leggere
come un contraltare al saggio di Anna Bravo quello di Maria Luisa Boccia,
Il patriarca, la donna, il giovane. La stagione dei movimenti nella
crisi italiana, nel secondo volume su L'Italia repubblicana nella
crisi degli anni `70, a cura di Fiamma Lussana e Giacomo Marramao,
Rubbettino).
La differenza sessuale _ intesa, c'è
ancora bisogno di dirlo? non come identità di genere ma come significante
aperto della dialettica sociale e politica _ domanda di entrare nei
criteri politici e storiografici. Ma non sembra orientare né il saggio di
Anna Bravo né, per la verità, l'intero numero di Genesis, da
cui il femminismo esce come un fenomeno di late comers, secondo, mancante,
sovraordinato dal contesto, fermo alla sua esplosione iniziale, privo di
una tradizione di pensiero già sedimentata: più una gravidanza interrotta
che una seconda nascita, tanto per restare in metafora.
Ancora un punto cruciale, forse il più cruciale. Nei suoi rimproveri alle
donne per aver mancato di parola sulla violenza, Anna Bravo sembra
dimenticare quale fossero, negli anni `70, le condizioni della presa di
parola pubblica femminile; quali difficoltà avesse la lingua femminista a
sfondare la rappresentazione massmediale melensa del femminismo come
movimento in gonna a fiori; quale conflitto fosse e sia tutt'ora
necessario per contrastare la traduzione e il tradimento (ne ha scritto
Luisa Muraro nel sito della Libreria delle donne) del pensiero della
differenza nelle compatibilità correnti del discorso politico accreditato.
E quel che è più grave, la dimenticanza dell'autrice continua per l'oggi.
Almeno nella sua replica, Bravo avrebbe
potuto utilmente riflettere sul contesto in cui il suo saggio cade e viene
recepito e utilizzato: in tempi in cui l'accusa di aver ridotto l'aborto a
un diritto allegro e incosciente nutre tutta la campagna a favore della
legge sulla procreazione assistita; in tempi in cui la riduzione degli
anni `70 a anni di piombo e di violenza nutre il peggior revisionismo
sulla storia repubblicana, e troppi protagonisti di allora stanno al gioco
per guadagnarsi il passaporto di bravi cittadini e cittadine, come ha già
osservato Maria Serena Palieri sull' Unità. O forse perché, come scrive
Boccia, di fronte a un bilancio denso e non lineare di quegli anni «molto
più semplice è congedarsi, come si addice al tempo della giovinezza,
consegnando alla sua acerbità ogni eccedenza».
Fatto sta che il dialogo con le generazioni più giovani ne risulta
irrimediabilmente compromesso. Nello stesso numero di Genesis,
due giovani ricercatrici, Emmanuel Betta e Enrica Capussotti, accusano i
protagonisti e le protagoniste degli anni `70 di farsi portatori e
portatrici di una «memoria possessiva, che sembra bloccare la possibilità
di altri punti di vista» sul passato suscitati dalle domande di oggi. Io
credo che abbiano ragione. Finché la memoria del femminismo e degli anni
`70 rimarrà appannaggio di chi li ha direttamente vissuti, sarà una
memoria identitaria, bloccata, narcisista, noiosa nelle sue ritornanti
controversie. A me parrebbe più interessante aprirla a relazioni di
differenza: con le donne più giovani, e con gli uomini che subirono il
taglio femminista e poco o nulla ci hanno mai detto di come ne sono
rimasti segnati.
|