Un filo tra ieri e oggi

a cura di Ines Valanzuolo
 

questo articolo è apparso su Il paese delle donne n.33/34 dell'11 novembre 2002

La rilettura del "Lessico politico delle donne"
nell'intervento di Maria Luisa Boccia


Le ragioni, addotte da Lea Melandri e Marina Zancan, a sostegno della necessità delle pubblicazioni promosse dagli Archivi delle donne di Milano, sono risultate immediatamente percepibili e valide durante l’incontro, efficace e promettente, presso la Casa internazionale delle donne di Roma, in cui la formale comodità della sala “grande” è stata travolta da una marea crescente di donne che ne ha sommerso lo spazio interno e circostante.

Maria Luisa Boccia non si limita a coordinare i lavori della mattinata, dà infatti un avvio rigoroso e imprescindibile ai lavori, visto che ogni intervento lo ha rievocato. Conviene quindi riproporlo quasi per intero (non rivisto dall’autrice) e tenerlo presente leggendo quanto il Foglio pubblicherà della giornata. Dopo aver riconosciuto a Lea Melandri e a Marina Zancan, il merito di proporre sia testi di oggi sul femminismo di ieri, sia i documenti di quella storia, Maria Luisa sostiene che rimetterli in circolazione oggi vuol dire fornirne un’altra lettura, da parte delle autrici, delle lettrici di allora e delle nuove.

"Ripropone quindi la sua rilettura, a venti anni di distanza, di “Teorie del femminismo” pubblicato nel 1978, facente allora parte, insieme ad altri cinque volumi, dell’opera “Lessico politico delle donne”. Questi testi, per lei, dimostrano che non abbiamo una sola lingua; la scrittura del Lessico come dice Manuela nella postfazione, è già un luogo secondo, è già una rielaborazione della parola prodotta dalle donne nelle pratiche, “in presenza”, nell’autocoscienza, nelle pratiche dell’inconscio, nel fare; realizzate senza la mediazione del testo creavano una lingua che già la scrittura modifica.
Riproporre quella scrittura è rimettere in circolazione una lingua che era in rapporto ravvicinato con le pratiche e che segnala che oggi non la pratichiamo come tale. Vuol dire che ci sono stati spostamenti rilevanti, nel pensiero e nella parola e il dialogo odierno dovrebbe partire da qui.

Abbiamo prodotto un pensiero che forse ci ha rese più sapienti, che ha messo in forma le nostre esperienze, le nostre passioni, le nostre idee, ha prodotto un testo femminista ma, come dice Manuela, il sapere non può sostituire la formazione delle donne che è avvenuta e che avviene nelle pratiche, non con i libri né con l’insegnamento nelle istituzioni e fuori. La trasformazione che abbiamo prodotto e incarniamo non è qualcosa che riusciamo a significare alle altre donne. Ribadisce che forse, mettendo nelle relazioni con le più giovani, al centro, il sapere sedimentato, depriviamo le giovani della nostra maggiore invenzione: le pratiche, la modalità in cui si produce pensiero, azione, soggettività.

Un altro aspetto rilevante delle “Letture di archivio”, ma soprattutto di questo testo, è che restituisce con molta forza le interazioni tra il femminismo, le femministe e il contesto storico politico sociale. Le teorie del femminismo sono posizionate.
La differenza, che lì prende forma e parola, diviene evidente proprio rispetto alle interlocuzioni forti con il contesto, con altri testi di uomini di cultura, con donne non femministe, con altri soggetti, movimenti, partiti, con le istituzioni, con il modo in cui altri ponevano questioni. Era un modo di costruire il dialogo e la differenza, non un rapporto tra il generale e il particolare. Questa era una peculiarità della fase, segnata da scambi e conflitti forti.

Diverso il rapporto tra femminismo e contesto negli anni Ottanta, sicuramente molto diverso oggi. Le interlocuzioni oggi non sempre sono altrettanto riconoscibili, evidenti, convincenti per come si delineano.
Penso alle interlocuzioni con altre donne, che non si riconoscono nel femminismo, tra le femministe, tra gli uomini e le donne che sono coinvolte da protagoniste in altri movimenti attuali (no-global, girotondi, sindacato) in cui donne e uomini si ripresentano confusi, come se l’essere donne o uomini non fosse significativo. Spesso noi vi riconosciamo i segni della nostra politica, delle nostre pratiche, del nostro pensiero ma i movimenti come tali non li registrano, li acquisiscono, come se di nuovo ci potesse essere una forma politica agita da uomini e donne senza il segno della differenza sessuale. La questione è rilevante perché le donne prendono parte a questi movimenti, convinte, appassionate, aderendo fortemente come se l’essere confuse nella comune appartenenza fosse loro bastante.

La differenza non fa più questione in queste esperienze? Domanda non retorica né superflua, la risposta non è scontata; noi daremo una risposta scontata, che invece dovrebbe fare questione, perché ci rinvia alle origini della nostra storia. Noi siamo partite esattamente da qui: eravamo convinte, appassionate e aderenti a “soggettività confuse”; qui c’è già un filo tra ieri e oggi, poiché questo problema del non essere “confuse “oggi viene spesso posto ma nei termini della “visibilità”, cioè le donne non sono abbastanza visibili nei luoghi che contano. In realtà la questione è più complessa, attiene a quale soggetto politico ci riferiamo: è diverso il soggetto politico indifferenziato, quello dell’essere in comune? Comune tra chi? Su cosa? Come si costruisce questa condivisione?

Quindi, dal confronto tra la realtà ripropostaci dal Lessico e questo presente emerge un primo problema: siamo in una fase in cui c’è, di nuovo pur se in modo diverso, un oscuramento della differenza, che ci viene proprio da pratiche, da soggettività, da movimenti, che spesso condividiamo per le questioni che pongono, per i conflitti che aprono, per molte delle lotte che propongono.
C’è una forma aggiornata di recinzione della politica della differenza, funzionale alla modalità di appropriarsi di ciò che abbiamo prodotto, senza scambio, senza confronto, senza conflitto.

Secondo problema: in questo testo, rileggendolo, colpisce, coinvolge, il filo che corre tra le varie parti cioè ”il personale è politico”. Questo filo non costituisce una trama di contenuti, non attiene a ciò di cui si parla, è il filo che fa la tessitura del soggetto e del pensiero del testo. E’ un filo composito, si è formato lavorando la materia grezza dell’esperienza, del vissuto femminile.
Riconoscibile per noi, che forse abbiamo logorato con l’uso ma rileggendo i testi si è creata una reazione di straniamento, come se si fosse disimparata l’arte di usare questo filo. Siamo tutte più brave, più raffinate, più sapienti, lo si misura anche a proposito delle donne che hanno scritto questo testo, quanto sono più brave, più sapienti, più in grado di padroneggiare la realtà.

Tuttavia, quel filo per come è svolto nei testi, mi è sembrato tenuto in mani e menti più decise, anche se in mano a donne più impazienti ma più motivate ed orientate. Non si vuole dire che sapevamo più chiaramente dove andavamo e cosa volevamo. Non era così ma certo eravamo fortemente coscienti dell’importanza dell’opera che avevamo iniziato e che desideravamo con forza e passione continuare, come qualcosa che orienta tutta la vita e il posizionamento nel mondo.
Il testo è stato scritto nel ‘78, anno cruciale di svolta del femminismo italiano. Di lì a poco finisce il movimento degli anni Settanta e inizia un’altra fase.
Lo segnala esplicitamente Mariella Gramaglia nel testo sul “bisogno” quando dice che si va delineando la scissione tra la “critica” della politica che le donne fanno e la “crisi” della politica che comincia.

Ormai per noi questo è un tema scontato, nel ‘78 non lo nominava nessuno. Manuela Fraire nel suo testo su “Il personale è politico” dice che noi allora prendevamo molto sul serio le ipotesi teoriche e le lotte politiche degli altri soggetti e che essere “differenti” non significava essere “indifferenti”. Oggi per noi è molto più difficile trovare il piano dell’interlocuzione con ipotesi teoriche da prendere sul serio. “Il personale è politico” non è solo una formula, nel testo Fraire cita un pezzo di una definizione, da un articolo su Rinascita (n. 4, 1977) di Carla Pasquinelli “Il personale è politico diventa così la formula di accesso alla storia….Che cosa vuol dire in concreto questo sostantivo il personale? A me sembra che non sia omologabile al privato che è ancora indice della separazione dal pubblico…io tenderei a vedere nel personale già la critica immanente del privato nella misura in cui non rinvia ad un soggetto psicologico, ma, proprio in quanto prefigura la risoluzione della scissione, presuppone il soggetto politico. Nel personale si iscrive già la politicizzazione del privato”.

Cosa è che si politicizza? Non la famiglia, non la quotidianità, i fatti personali, soltanto, che pure sono stati il materiale empirico a partire dal quale ci è stato possibile costruire un punto di vista femminile sulla realtà, il personale non è nemmeno una ipervalorizzazione del soggetto tout –court, dell’io, lei, l’altro. Il personale è la situazione in cui io-noi donne siamo, cioè quel posizionamento in cui sono implicati e coinvolti tutti i momenti dell’essere umano: la storia, la natura, la situazione. Permette il posizionarsi, il concreto del “qui e ora”; permette lo schiudersi di questa condizione a possibilità inedite, del tutto impensate. Compito che non può che essere che singolare, di ognuna e comune, che fa il soggetto politico di cui parla Carla Pasquinelli.

Nei testi del “Lessico” questo personale, così inteso, si fa lingua perché la situazione che viene dischiusa è la messa in parola della sessualità femminile, la scoperta che andavamo facendone, la capacità prefigurante che ce ne veniva, di una sessualità non “parziale” (Manuela Fraire), non più deprivata di simbolico né sequestra in un rapporto privato, con l’uomo o con la donna.
Non è un problema di contenuti: corpo, sessualità, maternità, inconscio. Questi sono stati, e sono oggi, l’unico oggetto del discorso, producono senz’altro saperi, magari molto qualificati e specializzati, anche se contrassegnati dal punto di vista della differenza, ma il filo della sessualità femminile di cui si parla in questo testo tesse anche il discorso su contenuti radicalmente altro da questi, anche ostici a tutto questo: organizzazione, bisogno, progetto politico, società capitalistica e così via.

Altro punto di contatto “Lessico”-presente lo propone Manuela Fraire quando nella sua postfazione dice che realizzare questa impresa ha significato difendere il progetto dalla tentazione di lasciarlo cadere per l’invasività della realtà esterna che premeva; il ‘78 era l’anno del rapimento di Moro, del terrorismo che ridisegnava tutta la politica italiana.
Oggi siamo altrettanto pressate da questa invasività : la guerra e non solo. Oggi sappiamo difendere i nostri progetti, le nostre imprese più o meglio o peggio di allora? Imprese che non ci mettono direttamente in relazione con l’esterno, che però parlano della realtà, non pretendono infatti di ritagliarsi uno spazio per….ma di costruire la posizione per esprimere la differenza rispetto alla realtà.

L’estraneità che allora avevamo oggi ci sostiene meno, abbiamo detto e fatto troppo per non sentire la frustrazione che ci viene dallo scarto tra ciò che noi siamo, dove e come siamo, e come la realtà si rappresenta. La pressione che viene ci sollecita, ci detta le modalità, la priorità del discorso.
La posizione assegnata, non alle donne in genere ma alle femministe, troppo spesso ci appare impotente e torna qualcosa che anche allora era particolarmente forte: non incidiamo, dobbiamo cambiare la nostra pratica per “incidere”. Termine sospetto, perché rinvia al “fare”per esserci, quindi a costruire la propria posizione in base a quello che dal contesto viene richiesto per esserci, per contare, a cominciare dalla definizione dei problemi e dalla costruzione delle priorità.

In un articolo su uno degli ultimi fascicoli di DWF ”Senza pace”, che riguarda appunto la guerra, Lia Cigarini titola questo articolo in modo perentorio “Non c’è altra strada” ed è “partire da sé “ perché la differenza femminile non venga cancellata a fronte di secoli di politica, scienza, filosofia, arte militare maschile. Se è questo che ancora ci sta a cuore, è questa la strada, tanto più oggi, dopo che il femminismo ha spezzato l’unità del genere, l’identità delle donne e l’univocità quindi dell’opera femminile nel mondo.

Strada stretta, dice Cigarini, che tuttavia ha aperto uno spazio simbolico percorso da donne in paesi e contesti diversi.    Manuela Fraire in uno scritto in “Aut Aut” del ‘77 segnalava come “il partire da sé, nel mettersi su quella strada, ha implicato un lavoro lento e penoso che l’oggettività cruda degli eventi rischia continuamente di schiacciare” e nella postfazione riprende Lonzi “Il blocco va forzato, una a una, é questo il presupposto di ogni cambiamento”.
Funziona ancora questo? Ci crediamo ancora? Significa erigersi contro questo blocco una ad una. Siamo ancora in questa posizione o ne forniamo un’altra variante? O siamo impegnate nella generalizzazione, ripetizione e prescrittività della nostra teoria - pratica politica?

Nel gruppo “Balena” Bianca Pomeranzi, nella fase iniziale, propose di coniugare il partire da sé con la geopolitica. Operazione difficile, suggestiva: si guarda la politica, la globalizzazione, la guerra a partire dalla situazione, dal posizionamento della singola. Stare a questo, anche in “Balena”, è difficile, non sempre si riesce.
Tuttavia è molto significativo che di fronte alla guerra del Kosovo, “Balena” abbia ripreso la forma del piccolo gruppo, molto della pratica degli anni Settanta, il pensare insieme in presenza.
Marina Graziosi, all’ultima riunione di “Balena” diceva che quando riusciamo a stare a questo, prende forma una creatività circolante, in cui ognuna dà il meglio di sé. Senza questa fase intermedia, possiamo stare in questa assemblea da provenienze diverse e metterci in viaggio insieme nel mondo?

Siamo qui “vecchie ragazze e donne nuove” ad interrogarci su questa questione, attraversate dalle differenze politiche: come possiamo tenere aperto uno spazio pubblico creato dalla rivoluzione femminista se la pratica che lo ha reso possibile si esaurisce in due modi o è accantonata o si irrigidisce nella ripetizione?

La pratica è l’autocoscienza e Manuela Fraire nel Lessico offre una indicazione preziosa “la caratteristica dell’autocoscienza è l’incompletezza, cioè è una pratica che ha continuamente fatto e disfatto le nostre stesse acquisizioni, senza perdere una direzione”.
Il lessico mostra questo slegare continuamente i nessi, non solo tra le donne e la cultura ma anche tra le femministe e la loro cultura, tra le femministe e i loro gruppi.

Il disfare è una soluzione del pensare e quindi anche dell’agire ed è quella che di volta in volta permette di riconoscere quello che nei processi di simbolizzazione, di produzione di senso e anche di modificazione della realtà, viene lasciato di sé: il resto che Manuela dice inesauribile, che non è il negativo, l’empirico, l’immediatezza, l’accidentalità, che va lasciata comunque cadere, se no non si procede nel pensiero. È “tributo di carne e di sangue”.

Cosa vuol dire procedere rifiutando il resto, accettando il resto o lasciandolo a sé? Cosa vuol dire procedere nel fare?
Non vuol dire il fare pratico, soltanto, ma il fare della mente, senza trattenersi anche dall’opera del disfare.

Oggi noi femministe siamo nella posizione di chi si è fatta autrice attiva di un processo di simbolizzazione, modificazione della realtà.
Non siamo più solo nella posizione che tradizionalmente le donne hanno occupato. Su questo bisogna rileggersi una pagina di Hegel, nessun uomo ha detto così bene come lui perché era necessario il femminile alla storia umana: perché qualcuno doveva custodire l’immediatezza, la contingenza, il prendersi cura.
Noi non siamo più e non vogliamo essere quelle che per definizione si prendono cura; siamo quelle che producono anche resto, perché procediamo nella strada del pensiero, del mettere in parola, abbiamo cambiato compito e segno all’essere donna, al soggetto femminile.

Dunque quel tributo non ha più risarcimento. Per questo è essenziale non adottare la stessa modalità maschile nel fare ordine simbolico e sociale, dobbiamo accettare che anche noi produciamo un “tributo di carne e sangue” che è inevitabile per quella funzione inesauribile del resto di cui parla Manuela Fraire e per questo dobbiamo intrecciare il fare e il disfare, altrimenti questo resto diventerà un tributo troppo grande, schiaccerà l’impresa umana".